• Non ci sono risultati.

I caratteri generali della “politica islamica” del fascismo

Questa tesi si propone di analizzare l’azione politica e propagandistica compiuta dall’Italia fascista in Siria e Libano, negli anni Trenta. Tuttavia, l’azione italiana nei territori del mandato francese non può essere separata dal più ampio contesto della “politica islamica”, inaugurata ufficialmente da Mussolini all’inizio del 1934, che coinvolgeva non soltanto l’insieme dei paesi arabi, ma anche altri paesi musulmani, come l’Iran e l’India. La politica fascista consisteva, innanzitutto, in una vasta campagna propagandistica, avente lo scopo di guadagnare all’Italia le simpatie dei musulmani di tutto il mondo, cercando di cancellare le conseguenze nefaste della “pacificazione” della Libia, per la sua immagine. Essa variava da paese a paese, nei metodi e nell’intensità, a seconda dell’importanza politica attribuita dal Regime alla penetrazione italiana nei diversi contesti, nonché in base alla realtà locale, politica, economica e sociale. I francesi, che osservavano con attenzione l’attività italiana nei loro domini arabi, descrissero tali differenze in un rapporto del 1938. In Tunisia, la propaganda passava attraverso la numerosa e radicata comunità italiana, che il governo di Roma aveva inquadrato e posto sotto stretto controllo politico. In Marocco, invece, dove gli italiani erano assai di meno, l’azione era concentrata sugli ambienti indigeni, soprattutto attraverso volantini ed opuscoli, la cui provenienza non era provata, ma era indubbiamente italiana. In Egitto, Siria e Palestina, invece, aveva un ruolo centrale la propaganda sulla stampa, compiuta attraverso sussidi o altre agevolazioni concesse ai giornalisti, come i viaggi gratuiti in Italia. In Siria si era data, inoltre, molta attenzione agli ambienti religiosi, soprattutto ai prelati cristiani, che venivano trattati con il massimo riguardo1.

Al di là di queste differenze, che erano spesso notevoli, la politica islamica fascista aveva anche delle caratteristiche unitarie, dato che si rivolgeva al mondo musulmano nel suo complesso. Tale uniformità derivava, in parte, dalla natura della propaganda fascista, fatta da uomini che spesso non avevano la capacità di comprendere a fondo la complessità della cultura e della società islamica, e di adattarvisi. Ma altrettanto importanti, soprattutto per quanto riguardava i paesi di lingua araba, erano gli scambi e la circolazione delle idee, all’interno di quella che veniva considerata come un’unità religiosa e culturale, e che molti avrebbero desiderato vedere trasformata anche in un’entità politica, in base all’ideologia panislamica o panaraba. Concretamente, ciò significava che un articolo di giornale scritto al Cairo sarebbe stato probabilmente letto e commentato a Tangeri come a Damasco, e che gli eventi politici di uno qualsiasi dei paesi arabi potevano influenzare significativamente le vicende di regioni lontanissime. Per le caratteristiche peculiari del mondo arabo, che costituiva un sistema di vasi comunicanti, una politica o una propaganda arabe non potevano limitarsi ad una visione regionale ristretta. Ci è parso quindi opportuno, prima di trattare nello specifico l’attività italiana in Siria e Libano, analizzare in questo capitolo in che modo è nata e si è sviluppata la politica islamica fascista, quali erano i suoi obiettivi, i suoi metodi, e in che modo essa veniva influenzata dai diversi contesti regionali arabi.

2.1 - Un inizio poco promettente. L’immagine dell’Italia al momento della “pacificazione” All’inizio degli anni Trenta, l’Italia fascista era probabilmente la nazione europea più odiata in tutto il mondo arabo e musulmano. La “pacificazione” della Cirenaica aveva raggiunto la sua fase più cruenta nel 1931, con la presa di Kufra, mentre i ribelli venivano

1

LC, K-Afrique, QG, 206, “Note pour le Ministre. Activité Italienne en Afrique du Nord et au Levant”, 22 agosto 1938

isolati dalle loro basi di sostegno, all’interno e all’esterno, attraverso misure radicali come la chiusura del confine libico-egiziano con un lungo reticolato di filo spinato, ed il trasferimento delle tribù nomadi nei campi di concentramento vicini alla costa2. La brutalità della repressione fascista, di per sé notevole, veniva ulteriormente esagerata nelle notizie diffuse all’esterno della Libia, normalmente ad opera delle associazioni di libici in esilio e la stampa araba, che continuarono a circolare per tutto il decennio, causando grossi danni al prestigio italiano. Secondo la stima di un giornale di Damasco, ad esempio, la popolazione della Libia era passata da un milione di persone a 200.000, dal momento dell’occupazione italiana, con una ipotetica diminuzione dell’80%3. Molto spesso, gli italiani erano accusati di avere ucciso numerosi capi libici ribelli, lanciandoli vivi dagli aerei in volo. Una pubblicazione del Comitato di Difesa di Tripoli e Barqa di Damasco del 1932, ripresa dalla stampa egiziana, recitava:

Gli italiani entrarono a Kufra commettendo ogni delitto, saccheggiando e ammazzando vecchi e bambini come agnelli, maltrattando le donne in una maniera spaventevole, aprendo le viscere delle incinte. Molte donne sono state uccise con atrocità perché hanno difeso il loro onore.

In breve i soldati italiani hanno oltraggiato l’onore di settanta famiglie di quelle dei Scerifiti, hanno cambiato le moschee in osterie nelle quali bevono liquori, ed obbligano le donne musulmane, portate dal loro harem, alla prostituzione, a bere i liquori, o morire con atrocità.

Essi hanno preso tutti i volumi del Corano conservati nella zauia di Tag e li buttarono sotto i piedi e nelle stalle sotto i piedi dei cavalli e dei muli4.

Altre accuse, più o meno fantasiose, riguardavano la durezza del dominio italiano, anche dopo la pacificazione. Nell’estate del 1933, la stampa palestinese ed egiziana pubblicava una serie di corrispondenze da Tunisi secondo cui agli arabi in Libia era fatto l’obbligo di fare il saluto fascista a qualsiasi italiano, o di alzarsi di fronte ad un europeo con il cappello, pena addirittura la lapidazione5.

Fin dai primi mesi del 1931, in seguito alla circolazione di voci di questo genere, che si sommavano a notizie più veritiere, nell’opinione pubblica araba era montata un’ondata di rabbia anti-italiana. La campagna aveva preso avvio sulla stampa egiziana, diffondendosi rapidamente nel resto del mondo arabo. Durante una protesta, il 28 aprile, il vice consolato a Tripoli di Siria fu oggetto di lanci di pietre, e negli scontri venne ucciso un gendarme6. L’Emiro Shakib Arslan aveva lanciato una campagna di boicottaggio contro i prodotti italiani7, che era stata ampiamente pubblicizzata nel corso del pellegrinaggio alla Mecca ad aprile, suscitando le preoccupazioni del console Sollazzi che, invano, aveva chiesto un intervento a Ibn Saud8. Il console a Gerusalemme constatava, a causa della generale ostilità dei musulmani nei confronti dell’Italia, una diminuzione dei pazienti nell’ospedale italiano, e temeva un calo di iscrizioni nelle scuole religiose, oltre a possibili ripercussioni sui pur

2

Sulla repressione fascista in Cirenaica, si veda in particolare Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità

nascoste dell’avventura coloniale italiana, 1911-1931, Manifestolibri, Roma 2005; Enzo Santarelli et al., Omar al-Mukhtar e la riconquista fascista della Libia, Marzorati, Milano 1981; Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, Editori Laterza, Bari 1988, 1991

3 ASMAE, AE, B. 308 F. 1, Tel. 744, Damasco 13 marzo 1937, Rassegna Stampa, da al-Insha’, 12 marzo 1937 4

ASMAE, AE, B. 256/1, Tel. 1978/747, (il Cairo?) 1 giugno 1932, “La civiltà sanguinosa”, articolo tradotto, da

al-Latayed? al-Musawwara, 16 maggio 1932

5 ASMAE, AP, Libia 7, Gerusalemme 2 agosto 1933, “Tirannia dell’Italia in Tripolitania”, articolo tradotto, da

al-Jami‘a al-Islamiyya, 31 luglio 1933

6

Oriente Moderno, Maggio 1931, p. 220 (ma si veda l'intera sezione della rassegna stampa intitolata “Campagna calunniosa di stampa e dimostrazioni di protesta in Egitto, Transgiordania, Palestina e Siria contro atrocità falsamente attribuite agli Italiani in Libia”, pp. 218-222); “Il Ministro degli Esteri, Grandi, all'Ambasciatore a Parigi, Manzoni”, Roma 11 giugno 1931, in DDI, 7° Serie, Vol. X, 328, pp. 518-519

7

ASMAE, AP, Libia 7, Tel. 681/151, Aleppo 16 giugno 1931, il console Camillo Giuriati al MAE

limitati interessi economici italiani in Palestina9. In un clima di questo genere, la condanna a morte di ‘Umar al-Mukhtar, eseguita il 16 settembre 1931, oltre ad essere una inutile barbarie, non fu certo una brillante mossa politica da parte dell’Italia. l’intero mondo islamico fu scosso da una grande commozione e indignazione. Persino il Re d’Egitto Fu’ad non poté fare a meno di sollevare l’argomento con il ministro italiano al Cairo, Cantalupo, sebbene in termini garbati: «francamente mi ha dichiarato», scrisse il rappresentante italiano, «che pur rendendosi conto sino un certo punto dei motivi che hanno indotto alla esecuzione di Omar el Muktar, ha dovuto constatare che la impressione iniziale in Egitto è stata fortissima, e la commozione degli ambienti arabi era stata da lui avvertita attraverso le relazioni pervenutegli dai ministri e dai grandi capi degli enti religiosi e di cultura islamica». Il sovrano osservò che l’Italia avrebbe potuto trattare il vecchio combattente come i francesi avevano fatto con ‘Abd al-Karim, il leader della rivolta del Rif in Marocco (1921-26), mandandolo cioè in esilio. Ma dal punto di vista italiano vi erano sostanziali differenze di condotta tra i due personaggi: «Abd el Krim [aveva] cioè combattuto in guerra effettiva, da soldato e capo di un esercito, in campo aperto, contro le truppe francesi chiedendo, quando si era visto agli estremi, di arrendersi incondizionatamente per avere salva la vita. Omar el Muktar [era] stato invece capo di una organizzazione brigantesca e predatoria, sempre sottrattosi agli scontri con le truppe italiane, battendo poi la campagna per sorprendere, predare ed uccidere gente isolata, coloni nelle fattorie e popolazioni inermi»10. Il tentativo italiano di diffamare la memoria del vecchio combattente («sprovvisto assolutamente di qualsiasi senso patriottico o di ideale religioso», ancora nelle parole di Cantalupo) fu del tutto inutile. L’ondata di critiche e di proteste coinvolse l’intero mondo arabo per diversi mesi a seguire: all’inizio del 1932, gli italiani protestarono con i francesi per l’apparizione, in Tunisia e Siria, di numerosi articoli su al- Mukhtar, e di incitazione alla ribellione contro l’Italia11. La campagna di boicottaggio di Shakib Arslan venne rilanciata. Ad agosto, osservava il console a Gerusalemme Gabrielli, praticamente l’intera stampa palestinese continuava ad attaccare l’Italia, nonostante le autorità britanniche cercassero di minimizzare: «gli articoli dei vari giornali locali [...] sono tutti articoli editoriali e dimostrano a luce meridiana come la stampa araba palestinese, tanto cristiana che musulmana, tanto legata al Mufti che a lui contraria, si sia fatta iniziatrice di una vera e propria campagna anti italiana in seguito alla nostra azione coloniale in Libia ed alla esecuzione di Omar el Mukhtar»12. Ad un anno dalla sua morte, il capo ribelle venne commemorato su tutta la stampa araba, e descritto come un martire e un eroe. «Non s’immaginava mai che nell’epoca della luce e della civiltà, un vecchio che ha più di 80 anni sia condannato alla morte per la sola colpa di aver difeso coraggiosamente la sua cara patria», scrisse l’egiziano Kawkab al-Sharq; l’Italia, che si pretendeva «immersa nelle onde della civiltà», aveva commesso un atto che le altre potenze coloniali, Francia e Gran Bretagna, non avevano mai osato contro i capi della resistenza al colonialismo13. ‘Abd al-Rahman ‘Azzam, nazionalista egiziano che aveva collaborato con la resistenza libica e la repubblica tripolina14, scrisse su al-Jihad che l’esecuzione di al-Mukhtar aveva danneggiato soprattutto l’Italia: «i

9

ASMAE, AP, Libia 8, Tel. 2525/472, Gerusalemme 25 agosto 1931, Gabbrielli al ministro degli Esteri, Grandi

10 Tel. 3265/1066, Cairo 19 ottobre 1931, in DDI, 7° serie, vol. XI, 35, p. 58, nota 2

11 “Il Direttore generale per l’Europa Levante ed Africa, Guariglia, al Consigliere dell’Ambasciata di Francia a

Roma, Dampierre”, Roma 11 marzo 1932, in DDI, 7° serie vol. XI, 289, pp. 477-78

12

Rapporto 2442/470, Gerusalemme 12 agosto 1932, in DDI, 7° serie, vol. XI, 82, p. 141, nota 2

13 ASMAE, AE, B. 256/1, F. “1932. Libia, Tunisia, Algeria, Marocco”, “Il martire Omar al Moktar”, traduzione

manoscritta, da Kawkab al-Sharq, 17 settembre 1932. Il Kawkab al-Sharq esprimeva posizioni wafdiste: cfr. Ami Ayalon, The Press in the Arab Middle East. A History, Oxford University Press, New York 1995, p. 77

14

Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia. 1. Tripoli bel suol d’amore (1860-1922), Mondadori, Milano 1993, 2010 (1° edizione 1986), p. 362

tiranni fanno male a se stessi quando condannano alla morte i grandi personaggi e quando uccidono gli individui fanno vivere le patrie»15.

Dopo l’annuncio di Badoglio dell’avvenuta “pacificazione” della Libia, nel gennaio 1932, l’Italia era dunque seduta, metaforicamente e letteralmente, su un cumulo di macerie. Bisognava fronteggiare un duplice problema politico: innanzitutto, si dovevano ricucire i rapporti con la popolazione libica, inaugurando una fase costruttiva nella politica coloniale italiana, per dimostrare che l’Italia non era sbarcata in Libia per distruggere e depredare, ma per assolvere realmente il suo compito di civilizzazione. Vincere l’ostilità dei libici era necessario, se si voleva davvero consolidare il dominio italiano sulla colonia, e farne il tanto decantato “bastione dell’impero” italiano sulla costa africana. In caso contrario, vi era il rischio concreto che la colonia si sarebbe nuovamente ribellata all’Italia alla prima occasione, magari approfittando di un suo impegno bellico contro un’altra potenza europea. La preoccupazione italiana in questo senso rimase molto forte, soprattutto in occasione della guerra d’Etiopia; la ribellione invece non ebbe luogo, probabilmente non tanto per merito della nuova politica indigena di Italo Balbo, quanto a causa del fatto che la repressione degli anni precedenti aveva ridotto la colonia allo stremo. D’altra parte, essa aveva anche lasciato cicatrici troppo profonde, perché l’Italia potesse sperare di riconquistare la fiducia della popolazione araba, anche se avesse adottato una politica molto più liberale di quanto non lo fosse, effettivamente, quella di Balbo.

Oltre che per questi motivi legati alla politica coloniale, l’Italia aveva bisogno di chiudere definitivamente la pagina della repressione anche per esigenze di politica estera, dal momento che le sue ambizioni di espansione mediterranea – quale che fosse la loro natura – erano gravemente ostacolate dall’atteggiamento ostile dell’opinione pubblica araba. La repressione in Libia aveva turbato i rapporti dell’Italia con gli stati arabi formalmente indipendenti – abbiamo visto, ad esempio, le perplessità di Re Fu’ad – e le aveva impedito di intraprendere una politica più dinamica in altri contesti, ad esempio in Tunisia o nel Levante. Badoglio e Graziani cercarono di promuovere una nuova fase di collaborazione con i libici, ma non erano gli uomini più adatti ad un simile compito. Graziani era il carnefice di al-Mukhtar, e difficilmente avrebbe potuto riscuotere grandi simpatie, all’interno della Libia come nel resto del mondo arabo. L’amnistia per i reati politici, decisa all’inizio del 193216, venne fatta pubblicizzare da Cantalupo sulla stampa egiziana, assieme alla volontà italiana di passare «dalla fase militare a quella economica ed agricola» tramite la creazione di un ente per la valorizzazione della Cirenaica17. Ma secondo Graziani, per inaugurare la nuova fase bisognava innanzitutto garantire l’ordine pubblico in colonia, attraverso la completa “sedentarizzazione” dei nomadi, che divenne la sua priorità. Così, invece di placare l’ostilità araba, provocò nuove reazioni negative contro quello che venne considerato un attacco diretto all’identità culturale e alla vita economica dei beduini. Scrisse ad esempio il foglio nazionalista egiziano al-Jihad:

La politica del generale Graziani è incline a far scomparire i nomadi ed obbligarli ad abitare in sedi prestabilite. Così i colonizzatori hanno in questo un doppio interesse: il primo è di liberare molte terre fertili proprietà dei nomadi per darle agli emigrati italiani: il secondo è di annientare quei nomadi piano piano. Tutti quelli che conoscono la vita di questi nomadi e la natura dei paesi conoscono bene che essi cambiano sovente la loro dimora seguendo il pascolo.

15ASMAE, AE, B. 256/1, F. “1932. Libia, Tunisia, Algeria, Marocco”, “Nella commemorazione del martire

dell’Islam e degli arabi Omar al-Moktar”, traduzione manoscritta, da al-Jihad, 17 settembre 1932. Al-Jihad, diretto da Tawfiq Diyab, era vicino al Wafd: A. Ayalon, The Press in the Arab Middle East, cit., p. 78

16 ASMAE, AE, B. 256/1, F. “1932. Libia, Tunisia, Algeria, Marocco”, Tel. 463/153, 16 febbraio 1932, il

ministro al Cairo, Roberto Cantalupo, al MAE

17

ASMAE, AE, B. 256/1, F. “1932. Libia, Tunisia, Algeria, Marocco”, Tel. 1887/706, 1 giugno 1932, “Le opere per l’agricoltura in Tripolitania”, articolo tradotto, da al-Ahram, 20 maggio 1932

Obbligarli dunque ad abitare in un posto fisso significa far loro perdere il bestiame; perdendo questo perdono il loro capitale e così diventano i servi dei colonizzatori che gli impongono tutto quel che vogliono.

Che sappiano i fautori di questa politica che il mondo musulmano li segue e li tiene responsabili della scomparsa dell’elemento arabo di questi paesi18.

Al-Siyasa accusò l’Italia di volere «abolire ed eliminare la forma ed il colore arabo del paese», allontanando gli indigeni dai posti occupati durante il dominio turco «per non lasciarli partecipare nella direzione del paese», commettendo verso di essi maltrattamenti ed ingiustizie, e di cercare di sfruttare la Libia come sfogo per l’eccesso di popolazione e di disoccupati in patria19. Anche al-Ahram, sebbene in tono più moderato, non nascose forti dubbi sulla politica di Graziani in Cirenaica20. I primi tentativi di trasformare l’immagine del colonialismo italiano in Libia cadevano, dunque, nel vuoto.

2.2 - I fuoriusciti libici dopo la fine della resistenza armata

Uno dei problemi politici che apparivano più urgenti, per gli italiani, era quello dei fuoriusciti libici che si erano stabiliti nel resto del mondo arabo. Alcuni di essi svolgevano un’attività propagandistica contro il colonialismo italiano in Libia, attraverso articoli sulla stampa e la diffusione di pamphlet, che era piuttosto efficace nell’orientare l’opinione pubblica araba contro l’Italia; senza dubbio, l’organizzazione più attiva in questo senso era il Comitato di Difesa di Tripoli e Barqa, con sede a Damasco, e diretto da Bashir al-Saʻdawi21. Ma, almeno inizialmente, gli italiani erano preoccupati soprattutto della minaccia potenziale costituita dalla comunità libica in Egitto, che non solo era la più numerosa, ma era anche raggruppata attorno ad alcuni dei capi più importanti della Sanusiyya, la confraternita che aveva guidato la resistenza anti-italiana in Cirenaica, ed in particolare al suo leader Idris al- Sanusi, detto dagli italiani il “Gran Senusso”, il quale si trovava in Egitto da diversi anni22. Gli italiani ritenevano che la Sanusiyya, alla prima occasione, avrebbe cercato di riorganizzare la lotta armata, e di tornare in Cirenaica a combattere contro di loro. Per questo motivo cercarono di sorvegliare attentamente ogni mossa dei suoi capi in Egitto, e fecero costantemente pressioni sul governo egiziano, che aveva accolto i fuoriusciti libici, ma solamente a patto che essi abbandonassero ogni attività politica contro l’Italia. Non bastava che l’Egitto si fosse impegnato a segnalare preventivamente alle autorità italiane tutti i movimenti dei membri della famiglia al-Sanusi23: gli italiani avrebbero voluto che la

18 ASMAE, AE, B. 256/1, F. “1932. Libia, Tunisia, Algeria, Marocco”, Tel. 2521/916, Bulkeley 16 luglio 1932,

Cantalupo al MAE, “La scomparsa dei nomadi in Cirenaica”, articolo tradotto, da al-Jihad, 2 luglio 1932

19

ASMAE, AE, B. 256/1, F. “1932. Libia, Tunisia, Algeria, Marocco”, “Il fallimento della colonizzazione italiana nella Tripolitania”, traduzione manoscritta, da al-Siyasa, 24 febbraio 1932. Al-Siyasa era nato nell’ottobre 1922 come organo del Partito Liberale Costituzionalista, ad opera di Muhammad Husayn Haykal, scrittore di talento e in seguito ministro dell’educazione. Il quotidiano, sebbene non molto diffuso, era caratterizzato da una buona qualità: A. Ayalon, The press in the Arab Middle East, cit., p. 77

20 ASMAE, AE, B. 256/1, F. “1932. Libia, Tunisia, Algeria, Marocco”, Tel. 2521/916, Bulkeley 16 luglio 1932,

Cantalupo al MAE, “L’Italia a Tripoli”, articolo tradotto, da al-Ahram, 7 luglio 1932

21 L’attività del Comitato in Siria è descritta in maniera più approfondita nel Cap. 4, pp. 128-132. Sull’attività

politica di Bashir al-Sa‘dawi, ed in generale sulle vicende dei fuoriusciti libici nel periodo del colonialismo italiano in Libia, cfr. Anna Baldinetti, The Origins of the Libyan Nation. Colonial Legacy, Exile and the

Emergence of a New Nation-State, Routledge, London 2010.

22 Idris al-Sanusi aveva lasciato la Libia nel gennaio 1923; A. Del Boca, Gli italiani in Libia. 1. Tripoli bel suol

d’amore, cit., pp. 442-443

Sanusiyya venisse cacciata dal suolo egiziano24. Osservava infastidito il ministro d’Italia al

Documenti correlati