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La relazione tra la parabola delle Dieci vergini e il sacramento del battesimo, trova un’efficace   sottolineatura   nell’Orazione n. 40 di Gregorio Nazianzeno, la terza di un ciclo di scritti destinati ad essere letti pubblicamente, a   brevissima   distanza   l’uno   dall’altro:  l’orazione  n.  38  per  il  Natale,  la  n.  39  per  l’Epifania  e  la  n.  40  pronunciata  il   giorno successivo alla Festa delle luci, come la nominò proprio Gregorio72. Il complesso delle quarantacinque orazioni affronta, in maniera approfondita, alcune delle principali questioni dogmatiche che Gregorio sentiva la necessità di chiarire insieme a questioni dettate dalla contingenza dei fatti (nelle orazioni teologiche ad esempio, prende in esame   il   tema   dell’ortodossia   trinitaria   secondo   il   credo   niceno   o   il   problema   delle letture pagane ammissibili per i giovani cristiani, cui si aggiungono le invettive contro

70 In alcune raffigurazioni italiane del Giudizio universale si può osservare il fiume di fuoco, come ad esempio, nel celebre Giudizio giottesco  dell’Arena  dove  questo  elemento  sgorga  dalla  mandorla  entro  cui   troneggia   Cristo,   ripartendosi   in   quattro   corsi   differenti:   un’esatta   opposizione   ai   quattro   fiumi   paradisiaci. Sul ciclo patavino rinvio a: Christe 1995, pp. 800-802; Frugoni 2008. In ogni caso, il tema del fuoco non è mai associato, nelle testimonianze note, alla parabola delle Dieci vergini.

71 Il Codice di Rossano rappresenta il più antico esempio conservato in miniatura che raffiguri la scena finale di Mt 25, 1-13. Su  quest’opera   rinvio  a:   De’  Maffei  1992.  Ulteriori  rinvii  focalizzati  sulla  scena   delle Dieci vergini nel Codice calabrese si trovano in: Körkel-Hinkfot 1994, p. 434 e passim e, con riferimenti  all’esegesi  patristica,  in  Kessler  1994,  p.  142.

72 Originario della   Cappadocia,   fu   nominato   nel   380   vescovo   di   Costantinopoli   dall’imperatore   Teodosio I (379-390). Dottore e Padre cappadoceno della Chiesa orientale, Gregorio fu autore prolifico tanto nel campo della teologia che in quello della poesia, così da guadagnarsi   l’appellativo   di   “oratore   cristiano  per  eccellenza”.  La  nomina  di  Gregorio  a  vescovo  della  capitale  orientale  dell’impero,  segue  di   un  paio  d’anni  la  disastrosa  battaglia  di  Adrianopoli  (378),  a  seguito  della  quale  prese  potere  Teodosio  I.   Sul versante   religioso   proprio   con   quest’ultimo   imperatore   si   concluse   finalmente,   dopo   oltre   sessant’anni,   la   questione   ariana   con   il   trionfo   della   posizione   nicena   e   l’imposizione   della   religione   cristiana  come  unico  culto  professabile  entro  i  confini  dell’impero. Per queste brevissima sintesi, mi sono servita di: Flusin 2007, in part. pp. 65-69.

Per un sintetico quadro della biografia di Gregorio di Nazianzo (326-390) e delle sue opere rinvio a: Drobner 2007. Esiste anche una versione poetica della pericope: Gregorio di Nazianzo, Poesie, pp. 62-63, 109.

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Giuliano  l’Apostata  o  le  orazioni  funebri  dedicate  agli  amici  come  Basilio).  L’Orazione n. 40 è una delle più lunghe ed è incentrata unicamente sul sacramento del battesimo. La relazione   tra   la   parabola   ed   il   battesimo   si   gioca   su   due   fronti:   l’identificazione   della   luce   e   il   possederla   come   elemento   di   salvezza   da   un   lato,   e   l’utilizzazione   della   parabola quale sigillo conclusivo di un testo che si presenta come un lungo carpe diem di carattere cristiano. Questo nesso tra battesimo e parabola è tipico degli autori della Chiesa orientale come Cirillo di Gerusalemme, Giovanni Crisostomo o Basilio il Grande   (ma   si   veda   anche   Ilario   di   Poitiers:   “le   lampade   sono   la   luce   delle anime risplendenti  che  il  sacramento  del  battesimo  fa  brillare”)73.

Gregorio si rivolge al suo pubblico in maniera molto confidenziale e partecipata, cercando di convincere i suoi uditori della necessità di ricevere il battesimo il prima possibile (dai tre anni e mezzo in su) per non correre il rischio di non poter godere del suo beneficio. Il contesto di questo accorato appello viene spiegato da Chiara Sani che evidenzia come, ancora nel IV secolo, la maggioranza dei cristiani tendeva a procrastinare l’appuntamento   con  questo   sacramento74. È dunque a loro che si rivolge Gregorio con pagine dense di un eloquio non solo molto convincente, ma anche ricco di sfumature  poetiche  attraverso  una  sapiente  selezione  di  metafore  e  un’oculata  alternanza   dei toni.

Nel testo i due elementi centrali sono il tempo e la luce: il tempo come momento, come occasione favorevole per la propria salvezza che non può essere lasciato scorrere per paura, inerzia o disattenzione; la luce quale simbolo del dono del battesimo come “il   più bello dei doni di Dio, come chiave del Regno dei cieli, la più santa tra tutte le illuminazioni   che   esistono   in   noi”75.   L’Orazione è   percorsa   dall’ansia   pastorale   di   un   capo spirituale nei confronti del popolo che gli è stato affidato, affinché provveda alla propria salvezza: Gregorio indica la strada da seguire, segnalando i pericoli che si corrono nel rinviare il momento del battesimo e i benefici che derivano da questo sacramento  poiché  “chi  più  somiglia  a  Dio  ha  maggiore  luce”76.Il piano della luce e del

73 Dulaey 2004, p. 305

74 Una prima motivazione trova origine nella convinzione, fortemente radicata, che il battesimo togliesse sì le colpe compiute prima di riceverlo, ma fosse poi completamente inefficace per i peccati commessi dopo aver ricevuto il sacramento. La seconda ragione, ha invece origine nel trauma dei cristiani perseguitati  che   fino  all’inizio  del   IV   secolo,  dovettero  rinnegare   il  proprio  battesimo,   macchiandosi  in   questo modo di una colpa gravissima. Per non correre alcun rischio, i fedeli tendevano quindi a rimandare questo appuntamento agli anni della vecchiaia: Sani 2000, p. lxxvii.

75

Gregorio di Nazianzo, Orazioni, p. 925. 76 Ibid., p. 927.

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tempo  si  intersecano  continuamente.  In  un  passaggio  sulla  differenza  tra  l’intenzione  di   battezzarsi e il compiere tale azione, Gregorio ammonisce così i suoi fedeli:

ricevete  l’illuminazione  finché  siete  in  tempo  affinché  la  tenebra  non  vi  insegua e non vi afferri, separandovi  dall’illuminazione  …  Tu  accampi  un  pretesto  dopo  l’altro  …  E  poi?  All’improvviso   giungerà  la  fine  nel  giorno  in  cui  meno  te  l’aspetti  e  nell’ora  che  tu  non  conosci77.

Questo è uno dei passi più espliciti che fa riferimento alla parabola delle Dieci vergini  anche  se,  in   realtà,  come  osserva  Maria   Vincelli   “in   tutto   il  capitolo   Gregorio   rievoca  la  parabola  delle  vergini  savie  e  stolte  per  esemplificare  l’idea  che  è  necessario   non   procrastinare   il   battesimo”78. La parabola di Mt 25, 1-13 viene scelta quale ammonimento conclusivo: un sigillo ricco di pathos a termine della lunga esortazione. Un sigillo ed un ammonimento che sono però ricchi di speranza per il futuro. È con queste parole che Gregorio si congeda, chiudendo la sua orazione:

Però  voglio  darti  una  buona  novella:  l’atteggiamento  che  tu  assumerai  dopo  il  battesimo,  prima  di   salire sulla grande tribuna79, è una prefigurazione della gloria futura. La salmodia con la quale sarai   accolto,   è   il   proemio   dell’inno   dei   cieli.   Le lampade che tu accenderai, sono il mistero dell’illuminazione   che   viene   dall’alto,   con   la   quale   noi   andremo   incontro   allo   sposo,   noi   anime   brillanti e virginali, con le splendenti lucerne della fede80.

1.6 Agostino

L’esegesi   agostiniana   della   parabola   di Matteo svolge un ruolo fondamentale non solo per le  opere  dei  secoli  immediatamente  successivi,  ma  anche  oltre  l’età  medievale   per il nesso strettissimo che salda fede e filosofia e per la peculiare accezione con cui egli intende la filosofia, studio in cui  si  fondono  la  ragione  e  l’auctoritas cristiana81. La

77 Ibid., p. 949. 78 Ibid., p. 1367.

79 “Era   una   specie   di  rialzo  a   gradini  sul  quale   si  ergeva   l’altare.  Questo  passo  di  Gregorio  è   d’una   notevole importanza storica, perché costituisce il più esplicito e particolareggiato resoconto superstite su taluni   riti   conclusivi   del   sacramento.   Ricevuta   l’unzione   battesimale   dal sacerdote celebrante, il nuovo fedele si rivestiva degli abiti bianchi, che avrebbe conservati fino alla domenica seguente. Usciva quindi dal  battistero  e  si  recava  al  consignatorum,  dove,  in  Oriente,  riceveva  l’unzione  cresimale  dal  sacerdote   stesso, mentre  in  Occidente  essa  gli  veniva  impartita  dal  vescovo  insieme  con  l’imposizione  delle  mani.   Poi processionalmente, al canto dei salmi e tenendo in mano un lume acceso, il neofita insieme al clero entrava nella chiesa, dove partecipava, per la prima volta,  alla  liturgia  eucaristica”:  Trisoglio  2002,  p.  206   n. 76

80 Gregorio di Nazianzo, Orazioni, p. 977.

81 Agostino   d’Ippona   nacque   a   Tagaste   (Africa   settentrionale)   nel   354.   L’educazione   ai   precetti   cristiani  fin  dall’infanzia  non  si  tradusse,  come  è  noto,  in un cammino di fede lineare e privo di dubbi. Dopo  una  lunga  pausa  di  tormentata  ricerca,  e  a  seguito  dell’incontro  con  il  vescovo  di  Milano  Ambrogio  

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speculazione teologica, sondando il mistero di Dio, non si svincola tuttavia dall’indagine  sull’anima  e  sull’uomo  e,  come  si  vedrà,  è  proprio  la centralità assegnata all’individuo e  all’intenzione  personale nel compiere le buone opere, che caratterizza la sua esegesi sulla pericope matteana.

L’analisi  di  Mt  25,  1-13  impegna  Agostino  quattro  volte  nell’arco  di  un  ventennio,   tra il 394-395 e il 412: sarà in particolare la Quaestio 59 ad avere notevole fortuna presso gli autori successivi82.   Marcello   Marin,   principale   studioso   dell’esegesi   agostiniana sulla parabola, ritiene che la riflessione del vescovo di Ippona abbia raggiunto un vertice insuperato per coerenza di metodo ed immissione di nuovi significati – con   particolare   riferimento   all’interpretazione   dell’olio   – ponendosi così quale punto di riferimento per la successiva esegesi occidentale83. Agostino insiste in maniera   specifica   su   alcuni   aspetti:   il   ruolo   svolto   dall’intenzione   personale   nel   compiere le opere, il rapporto intimo con Dio, la distinzione tra la gioia interiore e vera e quella esteriore ed illusoria. Questi temi, sviluppati da Agostino con il supporto delle frequenti citazioni evangeliche, si saldano alla concezione della salvezza quale dono che promana da Dio.

Le  dieci  vergini  sono  simbolo  dell’intero  popolo  cristiano,  mentre  il  numero  cinque   rappresenta   i   sensi   dell’uomo.   Smarcandosi   dalla   tradizione   interpretativa   precedente,   Agostino non intende operare la divisione tra sagge stolte sulla base di un uso corretto o non  corretto  dei  sensi:  al  contrario,  il  numero  cinque  rappresenta  l’integrità  propria  di   ogni   vergine.   Trattandosi   di   una   parabola   che   si   rivolge   all’intero   popolo   cristiano   (il   numero  dieci),  l’integrità  non  può  che  essere quella del cuore: la comunità cristiana è rappresentata infatti da numerose persone che non hanno preservato la castità del corpo ma non per questo, osserva Agostino, devono essere escluse dal novero (simbolico) delle vergini. Le lampade sono immagine delle opere buone: tutte le vergini le hanno

nel 384, Agostino si fece battezzare in occasione della Pasqua del 387 dallo stesso titolare della cattedra milanese. Tornato in Italia pochi anni dopo, fu nominato vescovo di Ippona nel 395. La sua vita e le sue opere   furono   poste   al   servizio   della   lotta   contro   l’eresia   (in   particolare   quella   pelagiana),   del   contrasto   delle tesi manichee e della ricomposizione dello scisma che aveva tenuto separati i donatisti dalla chiesa cattolica.   Morì   ad   Ippona   nel   430.   Gli   studi   sulla   vita   e   l’opera   di   Agostino   sono   molto   numerosi:   mi   limito quindi a rinviare alle note di Cipriani 2007.

82 Marin 1981a, pp. 48-49. Le quattro opere sono: la menzionata Quaestio 59 Liber de diversis

quaestionibus LXXXIII, che rappresenta il primo scritto in cui Agostino affronta il brano delle Dieci

vergini; il Sermo 93,  l’Enarratio in psalmos 147  e  l’Epistola 140 in cui le considerazioni elaborate nella

Quaestio 59 vengono riprese. Questi quattro testi sono stati studiati approfonditamente, in relazione

all’esegesi  su  Mt  25,  1-13, da Marcello Marin in due saggi presi come riferimento per questa sintetica esposizione che si presenta, data la complessità della materia trattata, come una rielaborazione di questi contribuiti cui ho aggiunto alcuni elementi personali: Marin 1981a e Marin 1981b.

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con   loro   sino   all’epilogo   del   racconto   di   Matteo.   Agostino   continua   a   differire   la   divisione  in  due  gruppi  a  dispetto  non  solo  dell’esegesi  a  lui  precedente,  ma  anche  della   stessa pericope matteana che inizia proprio mettendo in risalto la diversa condizione delle due schiere di fanciulle (Mt 25,2). La tradizione interpretativa precedente, come si è detto, si è premurata di distinguere le sagge e le stolte a priori, secondo un rigido criterio binario. Per Agostino invece, fino al momento cruciale della verifica della quantità  d’olio,  il  popolo  cristiano  resta  ancora  un  corpo  unico  poiché  tutti  abbiamo  le   opere buone (lampade), tutti siamo predisposti a compiere le opere di carità. Questo passaggio sulla predisposizione   è   molto   importante   nell’esegesi   agostiniana   della   parabola  e   fa   riferimento   ad  una  lettera  paolina   agli  Efesini:   “per  questa  grazia  infatti   siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere perché nessuno possa   vantarsene”   (Ef   2,   8-10). Se la pratica della carità e il compiere opere buone non sono un nostro merito, allora il parametro che determina la distinzione tra i due gruppi deve essere ricercato altrove. Agostino, procrastinando la separazione tra i due gruppi,   giunge   finalmente   all’individuazione   dell’elemento   distintivo:  l’olio  delle  lampade.  Ma  cosa  ne  accresce  la  luminosità?  Cosa  simboleggia   l’olio   che   le   mantiene   accese?   L’insistenza   su   questa   componente   quale   fattore   discriminante tra i due gruppi di  vergini  e  la  speciale  natura  che  viene  attribuita  all’olio,   sono   considerazioni   peculiari   dell’esegesi   agostiniana.   Tutti   i   cristiani   hanno   la   possibilità   di   compiere   le   opere   buone,   ma   ogni   cristiano   agisce   con   un’intenzione   personale: è il movente che si nasconde dietro ogni azione a fare la differenza tra le vergini. Agostino introduce nella riflessione teologica un elemento molto individuale, che   riguarda   nel   profondo   l’animo   umano   ponendolo   di   fronte   alla   sincerità   delle   proprie intenzioni. Eppure non si tratta semplicemente di un soliloquio perché Dio, oltre a  noi  stessi,  è  l’unico  a  conoscere  nell’intimo  lo  spirito  che  guida  il  nostro  ben  operare.   Agire  in  conformità  ai  precetti  evangelici  senza  un’intenzione  sincera  non  ci  mette  però   al riparo dalla   mancanza   dell’olio,   poiché   non   è   sufficiente   ottenere   l’approvazione   esteriore  al  nostro  agire.  L’adulazione  che  proviene  dagli  altri  (i  mercanti  che  vendono   l’olio)  è  l’errore  di  cui  le  vergini  stolte,  fino  all’ultimo,  non  si  rendono  conto.  La  gioia   che   hanno   provato   nell’ottenere   l’approvazione   delle   proprie   azioni   si   rivela   insufficiente quando si giunge al cospetto di Dio e non ha più senso correre dai mercanti per comprare olio. La differenza tra le sagge e le stolte è, di conseguenza, tra la volontà

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di  compiacere  gli  altri  e  l’imperativo  di  compiacere  solo  Dio:  il  giudizio  di  Dio  è  l’unico   che conta.

I  temi  dell’intenzione  personale,  del  rifiuto di un comportamento che abbia come suo limite strutturale la lode altrui, del Dio quale unico giudice a cui rispondere delle proprie azioni e, soprattutto, del non considerare le opere buone e la pratica della carità come un proprio merito, sono questioni che, per la loro importanza, troveranno un’immediata   eco non solo nei   commentatori   dell’epoca   medievale, ma anche nell’urgenza  con   cui   i protagonisti della Riforma protestante formuleranno alcune tesi cariche di conseguenze per la Chiesa cattolica romana.

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Capitolo2