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Specie e genere referenziali L’armonia dell’atto linguistico

Nel documento Azione e Riferimento (pagine 69-74)

riferimento è un atto, che può fallire quando una delle condizioni necessarie che lo caratterizzano non è soddisfatta. Questi casi, inoltre, sono una leva per sostenere l’affinità del comportamento semantico di nomi propri, indicali e descrizioni usate referenzialmente.

Gli altri

Alcuni (Russell) cercano di assimilare i nomi alle descrizioni e dire che nessuno dei due fa riferimento. Abbiamo visto che il modello fondamentale per Russell è quello quantificazionale/denotazionale. Altri (Martí) cercano di assimilare le descrizioni ai nomi e dire che entrambi fanno riferimento. Questa posizione non è stata presa in esame finora ma lo sarà nel quarto capitolo. Altri ancora (e.g., Kripke) dicono che nomi e descrizioni sono diversi e i primi fanno riferimento e le seconde no, data una certa accezione donnellaniana di “riferimento”. Per Kripke, i nomi si riferiscono direttamente al portatore, non via soddisfazione, ma le descrizioni sono legate al modello soddisfazionale.56 La mia posizione è che bisogna

riconoscere le diversità tra i tipi di espressioni. È opportuno, però, riunire nomi, descrizioni e indicali sotto un unico genere, quello delle espressioni referenziali, di cui questi sono specie.

Affinità

La mia tesi è che ci sia dell’affinità nel riferimento di nomi propri e descrizioni referenziali (e indicali), ma che ci siano anche delle differenze che non possiamo ignorare. L’affinità sta nella necessità di un legame causale tra       

56 Da un certo punto di vista, per Kripke sia nomi che descrizioni appartengono al

modello denotazionale, nella misura in cui per entrambi i tipi di espressioni soddisfano lo schema “il referente di ‘X’ è X” (Kripke 1980, p. 25, nota 3). Da un altro punto di vista, quello esposto nel testo principale, per Kripke nomi e descrizioni differiscono: solo le descrizioni si “riferiscono” via predicato. Per un approfondimento della nozione di riferimento in Kripke, vedi il terzo capitolo.

parlante e oggetto e nella soddisfazione di certe condizioni contestuali. Ciò che sostengo è che il riferimento può essere compiuto e può fallire con ognuna di queste categorie linguistiche. Chiaramente, il fatto che le espressioni appartenenti a tali categorie abbiano una caratteristica in comune (la possibilità del fallimento) non è sufficiente in sé per dedurre che nomi e descrizioni siano specie diverse di un unico genere, quello delle espressioni referenziali. Qui, però, partiamo da affinità forti: queste espressioni servono per identificare gli oggetti e sembrano poter fallire in modi simili, che non hanno a che fare con il mancato soddisfacimento.

Disomogeneità

Una disomogeneità fondamentale tra i nomi propri e le altre categorie linguistiche considerate è evidente: tutte le espressioni che non sono nomi hanno un significato indipendentemente da quale sia il referente. Alcuni hanno insistito su un punto di questo tipo, opponendosi alla tesi di Donnellan sulle descrizioni definite. Anche Kripke ha avanzato delle critiche all’incirca su questa linea, insistendo che il significato di una descrizione è antecedente all’uso referenziale che se ne può fare. In realtà la posizione di Kripke è molto più sfumata di così, come si vede nel terzo capitolo.

C3.KRIPKE

Introduzione

Questo capitolo è dedicato principalmente ad analizzare alcune tesi difese da Kripke in Naming and Necessity (1972/1980) e in “Speaker’s Reference and Semantic Reference” (1977). Soprattutto nell’articolo sono contenuti molti degli strumenti usati dagli “antireferenzialisti” sulle descrizioni per attaccare la teoria di Donnellan. Il focus sarà sulle differenze che ci sono tra l’uso referenziale di queste e l’uso referenziale dei nomi propri.

Kripke ritiene che gli usi referenziali non abbiano a che fare con la semantica delle descrizioni, con ciò che le descrizioni significano, ma riguardino ciò che si può fare con esse (vedi sezione 3.1). Come si vede nella sezione 3.3, il punto è particolarmente importante in relazione al fatto che per Kripke l’opposizione tra referenziale e attributivo – Kripke riprende la distinzione, dando un senso diverso alle nozioni – non concerne il parlare di specifici particolari vs. il denotare l’unico soddisfacitore di un predicato.

La posizione di Kripke, che rispecchia abbastanza il paradigma classico, è che la nozione di significato rilevante per determinare le condizioni di verità di un enunciato è quella indipendente dal contesto. Solo le espressioni tipo- deittiche e quelle (semanticamente) ambigue sarebbero dipendenti dal contesto (e possibilmente dalle intenzioni) e rilevanti per le condizioni di verità dell’enunciato.

Le tesi di Donnellan sulla referenzialità delle descrizioni definite non sono immediatamente compatibili con questo quadro. Nella prima sezione del capitolo tratto il seguente problema: le descrizioni per Donnellan sarebbero

usate referenzialmente, non sarebbero esse stesse in quanto espressioni a essere

referenziali. Successivamente (3.2) considero più approfonditamente che cosa voglia dire per le descrizioni definite essere ambigue, distinguendo tra ambiguità semantica e ambiguità pragmatica.

Riguardo alla tesi dell’ambiguità (semantica) delle descrizioni, Kripke conclude esprimendo una preferenza per le teorie unitarie, come quella di Russell, che non ne postulano alcuna. Nella sezione 3.2 difendo l’idea che le descrizioni definite siano ambigue anche sfruttando argomenti che rendono plausibile l’idea che pure i nomi propri, le espressioni referenziali per eccellenza, lo siano.

Nella sezione 3.3, invece, riprendo la distinzione tra referenziale e attributivo, così come la dipinge Kripke, fondandola sulle nozioni di riferimento del parlante e riferimento semantico. Nella teoria di Kripke, il riferimento semantico si basa sulla convenzione di significato associata a una parola e sull’intenzione

generale del parlante di sfruttare tale convenzione, mentre il riferimento del parlante è legato alle intenzioni specifiche del parlante, dipende dall’interesse che

egli ha nell’usare delle parole per fini particolari. In questa sezione cerco di mostrare che se la differenza fosse questa, i due tipi di uso non sarebbero effettivamente distinti. In particolare, il mio intento è mostrare che perché le convenzioni di significato (relative ai nomi propri) siano efficaci, bisogna che siano utilizzate nel contesto adatto, secondo intenzioni specifiche.57 Cioè: le

      

57 Parlo di convenzioni di significato ma forse sarebbe più corretto aggiungere una

menzione per le convenzioni referenziali, per restare neutrali rispetto alla possibilità che il referente sia il significato del nome. Nel seguito (soprattutto nella sezione 3.3), comunque, parlerò solo di convenzioni di significato per gli usi attributivi – e non di convenzioni referenziali – per non creare confusione con gli usi referenziali.

convenzioni non sono sufficienti a determinare il riferimento di un nome proprio e le intenzioni specifiche sono necessarie.

Nell’ultima sezione tiro le fila di quanto sostenuto in questo capitolo, legandolo anche a ciò che precede, e proiettandolo verso la conclusione del lavoro, che ne costituisce la parte più propositiva.

3.1 Russell resta in piedi

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