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Gradualità del riferimento Grado di soddisfacimento

Nel documento Azione e Riferimento (pagine 111-114)

C4 I L RIFERIMENTO : UNA VITA IN SEMANTICA

4.2 Gradualità del riferimento Grado di soddisfacimento

Prima di affrontare il tema del grado di referenzialità, è bene chiarire che esso non dipende dall’eventuale soddisfacimento da parte del referente inteso del contenuto descrittivo di un’espressione usata dal parlante. Chiamo quest’ultimo grado di soddisfacimento. Anche esso ha una sua rilevanza nella spiegazione di alcuni usi referenziali, almeno se, come credo, è corretto pensare che anche le maldescrizioni possano essere usate per riferirsi (semanticamente) a un oggetto. Il punto, che sarà oggetto di analisi (sezione 4.4), è che una descrizione, anche se non è calzante per l’oggetto cui il parlante intende riferirsi, deve effettivamente descrivere il referente, essere basata su qualche tratto dell’oggetto. Tanto più ciò ha senso se è vero che il riferimento è orientato alla ricezione (sezione 4.3).

Grado di referenzialità

“degree of identificatory force” di cui tratta Strawson in Subject and Predicate in

Logic and Grammar (1974). La nozione è introdotta da Strawson allo scopo di

analizzare il comportamento dei termini generali usati con funzione referenziale. La sua idea è che non tutti i termini generali abbiano la stessa capacità di riferirsi a un oggetto. Parafrasandolo, potremmo dire che la funzione referenziale può essere esemplificata con varie espressioni, con gradi di efficacia diversi.

Per Strawson, la varietà di espressioni andava cercata all’interno della categoria dei termini generali, mentre io ho difeso l’idea (terzo capitolo) che anche i nomi propri possano essere più o meno efficaci per riferirsi a un oggetto, a seconda di quali siano le convenzioni vigenti in un dato contesto d’uso. Una differenza ulteriore con Strawson è che la mia teoria ha un’inclinazione nettamente donnellaniana, dato che fa variare l’efficacia di una data espressione di occasione in occasione, mentre per Strawson ogni espressione è portatrice di un certo grado di efficacia referenziale indipendentemente dal contesto.

Una domanda sorge spontanea. Che effetto ha sulle condizioni di verità di un enunciato il maggiore o minore grado di referenzialità di un’espressione in posizione di soggetto? La risposta breve è: nessuno. Ma, ovviamente, sono necessari dei distinguo. Il primo è che nel modello che sto proponendo è previsto che il riferimento possa fallire: in quel caso le condizioni di verità dell’enunciato non possono restare inalterate.89

      

89 Sarebbe possibile discutere se l’enunciato sarebbe da considerarsi falso oppure senza

valore di verità. Dato che il problema nasce dal fatto di aver compiuto un atto infelice, forse sarebbe più sensato pensare che l’enunciato non sia falso ma privo di valore di verità. Allo stesso tempo, mi sembrerebbe controintuitivo sostenere che “Babbo Natale non esiste” non ha alcun valore di verità. Probabilmente, la direzione per trovare una soluzione sta considerare il fatto che si possono fare tante cose con un nome. Questa soluzione era suggerita anche nella sezione 2.3 quando ho esaminato l’enunciato “Carlos Ramirez non esiste”.

Ora, se c’è la possibilità del fallimento e c’è una gradualità, deve esserci una soglia, sulla scala, che determina se il riferimento è efficace. Oltre la soglia c’è riferimento efficace, prima di essa no. Di nuovo, allora qual è l’utilità di una nozione di gradualità se in ultima istanza tutto è riconducibile a due tipi di posizioni? E inoltre: come si posiziona la soglia? Come si decide cosa sta da una parte e cosa dall’altra? Sono domande che meritano una risposta.

Prima di procedere, ecco una rappresentazione grafica di quanto appena esposto: la linea orizzontale sta per il grado di referenzialità, un punto su di essa per l’atto referenziale, la linea verticale per la soglia del fallimento.

   

Le domande poste poco fa riguardano lo stesso punto, perciò la risposta è unica. Essa consiste nell’accettare che ci siano solo due tipi di posizioni, corrispondenti al riferimento fallito e a quello riuscito, difendendo l’utilità della nozione di gradualità su un altro terreno: il posizionamento della soglia del fallimento. Come ho sostenuto nel secondo capitolo, in tanti casi può essere difficile, o addirittura impossibile, determinare se un proferimento vada considerato come riferimento riuscito. A seconda di ciò che si sta facendo, dello scopo del proferimento, l’efficacia dell’atto referenziale e la posizione della soglia del fallimento variano (vedi esempio della roccia scambiata per un uomo col bastone, sezione 4.3, Scopo e uditorio). Il punto è che l’atto referenziale e la sua felicità dipendono da una serie complessa di fattori e mettono in gioco una sorta di contrattazione tra la soggettività del parlante, le espressioni da lui usate, le convenzioni vigenti al momento del proferimento, e l’uditorio cui il proferimento è rivolto (come vedremo a

Fallimento  referenziale 

Comunicazione  efficace  G   r   a   d   o    d i    r   e   f   e   r   e   n   z   i   a   l   i   t   à 

breve). Perciò descrivere il riferimento come un punto su una scala graduata ci permette di comprenderne meglio il funzionamento e ciò che può determinarne il fallimento.

Ciò ci porta a fare un’altra riflessione. Concepire il riferimento come un atto ci dà modo di vedere in esso qualcosa di più che un elemento costituente le condizione di verità dell’enunciato. Se riferimento è essenzialmente riferirsi, fare qualcosa con le parole, è importante comprendere meglio quegli aspetti dell’atto che non hanno a che fare con la verità ma servono per descrivere meglio l’atto stesso. La gradualità del riferimento, la tensione del parlante nel comunicare qualcosa a qualcuno e l’efficacia variabile ottenuta in questo scopo costituiscono alcuni di quegli aspetti, indispensabili per una comprensione piena del fenomeno.

4.3 Una teoria orientata alla ricezione

Nel documento Azione e Riferimento (pagine 111-114)