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Un sistema penitenziario, tante esperienze detentive

4.2. Questione di risorse

Nel 1994 Berzano ha introdotto il noto schema sulle forme sociali della condi- zione carceraria, che deriva dall’incrocio tra due variabili: le risorse personali e le risorse sociali della persona detenuta (Berzano, 1994, p. 116). Tra le risorse perso- nali, l’Autore annovera in particolare l’aver partecipato a corsi di formazione e ad attività lavorative prima dell’ingresso in carcere e all’interno. Tra le risorse sociali,  egli individua in particolare la presenza di reti di solidarietà esterne e di progetti  per il futuro.

Incrociando le due variabili otteniamo quattro idealtipi di esperienza detentiva: •  in presenza di forti risorse sia personali che sociali, il carcere viene con più pro-

babilità vissuto come parentesi;

•  in presenza di risorse personali forti e risorse sociali deboli, è più frequente una significativa mobilitazione interna, che può favorire un miglioramento delle con- dizioni di detenzione, ma che incide poco sull’accesso ad una misura alternativa; •  in presenza di risorse personali deboli e risorse sociali forti, è probabile che vi sia

una mobilitazione esterna (da parte di famiglie, reti solidaristiche, ecc.) che in- cide soprattutto sulla possibilità di accesso ad una misura alternativa e, in parte,  anche sulla detenzione;

•  in presenza di deboli risorse sia personali che sociali è probabile che il carcere diventi terminale dell’esclusione.

Tale distinzione, di per sé, avvalora la tesi della relatività della detenzione che  abbiamo visto minare il principio di proporzionalità delle pene. La riflessione di  Berzano ruota attorno al rapporto carcere-lavoro (tema che interessa particolarmen- te l’oggetto della nostra ricerca), ma potrebbe essere allargata al complesso della vita detentiva: “In generale, l’esperienza del carcere sembra essere molto più dura per quei detenuti che non riescono ad inserirsi nelle attività lavorative, nelle attività  culturali e ricreative e nelle reti sociali all’interno della prigione: si tratta dei gruppi più vulnerabili che non riescono ad agire in modo significativo in un contesto di  profonda de-responsabilizzazione e deprivazione.” (Vianello, 2012, p. 68).

In che misura essa trova riscontro nella realtà osservata attraverso la ricerca? Per  rispondere a tale interrogativo proviamo a fare qualche considerazione sull’impatto

Costa (2013), Ronco, Torrente, Miravalle (2014) oltre che dai numeri monografici 2/2015  di “Déviance et Société”, dedicato alla “Recherche en Prison” a cura di Vianello e 2/2016 di  “Etnografia  e  ricerca  sociale”  dal  titolo  “La  ricerca  qualitativa  in  carcere”  (a  cura  di  Vianello e Sbraccia).

del carcere così come narrato dagli intervistati.

Si riporta qui di seguito innanzitutto la testimonianza di una persona tra le po- chissime intervistate dotata di risorse personali e sociali, con un buon percorso for- mativo e lavorativo precedente alla condanna alla detenzione e una rete familiare e solidale.

“Per carità, devo essere sincero, non era il carcere tipo Alcatraz […] Comunque non ha influito assolutamente la mia detenzione, anzi, ero diventato il personal trainer del carcere. Sì, li tiravo giù dal letto e alle 10 mi sentivano urlare nel cortile. Chi è abituato a coman- dare comanda dappertutto, che brutta abitudine.” (Int. N. 8)

L’intervistato ha un passato di formazione e lavoro redditizio, da dirigente e in proprio, una condanna per rapina e due per evasione da misure alternative, lavo- ra a tempo indeterminato da qualche anno presso una ditta in cui è stato inserito tramite la borsa-lavoro. Più volte durante l’intervista manifesta un atteggiamento apparentemente sprezzante nei confronti dei soldi (“Quando non ne hai non è mai

un problema, perché la gente pensa che il problema sia non averne. Il problema è averne e poi restare senza. Non è non averne, la gente non capisce per questo”) e

dell’Italia e progetta di andare all’estero una volta finito di lavorare. All’interno del  carcere ha avuto modo di seguire un corso di formazione professionale (retribuito) nel ramo informatico.

Qui a seguire, invece, una testimonianza, ben più rappresentativa della maggio- ranza del campione, in cui emerge tutta la solitudine del carcere.

“Mah in carcere se sei solo è brutto. Io quando sono stato arrestato va bè, avevo mia moglie, io adesso sono separato, non ho mai voluto mia moglie a colloquio, perché mia moglie non fa parte di quel genere di vita, arriva da una famiglia per bene, è tutta gente di Chiesa, di qua e di là e… Per me è sempre stata dura perché non facevo colloqui, senza soldi, però dicevo boh, stringo i denti, me la sono cercata, vado avanti, non è che devi stare lì a piangerti addosso, ho sbagliato, è giusto che pago e bon. Ma il momento più brutto è quando sei solo comunque. La solitudine nell’impatto del carcere... Già il carcere è brutto in se stesso, non per il carcere, perché ci sono 4 sbarre, è per la gente che c’è, la gente che trovi comunque, lì non è come fanno vedere in televisione, lì tutti i giorni è una lotta. Parli con gli educatori, gli assistenti sociali, progetto qua, progetto là, ma non fanno vedere le esigenze vere, che ci sono comunque, no? E’ normale.” (Int. N. 5)

La testimonianza è di una persona con un passato di tossicodipendenza e varie condanne per rapine, con una disabilità pari al 90%, un’ex moglie e un figlio di  18 anni. Dal punto di vista lavorativo ha avuto soltanto una borsa-lavoro e poche altre esperienze temporanee. In carcere non ha mai seguito corsi di formazione professionale né ha svolto lavori qualificanti, ma ha soltanto svolto lavori interni  poco qualificanti e in maniera sporadica. Vive in una casa popolare con la pensione  minima di invalidità, ha ricevuto sostegno dalle agenzie per le bollette e dalla par-

rocchia per i viveri.

Le due testimonianze descrivono percorsi esistenziali molto differenti, acco- munati probabilmente soltanto dall’aver trascorso un periodo in carcere. Ma an- che questo periodo sembra essere stato vissuto in maniera piuttosto differente. Indubbiamente i fattori che influiscono sul tipo di detenzione sono molti e com- plessi. Tuttavia, dalla narrazione delle storie di vita emerge in maniera piuttosto nitida la contrapposizione tra opportunità molto differenti, riconducibili al possesso  o meno di risorse personali e sociali. Secondo lo schema proposto da Berzano, po- tremmo collocare la prima testimonianza tra coloro che vivono il carcere come pa- rentesi e la seconda tra coloro che vivono il carcere come terminale dell’esclusione.

Se tale lettura può risultare particolarmente interessante e utile per sviluppare una serie di considerazioni sulle diseguaglianze nell’accesso ai diritti di cittadinan- za, al contempo resta l’interrogativo sulle ragioni che spingono chi sembrerebbe destinato all’esclusione a non ricadere in comportamenti devianti. Vari approcci teorici (dalla teoria dell’etichettamento, al paradigma sociale della devianza, alla prospettiva realista) mettono in luce, pur da prospettive differenti, il carattere reci- divante del carcere. Il tasso di recidiva della popolazione oggetto della nostra ricer- ca, invece, risulta piuttosto basso e, quindi si pone, ancora una volta, la necessità  di approfondire le ragioni alla base del fatto che molte persone, al momento, non hanno reagito alle difficoltà insite nel reinserimento compiendo nuovi reati. A que- sto proposito, molte delle narrazioni attribuiscono rilevanza alla presenza o meno di una famiglia o comunque di una rete amicale/sociale forte.