Facendo un bilancio della prima fase di studi bigarelliani, è evidente che l’ultimo significativo apporto allo studio delle maestranze lombarde in Toscana è stato quello di Pietro Guidi, che riprendeva l’impostazione filologica e la ricerca di esattezza storica già espresse da Peleo Bacci e Mario Salmi. A distanza di più di un trentennio Maria Teresa Olivari torna ad occuparsi di Guido Bigarelli tentando di sistematizzarne il catalogo, in due interventi complementari, concentrandosi dapprima sulle opere autografe e, in seconda battuta, sull’insieme delle attribuzioni su base stilistica86. Il primo intervento della studiosa appare viziato da trascuratezze filologiche inammissibili, e supportato da un’impalcatura di confronti che talvolta, invece di portare avanti il discorso, ne contraddice le premesse. Sunteggiando i documenti noti sull’artista si dice, tout court, che la data di morte è sconosciuta, quando già il Supino, nel 1916, poteva fissare il 18 agosto 1257 come termine
ante quem87. Di più, l’autrice riporta che nel 1252 Guido con due discepoli esegue lavori
per varie chiese di Lucca, quando i documenti, già resi noti da Bacci88 e di cui sono riportate parziali trascrizioni, si riferiscono a Pistoia89. Per quanto riguarda l’analisi stilistica bisogna ammettere che per la prima volta i confronti non sono limitati ad aspetti decorativi, come era in genere avvenuto fino a questo momento, ma si addentrano con qualche utilità nel terreno dei dati fisionomici. Anche su questo versante, tuttavia, si nota la stessa tendenza alla confusione: ad esempio, la testa di giovane di una delle formelle del fonte pisano è posta giustamente a confronto con il telamone del pulpito di Pistoia, al fine di confortare l’identità di mano tra le due opere (si noti che il fonte battesimale di Pisa è omogeneamente riferito allo scalpello di Guido Bigarelli); più avanti, però, lo stesso telamone è riferito non a Guido, bensì ad un aiuto “piuttosto lontano dall’arte del Bigarelli” e “arcaizzante rispetto al maestro”, confermando, nonostante questo, la validità di un suo confronto con Pisa. Quanto alle coordinate culturali dell’artista, si individuano contatti
86 OLIVARI 1965; Id. 1966.
87 Ad 157. OLIVARI 1965, p. 34; SUPINO 1916, p. 11, nota 2. 88 BACCI 1910, pp. 33-36.
89 Ad 125, Ad 126. Non si tratta di un lapsus calami ma di un vero e proprio fraintendimento, anche più oltre nel testo si fa riferimento ai “documenti lucchesi del 1252”: infatti i documenti in questione sono presenti in copia anche a Lucca, ma si riferiscono a fatti pistoiesi (OLIVARI 1965, pp. 34, 39, 44, nota 7).
diretti con l’arte lombarda e campionese, al di fuori dell’orbita di Benedetto Antelami (anche in questo caso supportati da confronti per la verità non sempre stringenti), rispetto alla quale, però, si avverte un tentativo di evoluzione verso forme più naturali. Questa flessione dei modi lombardi sembra essere considerata negativamente, sebbene il giudizio rimanga criptico: il già citato artefice arcaizzante di Pistoia “ci dà la misura di quello che avrebbe potuto essere Guido da Como, un ottimo scultore romanico, invece che un ricercatore di esperienze culturali quanto mai interessanti e feconde per l’arte successiva, ma irrealizzate sul piano estetico”. Nuovamente si cade nell’incertezza quando il discorso si sposta sulla componente del classicismo greco: si parla di influenze bizantine mediate sulle esperienze pisane, si badi, per i rilievi di Pistoia, mentre nelle formelle di Pisa è “una fonte culturale diversissima dall’arte pisana (...) che risultava determinata dall’influsso delle maestranze classico-bizantineggianti”, affermando che in questo momento i modi di Guido Bigarelli sono ancora totalmente ancorati alla formazione lombarda90. Sembra di capire, insomma, che l’autrice legga una meditazione sui modelli pisani (greci, ma anche romani, come si dirà) soltanto a distanza di qualche tempo dall’esperienza di Guido Bigarelli a Pisa, nella piena maturità dell’artista91. C’è da chiedersi, tuttavia, se di maturità
si possa parlare a Pistoia rispetto a Pisa, considerato che, stando alle epigrafi, solo quattro anni separerebbero le due opere, e che in entrambe si vede l’impegno di uno scultore maturo. Con la componente del classicismo romano, al contrario, Guido Bigarelli, avrebbe intrattenuto da subito rapporti diretti: nella ripresa della tipologia dei lacunari, a Pisa, ma soprattutto nella disposizione dei corpi e nei panneggi, a Pistoia, dove si individuano riferimenti ad alcuni sarcofagi pisani. Il giudizio complessivo sulla scultura di Guido Bigarelli è espresso nei termini di una compenetrazione di tre principali apporti, lombardo, pisano (dove si intende pisano-bizantino) e romano, che si risolve nella cifra del classicismo, la componente più evidente della sua arte. Ad essa si accompagna una timida ricerca di naturalezza che non riesce tuttavia a traghettare Guido oltre gli orizzonti culturali del romanico e le sue prescrizioni di astrattismo e fissità92.
La stessa impostazione si ritrova nell’intervento successivo –in cui ci si sorprende di non trovare errata corrige al primo-, con il quale la studiosa si prefigge di delimitare il catalogo di Guido Bigarelli e distinguere le opere dovute a suoi ‘seguaci’. Le osservazioni 90 Ibid., pp. 34, 41-43, 35-36.
91 Idea che sembrerebbe confermata nel successivo intervento, in cui la studiosa riconosce nell’architrave di San Pier Somaldi a Lucca, datato 1248, “un momento dell’arte di Guido in cui l’arte classica, con cui è venuto in contatto circa due anni prima, all’epoca del fonte battesimale, non è ancora completamente assimilata, come sarà invece nel pulpito di Pistoia.” (OLIVARI 1966, p. 31).
della Olivari appaiono in linea di massima ponderate, anche se suscettibili di obiezioni. A tratti indispone, tuttavia, il tenore dell’analisi formale, sempre aderente alla disamina di stilemi minuti, dettagli compositivi e fisionomici: il girare delle pieghe attorno a un gomito, l’attitudine del gesto di una mano, e via dicendo. I confronti proposti si reggono, dunque, su un genere di notazioni di cui non si nega l’utilità, ma che è rischioso eleggere a costante e unico metro di giudizio. Tanto che, a tratti, sembra perdersi di vista il quadro generale: se si comparano i giudizi sull’arcangelo pistoiese di San Michele in Cioncio e sulle sculture dei capitelli del duomo di Todi, opere che la studiosa ritiene di ambito bigarelliano, ma innegabilmente diversissime tra loro, sorprende l’analogia tra il primo caso, in cui abbiamo “un artista fortemente influenzato da Guido da Como, ma da lui distinto”, e il secondo, in cui si parla di una “maestranza (...) fortemente influenzata dall’arte del Bigarelli, ma da lui distinta”, livellando così ingiustificatamente disparità qualitative e temporali evidenti93.
A pochi anni di distanza, nell’opera in due volumi sull’arte italiana curata da Carlo Ludovico Ragghianti, Annarosa Garzelli affronta nuovamente la figura di Guido Bigarelli e degli scultori lucchesi94. Di nuovo si identifica Guidetto non con il maestro di Santa Maria Corteorlandini (da escludersi anche a causa delle sembianze giovanili del ritratto lucchese, secondo un’opinione espressa molto tempo prima da Ridolfi), ma, piuttosto, con quello di Prato. Tra le sculture del sottoportico di Lucca spicca l’opera dell’anonimo Maestro di San Regolo: in costui si ravvisa, secondo un giudizio che ci appare ora fuori strada -già De Francovich si era espresso in termini contrari-, un autore di capolavori di
93 OLIVARI 1966, pp. 37-38.
94 RAGGHIANTI 1969, coll. 667-677. Il relativo paragrafo è stato probabilmente redatto da Annarosa Garzelli: mi baso per questo su citazioni bibliografiche successive, non avendo rintracciato l’indicazione nel testo. Poco prima, Isa Belli Barsali aveva compilato la voce Guido Bigarelli nel Dizionario biografico degli
italiani, ma si tratta di un compendio privo di nuovi apporti documentari o critici. È segnalata la provenienza
di Guido da Arogno e la menzione del padre, Bonagiunta, nei documenti del 1244 e 1257. Si torna a ribadire l’estraneità dello scultore rispetto all’artefice di Santa Maria Corteorlandini, e se ne individua l’attività a Lucca prima del 1244 e poi nel 1253 e 1254, sulla base di documenti da cui si dedurrebbe una sua partecipazione al cantiere della facciata. Per la verità, nel momento in cui l’autrice scriveva non era noto alcun appiglio documentario che menzionasse esplicitamente lo scultore prima del 1244 (al contrario di quanto venuto in luce di recente, come si dirà), anche se pareva comunque verosimile collocarne l’esordio dell’attività lucchese anteriormente a questa data; erano già noti, invece, i due documenti per il 1253 e 1254. A Pistoia si individuano non meglio precisati modelli da sarcofagi paleocristiani, sorretti da un’impostazione compositiva lombarda. Belli Barsali ritiene che il soggiorno pisano, dove lo scultore è a capo di una maestranza, non abbia inciso sul suo linguaggio, posizione che come sarà ormai chiaro non può ritenersi accettabile. Giustamente, invece, si indica nel pulpito di Barga un’opera “di netta derivazione bigarelliana”, come già espresso dal Toesca, e si riconosce la mano di Guido nell’arcangelo Michele di Pistoia, mentre l’architrave di San Pier Somaldi a Lucca si ritiene opera di un omonimo Guido da Como, diverso dal Bigarelli (BELLI BARSALI 1968).
sicura derivazione antelamica95, portatori comunque di elementi di differenziazione evidenti soprattutto nella concezione volumetrica96. Non è molto meditato neppure il giudizio complessivo su Guido da Como: scultore non eccezionale, a suo merito andrebbe la rottura tanto con quel “neoellenismo bizantino di marca metropolitana” tipico della cultura figurativa pisana a cavallo tra XII e XIII secolo, considerato tanto in pittura che in scultura (e qui sta, probabilmente, il passaggio più interessante), quanto con “abusate deduzioni antelamiche” non meglio specificate (certo dobbiamo escludere che si parli di Lucca, che abbiamo visto oggetto di un più alto giudizio)97. In ogni caso, si dice, per alcuni anni Guido dovette essere lo scultore di maggiore spicco sul panorama toscano, impegnato come ci appare nei maggiori cantieri di Pisa, Lucca, Pistoia. Per quanto riguarda Pisa, in particolare, si suggerisce di considerare il suo intervento assai più esteso di quanto sino a quel momento supposto, ipotizzando un suo diretto coinvolgimento, oltre che in alcuni dei capitelli del battistero98 (e ovviamente nel fonte), anche al cantiere del duomo, senza entrare, tuttavia, nel merito delle sue fasi costruttive99. Per quanto riguarda invece il pulpito
di Pistoia, si deve registrare la scoperta, di questi anni, di una seconda epigrafe, recante la data 1239100. Su questa base si esprime l’ipotesi, dibattuta come vedremo fino a tempi recenti, circa l’originaria presenza di due pulpiti: al primo, e più antico, sarebbero da riferire le storie post mortem, al secondo, relativo alla data 1250, i rilievi dell’infanzia di Cristo101. Qualche parola è dedicata, infine, a collaboratori ed epigoni. Si cita l’architrave di San Pier Maggiore a Pistoia come opera di un maestro lombardo influenzato da Guido, ma che guarda contemporaneamente a temi arcaizzanti desunti dai sarcofagi, mentre l’arcangelo pistoiese si nota la concezione monumentale e la qualità, che sorprendentemente la Garzelli giudica troppo elevata per poter sostenere la paternità di Guido Bigarelli: l’opera sarà meglio intesa con una datazione alla seconda metà del Duecento, così come il tetramorfo di Arena, opera di uno scultore che padroneggia volume e linea in egual misura, presa in considerazione qui per la prima volta102.
95 DE FRANCOVICH 1952, p. 105, ma prima di lui un nesso tra Guido Bigarelli e la corrente antelamica era già stato espresso in TOESCA 1927, p. 802, e in SALMI 1928, p. 110.
96 Si istituisce un confronto con la figura del cardinale Guala offerente in Sant’Andrea a Vercelli (RAGGHIANTI 1969, col. 668).
97 Ibid. 1969, coll. 662 e 671.
98 A questo proposito si suggerisce il coinvolgimento di Lanfranco, che si ritiene essere il fratello di Guido (Ibid. 1969, col. 672), forse riprendendo quanto detto in SALMI 1972, p. 298 (ma l’intervento è del 1966). 99 RAGGHIANTI 1969, col. 672.
100 Pubblicata in TURI 1961. 101 RAGGHIANTI 1969, col. 674.
102 Ibid. 1969, coll. 676-677. Il Tetramorfo proveniente dalla pieve di Arena è attualmente conservato nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa.
Nello stesso di Annarosa Garzelli è edito anche il volume in cui si dedica uno studio al fonte pistoiese di Lanfranco, opera riportata pochi anni prima all’attenzione della critica da Mario Salmi103, mentre un secondo intervento nello stesso volume si focalizza sulla presenza e l’operato di Guidetto e Guido Bigarelli nel cantiere della cattedrale di Lucca. Per il fonte di Pistoia la studiosa riporta la data dell’epigrafe, 1226104, e il nome dello
scultore, che collega al Lanfranco padre di Guidobono, menzionato nel testamento di questi, del 1258105. Considerando il lasso di tempo non lunghissimo che intercorre tra l’opera datata di Lanfranco, e l’epigrafe del 1239106 per il “primo” pulpito di Guido, la
studiosa ipotizza una probabile collaborazione tra i due maestri, vedendo in Pistoia non più soltanto un campo di ricezione delle elaborazioni lucchesi e pisane, come fino a quel momento era stato, ma un polo di sperimentazioni formali e linguistiche originali, almeno per il primo ventennio del Duecento: in questo contesto, e tenendo conto della maturità espressa nei rilievi del 1239, si considerano i possibili precedenti pistoiesi di Guido, tra cui sono sicuramente da annoverarsi i plutei in Sant’Andrea. Per quanto riguarda Lucca, Garzelli riprende l’intervento di Olivari, perpetuando l’equivoco sul documento pistoiese del 1252, riferito, anche qui, a Lucca. L’attività lucchese di Guido, che si ritiene intrapresa tra il 1239 e il 1244, secondo la studiosa comprende l’architrave di San Pier Somaldi, limitandosi, in San Martino, nonostante il considerevole lasso di tempo indicato, ai simboli degli evangelisti ai lati del portale maggiore del duomo, per i quali si nota una generica “referenza modenese”, mentre ad altri tre distinti scultori si imputano la lunetta del portale centrale, il rilievo dell’architrave e la decapitazione di san Regolo107. L’analisi del duomo
di Lucca nelle sue componenti architettoniche, in rapporto anche a quello di Prato, convincono l’autrice della necessaria presenza di maestranze intermedie tra la fase di Guidetto108 e quella di Guido, separate da circa un quarantennio di silenzio sui nomi degli artefici109: in tale momento di passaggio si propone una ipotetica attività lucchese di Lanfranco, che si esplicherebbe nelle loggette superiori di San Martino e nella facciata di San Michele in Foro, la quale, a differenza della prima, appare opera di concezione
103 SALMI 1972. 104 Ae 4.
105 Ad 166. GARZELLI 1969, pp. 19-20. 106 Ae 6.
107 Per tutti i riferimenti si veda GARZELLI 1969 alle pagine 21, 30, nota 16 p. 35, 37, nota 3 p. 47.
108 Per le parti architettonico-scultoree riferite a Guidetto, confrontate con specifici elementi di altri edifici lucchesi, e, più genericamente, con Como e Modena, si veda Ibid., pp. 44-45.
109 A questo proposito notiamo come, anche qui, il pulpito di Barga è considerato opera di cultura tardo- guidettesca, sebbene successivamente venga definito come connesso a quello di San Bartolomeo in Pantano (GARZELLI 1969, pp. 40, 42).
unitaria110. In un momento successivo si colloca l’attività di Guido, di cui si propone un ruolo –o, più probabilmente, quello di un suo collaboratore attivo anche a Pistoia e Barga- anche nella decorazione delle loggette dei registri superiori della facciata111.
Dopodiché, per più di un ventennio, non si hanno significativi contributi utili all’avanzamento della conoscenza sull’argomento. Si noti soltanto di passaggio l’eccentrica analisi critica che delle figure di questi scultori è tratteggiata nel volume dedicato al duomo di Lucca da Clara Baracchini e Antonino Caleca nel 1973. Gli studiosi ritengono lecito operare una crasi artistico-identitaria delle due figure di Guido e Guidobono, che avrebbero messo in atto una cooperazione così simbiotica (si considera in particolare il caso di Pisa) da identificarsi entrambi sotto lo stesso nome di “Guido”, senza curarsi di indicare distinzioni tra le loro due personalità: l’uso di tale nome, infatti, non deporrebbe pianamente a favore della paternità del primo scultore, poiché anche del secondo si conoscono documenti in cui il suo nome è riportato in forma abbreviata112. I due
scultori avrebbero dunque sempre lavorato insieme, tanto a Lucca quanto a Pisa113, specializzati l’uno (Guido), di maggiore forza innovatrice, nella scultura di figura, l’altro (Guidobono), figura “di transizione” più ancorata alle prassi di bottega, nella tarsia e negli ornati114. Passando a considerare il caso lucchese, si assegnano “al Bigarelli” (cioè Guido) l’ideazione della partizione delle pareti e l’esecuzione delle decorazioni architettoniche dei portali (in anni vicini all’avvio del cantiere), l’autografia dei simboli degli evangelisti e dell’architrave del portale centrale (in un momento successivo, vicino alle opere di Pistoia, tra cui si annovera San Michele in Cioncio): l’evoluzione che si riscontra tra i due episodi testimonierebbe del fatto che, come Lanfranco, l’attività di Guido è stata inizialmente più di decoratore che di scultore (non facendo in questo caso ricorso alla ‘controfigura’ di Guidobono). Tra i due interventi si collocano i plutei ritrovati nel duomo di Pistoia, quelli aniconici reimpiegati in San Bartolomeo in Pantano (a cui sarebbe da riferire la data del 1239) e il fonte di Pisa. Le storie di san Martino e san Regolo, il ciclo dei mesi e la lunetta
110 GARZELLI 1969, p. 40. 111 Ibid., p. 45.
112 BARACCHINI CALECA 1973, p. 22. Gli autori non citano i documenti relativi, ma bisogna confermare che in almeno un caso l’abbreviazione di “Guidobono” nella forma di “Guido” è stata riscontrata (si veda nel presente lavoro la parte relativa all’analisi dei documenti). Aspetti come questo saranno affrontati in modo più esaustivo nelle successive sezioni del presente lavoro.
113 L’operato di Guidobono nel Battistero di Pisa, citato nel suo testamento, sarebbe però da identificarsi piuttosto in alcune delle mensole e dei capitelli, che non nel fonte (Ibid., n. 18 p. 58).
del portale centrale sono invece assegnate –immotivatamente- a Lombardo di Guido, il cui profilo stilistico è inserito nell’orizzonte della corrente antelamica115.
Si arriva così al 1991, anno di pubblicazione del saggio che Valerio Ascani dedica ai Bigarelli116. L’autore, sulla base dell’albero genealogico della famiglia, ricostruito a partire da un riesame dei documenti, compie uno studio integrato di tre generazioni di scultori: la prima, di Bonagiunta e Lanfranco117, la seconda, di Guido e Guidobono, la terza, infine, di Giannibono, fino a quel momento scarsamente indagata118. Il discorso si estende così al contesto trentino, dove un ramo di questa famiglia di scultori appare trapiantata almeno a partire dal matrimonio tra Guidobono e una discendente di Adamo di Arogno,
protomagister della cattedrale di San Vigilio119. Ciò che unisce questi artefici all’interno di
“un’elastica rete di rapporti di parentela e di collaborazione” legata dalla “programmatica volontà di interscambio tra nuclei familiari affini in stretto contatto tra loro”120 è la
formazione sui cantieri pisano-lucchesi di Guidetto a cavallo tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo121, basilare presupposto a “un unitario sviluppo tecnico e stilistico”, a cui si
associano altri tipi di esperienze e suggestioni, quali una possibile parentesi fiorentina di
115 Ibid., pp. 22-24. 116 ASCANI 1991.
117 Di Bonagiunta, padre di Guido, pare difficile ricostruire il profilo artistico: oltre alla menzione che a San Ponziano nel 1203, impiegato probabilmente alla ricostruzione del chiostro (Ad 13), se ne può ipotizzare la presenza sul maggiore cantiere guidettesco a Lucca, quello della cattedrale (Ibid., pp. 111-113). Lanfranco, fratello di Bonagiunta e padre di Guidobono, si dimostra già nel fonte di Pistoia, la più antica opera firmata di ambito bigarelliano, un artista maturo, ciò che spinge Ascani al tentativo di ricostruirne ipoteticamente il percorso: alla formazione lucchese guidettesca segue una possibile partecipazione al fonte battesimale fiorentino, nel quadro di verosimili rapporti di collaborazione tra le maestranze fiorentine e quelle lucchesi certamente già in atto nel XII secolo. Sicura è la presenza dell’artista nell’ambone di Buggiano Castello, opera del secondo decennio del Duecento in cui si rilevano tangenti affinità con il fonte di Pistoia e con alcuni capitelli del battistero di Pisa. A Lanfranco si attribuiscono anche le lastre in parte murate nella cripta del duomo di Pistoia e quelle reimpiegate nell’altare di S. Francesco, che si pensano provenienti dall’antico arredo presbiteriale della cattedrale e realizzate in date successive al fonte, in ragione dell’evoluzione stilistica che vi si registra. (Ibid., pp. 113-119). Alla bottega di Lanfranco, come si dirà, l’autore lega l’attività giovanile di Guido.
118 Giannibono, figlio di Guidobono, è probabilmente attivo all’interno della maestranza che realizza i protiri della cattedrale di Trento, poco oltre la metà del Duecento, e forse ancora nella fase delle sculture del finestrone dell’abside maggiore, poiché è menzionato come ancora vivo nel testamento dello zio Zanebono, del 1285 circa. A partire da queste informazioni è difficile, tuttavia, isolarne la personalità artistica. (Ibid., pp. 131-133).
119 Ibid., p. 110, nota 5. 120 Ibid., p. 134.
121 Lo stretto rapporto tra Guidetto e i Bigarelli, si dice, è stato sufficientemente chiarito per le sculture autografe, mentre la questione rimane intricata per quanto riguarda un insieme di opere “di passaggio” (gli