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La stampa in Libano e Siria negli anni Trenta

3.1 - La politica nella Siria e nel Libano al principio degli anni Trenta

I territori del mandato francese nel Levante furono tra i principali obiettivi della propaganda fascista nel Vicino Oriente, superati solo dall’Egitto per rilevanza. E ciò, nonostante la comunità italiana in Siria e Libano fosse di dimensioni assai ridotte, e gli interessi economici dell’Italia fossero inferiori rispetto ad altre regioni del mondo arabo, come Tunisia ed Egitto. L’attività italiana nel Vicino Oriente era legata soprattutto a considerazioni politiche, piuttosto che alla difesa di interessi concreti: l’Italia fascista non era disposta a lasciar cadere le vecchie pretese, rimaste insoddisfatte in seguito ai trattati di pace, riguardanti lo stabilimento di una zona di influenza negli ex territori ottomani. Ciò avrebbe significato, infatti, la rinuncia ad ogni possibilità di espansione futura nel Mediterraneo orientale. La Siria e il Libano apparivano come il punto più debole, all’interno del sistema dei mandati stabilito nel Vicino Oriente; era naturale, dunque, che il governo italiano guardasse con attenzione agli sviluppi politici dei due paesi, per trarne eventualmente vantaggio. La posizione della Francia, soprattutto in Siria, appariva tutt’altro che solida, e il governo francese sembrava sempre meno entusiasta di governare dei territori che si erano rivelati un peso, piuttosto che una risorsa. La Palestina, dove l’Italia pretendeva di avere dei diritti particolari, legati alla tutela dei Luoghi Santi, avrebbe potuto rappresentare un obiettivo politico alternativo, nella regione; ma qui gli interessi italiani erano ancora più ridotti, e la complessa situazione politica non incoraggiava di certo un coinvolgimento diretto nelle dispute fra arabi, ebrei e britannici. La Siria e il Libano presentavano, invece, alcune caratteristiche promettenti, per un’azione politica e propagandistica efficace. In particolare, si trattava delle ex province ottomane asiatiche più sviluppate da ogni punto di vista, compreso quello culturale. L’esistenza di una stampa moderna, soprattutto in Libano, e di una società generalmente più avanzata che nel resto del mondo arabo – escluso l’Egitto – furono senza dubbio dei fattori importanti, nell’indirizzare l’attività propagandistica italiana verso gli Stati del Levante. Il messaggio si sarebbe diffuso con più facilità, laddove i mezzi di comunicazione e l’opinione pubblica erano più evoluti.

Il mandato francese in Siria non era cominciato sotto i migliori auspici. Damasco dovette essere conquistata militarmente nel 1920, e dopo la cacciata del governo arabo di Faysal, il rapporto fra l’amministrazione francese e i siriani era proseguito in un clima di sfiducia e di scontro1. La Francia credette di potere importare nei suoi mandati il modello di amministrazione sperimentato in Marocco dal maresciallo Lyautey, la cosiddetta association, che era in pratica la variante francese dell’indirect rule, del governo coloniale attraverso le istituzioni e i funzionari locali. Ma la società siriana era molto più complessa di quella marocchina, e maggiore il livello di coscienza politica del popolo e dell’élite2. Il problema di fondo risiedeva nel fatto che la Francia intendeva il proprio mandato nel Levante come una presenza stabile ed a lungo termine: se in teoria esistevano delle differenze più o meno nette fra colonie, protettorati e mandati, in pratica non vi erano significative variazioni nei metodi di governo, e significativamente i funzionari francesi in Siria venivano quasi tutti dal Marocco, o da altri territori coloniali. La Francia aveva ottenuto che nel testo della Convezione del Mandato del 1922 non si accennasse esplicitamente all’indipendenza dei territori amministrati, ma solo alla concessione di una progressiva “autonomia”, nei limiti di

1 Per la storia del mandato francese in Siria, lo studio più completò è Philip S. Khoury, Syria and the French

Mandate. The Politics of Arab Nationalism 1920-1945, Princeton University Press, 1987, al quale ci siamo rifatti

per questa breve sintesi.

quanto permesso dalle circostanze3. La Commissione Permanente dei Mandati non aveva alcun potere coercitivo, e si riuniva solamente due volte all’anno4, per cui essa era poco più che una cassa di risonanza per le lamentele dei rappresentanti dei popoli sotto mandato, oltre che delle potenze “insoddisfatte” – Italia e Germania innanzitutto – che cercavano di porre dei limiti precisi alle attribuzione delle potenze mandatarie. Di fronte ad evidenti violazioni dei termini del Mandato, come i bombardamenti di Damasco nel 1925-26, o l’applicazione delle sanzioni contro l’Italia durante la guerra d’Etiopia, la Commissione si mostrò del tutto impotente. I siriani si opponevano fermamente all’interpretazione francese del Mandato, che ne tradiva lo spirito originario, e chiedevano che fosse stabilito un calendario preciso che scandisse il percorso verso l’indipendenza, da conseguire in tempi rapidi e certi. Le opposte interpretazioni dell’istituto del Mandato rendevano praticamente impossibile una soluzione politica che soddisfacesse entrambe le parti, e l’ostilità ed i sospetti reciproci caratterizzarono l’intero periodo della dominazione francese.

I francesi reagirono alle difficoltà politiche irrigidendo il proprio controllo diretto sul governo della Siria, e di fatto finirono per amministrare in prima persona, cercando di indebolire il nazionalismo con una deliberata politica di frantumazione territoriale del paese, su base etnica e religiosa. Tutto ciò – sommato a una politica economica nettamente orientata a favorire gli interessi francesi nella regione, e a non gravare sui bilanci della metropoli, piuttosto che ad accrescere il benessere e la ricchezza della popolazione – sfociò nelle rivolte armate degli anni 1925-27. La Francia trattò i ribelli alla stregua di delinquenti comuni – non diversamente da quanto faceva, nello stesso momento, l’Italia in Libia – e represse con durezza la rivolta siriana, non esitando a bombardare la capitale Damasco per diversi giorni. Tuttavia, a partire dal 1928 venne aperta la fase del negoziato politico, che prese avvio con le elezioni per l’assemblea costituente siriana. Ma i pesanti interventi francesi per condizionare l’esito del voto, in queste elezioni così come in tutte le successive, le tattiche dilatorie per rinviare la discussione del futuro assetto politico della Siria, le manovre dell’Alto Commissariato per dividere la leadership nazionalista, dimostrarono che la Francia non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla propria presenza nel Levante, e che la strada verso l’indipendenza era ancora lunga ed impervia.

Nonostante i leader politici siriani fossero spesso divisi sulla strategia politica da adottare, fra la leale collaborazione con i francesi e l’opposizione aperta al Mandato, occasionalmente spinta fino alla lotta armata, essi erano uniti dalla percezione che la Francia era il nemico comune, e che l’obiettivo politico finale era l’indipendenza completa. Solo una ristretta classe di imprenditori e commercianti che faceva affari con i francesi, assieme alle minoranze etniche e religiose che questi avevano sistematicamente privilegiato così da legarle al proprio governo, erano favorevoli al mantenimento della presenza straniera. L’enorme difficoltà di esercitare il controllo sulla regione siriana, da parte di una qualsiasi potenza europea, era talmente chiara, che nel momento in cui si diffusero voci sulla possibile cessione del mandato all’Italia, per porre fine alle rivendicazioni e recriminazioni di quest’ultima contro l’assetto internazionale stabilito dai trattati di Versailles, a Roma ci si affrettò a rifiutare una simile possibilità, e a smentire che vi fossero state trattative in tal senso. L’unanime reazione dell’opinione araba contro la cessione del Mandato valse a calmare gli appetiti dell’Italia fascista.

La politica siriana fu dominata negli anni Trenta dal Blocco Nazionale (al-Kutla al- Wataniyya), nato dopo la fine della grande rivolta, e caratterizzato dalla volontà di una “collaborazione onorevole” con i francesi, in vista di un’emancipazione nazionale progressiva

3

Francesco Tamburini, “I mandati della società delle nazioni. Un istituto controverso e dimenticato”, in

Africana, 2009, p. 117

e concordata con la potenza mandataria5. La leadership del Blocco era costituita in buona parte da esponenti della classe di funzionari, proprietari terrieri, commercianti e imprenditori che avevano esercitato il potere politico sulla base del loro ruolo di intermediari fra la Porta e la società locale, e che sotto il mandato manteneva un ruolo analogo, con la differenza che ora il centro di potere esterno era Parigi, e non più Istanbul. Il Blocco non aveva alcun programma di riforma economica e sociale, dal momento che i suoi esponenti erano membri delle classi dominanti tradizionali, ma proprio perché il suo unico obiettivo era il raggiungimento dell’indipendenza, attraeva un consenso molto vasto e destinato a durare, almeno finché, una volta ottenuta la liberazione dal dominio straniero, non si fosse reso necessario un programma più chiaro e dettagliato sul futuro del paese.

Un’altra caratteristica fondamentale della politica del Blocco Nazionale stava nella dimensione regionale del suo nazionalismo. Gli ideali del panarabismo prevedevano, in origine, l’unificazione almeno dei territori asiatici popolati dagli arabi, dalla Penisola Araba fino alla Siria, com’era stato grossomodo nei progetti dell’emiro Husayn durante la rivolta del 1916. Tuttavia, sebbene l’ideale di una nazione araba comprendente l’intera Umma rimanesse sempre presente nella mentalità e nei progetti a lungo termine dei nazionalisti, la realtà della divisione territoriale e politica realizzata dal controllo europeo costringeva la loro azione entro orizzonti più angusti. Nella concreta azione politica del Blocco in Siria, ciò voleva dire la disponibilità a sacrificare la solidarietà panaraba, quando essa minacciava di ostacolare gli obiettivi della politica locale. Nel 1929, ad esempio, venivano scoraggiate delle manifestazioni anti-britanniche in occasione delle rivolte in Palestina, per non pregiudicare un eventuale appoggio britannico alle aspirazioni nazionali della Siria6. Il Blocco si astenne anche dall’appoggiare le proteste anti-italiane scoppiate a Damasco ed Aleppo nell’aprile 1931, in seguito all’arresto di ‘Adil Arslan al Cairo; e ciò nonostante i francesi, stizziti con l’Italia per l’opposizione alla politica mandataria e per le sue mire sulla Siria, non facessero nulla per ostacolarle. In questo caso, il Blocco era preoccupato di evitare una radicalizzazione politica che desse alla Francia il pretesto per lasciar cadere la linea della collaborazione, o che favorisse l’ipotesi di una soluzione monarchica. I leader del Blocco disertarono persino le dimostrazioni in onore di ‘Umar al-Mukhtar, tenutesi a Damasco in ottobre7. Si tratta di un aspetto da tenere ben presente, nell’analizzare le reazioni alla propaganda araba fascista e i rapporti politici con l’Italia di Mussolini, in Siria come nel resto del mondo arabo. La solidarietà e l’unità nella lotta contro ogni forma di dominio straniero, in qualsiasi regione del mondo arabo, non venne mai messa in discussione, in linea di principio. Ma era irrealistico pensare di lottare contemporaneamente su ogni fronte, per cui i leader più pragmatici si convinsero della necessità di individuare obiettivi più limitati e a portata di mano, sia che ciò volesse dire sacrificare temporaneamente la lotta per l’indipendenza in altre parti del mondo arabo, sia che volesse dire stringere alleanze temporanee con altre potenze europee che opprimevano a loro volta delle popolazioni arabe, sotto un dominio coloniale o pseudo- coloniale. La campagna politica e propagandistica dell’Italia fascista non va analizzata quindi nei termini del suo “successo” o “insuccesso”, ma piuttosto è opportuno concentrarsi sul modo in cui gli arabi si relazionarono all’azione italiana, rispondendo di volta in volta nel modo che appariva più rispondente ai loro obiettivi, politici o anche solo di vantaggi personali. Il mondo arabo rispondeva, infatti, in maniera tutt’altro che meccanica alle sollecitazioni della propaganda fascista. Il sostegno all’Italia e a Mussolini dipendeva, più che dall’impegno e dalle risorse impiegate, da considerazioni legate sia alla politica locale che al quadro più ampio delle relazioni internazionali. Ciò non vuol dire che i personaggi legati al fascismo fossero insensibili al denaro o che non agissero per interesse personale, tutt’altro.

5 Sul Blocco Nazionale Siriano, il suo programma e la sua leadership, cfr. P. S. Khoury, Syria and the French

Mandate, cit., parte IV

6

Ivi, p. 347

Ma la mappa del “filo-fascismo” arabo mostra chiaramente che esso coinvolgeva degli ambienti politici ed intellettuali ben definiti e delimitati, all’interno dei quali un’alleanza con l’Italia non costituiva di per sé un tabù. Inoltre, si trattava di una situazione molto fluida, soggetta a mutamenti improvvisi sulla base dell’opportunità del momento. Gli arabi, pur nelle limitazioni oggettive della loro condizione politica, giocavano un ruolo tutt’altro che passivo nello scontro fra le Potenze europee, cercando di perseguire i propri obiettivi di carattere generale o particolare.

La situazione libanese era molto diversa da quella siriana, e per vari aspetti più complessa. L’influenza francese nella regione, in pratica l’unico scampolo di territorio a maggioranza cristiana di tutto il mondo arabo, risaliva almeno al XVII secolo, quando la Francia aveva ottenuto il titolo onorifico di protettrice del Cattolicesimo latino. Attraverso l’attività missionaria, le scuole, gli istituti di carità, la lingua e la cultura francesi si erano largamente diffuse nella comunità cristiana – una penetrazione che era anche alla base delle pretese politiche della Francia nella regione8. I Maroniti e i Greco-cattolici, in particolare, avevano goduto dell’amicizia della Francia ed erano i suoi più ferventi sostenitori; di conseguenza, le rivalità inter-confessionali rendevano le altre comunità religiose – cattolici di altre confessioni, ortodossi, drusi, etc. – piuttosto sospettose. I musulmani sunniti, soprattutto, consideravano la Francia come il campione della cristianità, ed erano fortemente timorosi di un suo intervento nel Vicino Oriente9. La creazione dello stato del Grande Libano (1924), che inglobava territori mai appartenuti all’antica provincia ottomana, e creava una grande minoranza musulmana all’interno di uno stato a prevalenza cristiana, poneva le basi per una duratura ostilità dei sunniti alla politica mandataria francese, che si esprimeva principalmente attraverso due posizioni fra loro divergenti: la richiesta dell’unità con la Siria, o quella di maggiore spazio all’interno delle istituzioni libanesi. Anche i cristiani erano divisi fra coloro – perlopiù maroniti – che volevano il mantenimento della presenza francese, e i nazionalisti libanesi che chiedevano invece l’indipendenza completa. Ma in ogni caso, la Francia incontrò in Libano molta meno opposizione che in Siria, e poté dunque mostrarsi più conciliante e perseguire una politica di collaborazione più efficace, dato che godeva del sostegno della maggioranza cristiana. Per la gran parte libanesi, la presenza francese era indispensabile per la sopravvivenza stessa del loro stato, un’oasi cristiana in un mare islamico, che rischiava altrimenti di essere inglobato dalla Siria; di conseguenza, i rapporti del Libano con la potenza mandataria furono meno contrastati. Nonostante la ribellione in corso nel Jebel Druso, il 24 maggio 1926, con quattro anni di anticipo rispetto alla Siria, veniva infatti varata la Costituzione, e nasceva la Repubblica del Libano10. Ma anche qui, il compito francese era tutt’altro che semplice, come avrebbe dimostrato, per esempio, la sospensione della Costituzione decisa dall’Alto Commissario nel 1932. A differenza che in Siria, dove la politica era dominata dal vasto raggruppamento del Blocco Nazionale, il Libano era caratterizzato una notevole frammentazione, che incideva in maniera negativa sulla vita politica del paese. Le divisioni confessionali erano importanti, ma non erano le uniche: a caratterizzare la lotta per il potere in Libano fra gli anni Venti e Trenta, infatti, fu soprattutto la rivalità fra Bishara al-Khuri e Emile Eddé (Imil Idda), entrambi maroniti11. le divisioni personali e di clan erano forti quanto quelle religiose, e contribuivano a complicare ulteriormente il quadro politico del paese.

8

Stephen Hemsley Longrigg, Syria and Lebanon under French Mandate, Oxford University Press, London 1958, pp. 41-42

9 Ivi, p. 45 10 Ivi, p. 170 11

Cfr. Meir Zamir, Lebanon’s Quest. The Road to Statehood 1926-1939, I.B. Tauris, London 1997, in particolare il Cap. 3, pp. 84-178

3.2 – la stampa siro-libanese nel contesto del mondo arabo

Per le sue peculiari caratteristiche socio-culturali, il Libano era stato la culla del giornalismo nel mondo arabo, assieme all’Egitto12; a partire dal 1855, a Beirut cominciarono ad apparire diverse pubblicazioni in lingua araba e francese13. Grazie alla vitalità culturale che scaturiva dall’incontro fra culture diverse, ed anche in seguito agli sforzi dei missionari cristiani occidentali di diverse confessioni, che competevano fra di loro per conquistare le anime dei libanesi attraverso le loro scuole religiose, il paese aveva un tasso di alfabetizzazione straordinariamente alto rispetto al resto del mondo arabo. Attorno alla metà dell’Ottocento, Beirut possedeva già quattro presse tipografiche, ed era la capitale della stampa araba14. Le leggi restrittive sulla stampa, istituite dal sultano ‘Abd al-Hamid II nel 1877-78, provocarono un progressivo declino del giornalismo nel Levante; un gran numero di intellettuali, scrittori e giornalisti “siriani”15 si trasferì in Egitto per proseguire la propria attività in un clima di maggiore apertura, ponendo le basi per il futuro primato giornalistico e culturale del Cairo16. Il più antico e prestigioso quotidiano egiziano, al-Ahram, era stato fondato nel 1876 ad Alessandria dai fratelli Taqla, greco-cattolici di Beirut17; ed anche al- Muqattam, nato nel 1889, era la creazione di due siriani, Ya‘qub Sarruf e Faris Nimr, entrambi greco-ortodossi. In precedenza, i due avevano co-fondato a Beirut il mensile al-

Muqtataf, poi trasferito al Cairo nel 188418. La fase di stagnazione della stampa, in Siria e

Libano, proseguì fino al ripristino della Costituzione ottomana ad opera dei Giovani Turchi, che permise una nuova, e breve, rinascita del giornalismo. Fra il 1908 e l’inizio della Grande Guerra, in Libano vennero fondati 162 nuovi periodici, e 62 a Damasco ed Aleppo19. In gran parte, si trattava di pubblicazioni di scarso valore, che apparivano irregolarmente e chiudevano i battenti dopo un breve periodo di vita20. La guerra inaugurò una nuova fase di repressione, che assieme alle difficoltà economiche causò la scomparsa di pressoché tutta la stampa della regione. Solo dopo il 1918, durante il breve regno di Faysal e poi sotto l’amministrazione francese, il giornalismo poté godere di una fase abbastanza prolungata di sviluppo ininterrotto. La presenza di due diverse autorità, il governo locale e

12

Tom J. McFadden, Daily journalism in the arab states, Ohio State University Press, Columbus 1953, pp. 1-6. Sulla diffusione della stampa nel mondo islamico ed il suo impatto culturale, cfr. Juan R.I. Cole, “Printing and Urban Islam in the Mediterranean World, 1890 – 1920”, in Leila Tarazi Fawaz and C.A. Bayly (eds.), Modernity

and Culture. From the Mediterranean to the Indian Ocean, Columbia University Press, New York 2002

13

B. Lewis and Ch. Pellat, s.v. “DJARĪDA” in Gibbs, H. A. R, et al. (eds.), The Encyclopaedia of Islam (2nd Edition), Brill, Leiden 1986 (d’ora in poi: EI2), p. 466

14 A. Ayalon, The Press in the Arab Middle East, cit., pp. 28-29. I cristiani di Siria possedevano delle macchine

da stampa fin dal XVII secolo; cfr. H. Lammens, C. E. Bosworth, s.v. “AL-SHĀM”, in EI2, pp. 271-272. Sulla stampa e l’istruzione in Libano e il “risveglio libanese”, cfr. K. S. Salibi, The Modern History of Lebanon, Frederick A. Praeger, New York 1965, Cap. VII, pp. 120-148

15 Prima del crollo dell'Impero Ottomano, la regione della “Grande Siria” comprendeva i moderni Libano, Siria,

Giordania, Israele e Palestina; il termine “siriani” indicava dunque gli abitanti dell'intera regione conosciuta come Bilād al-Šhām. Cfr. C. E. Bosworth, s.v. “AL-SHĀM”, in EI2, p. 261

16 A. Ayalon, The Press in the Arab Middle East, cit., pp. 38-39; K.S. Salibi, The Modern History of Lebanon,

cit., pp. 147-148

17 Ivi, pp. 42-43; P. M. Holt, s.v. “DJARĪDA” in EI2, p. 466 18

A. Ayalon, The Press in the Arab Middle East, cit., p. 53 e 56; K.S. Salibi, The Modern History of Lebanon, cit., p. 147

19 A. Ayalon, The Press in the Arab Middle East, cit., p. 65

20 Una tendenza che rimarrà immutata anche nel periodo tra le due guerre: tra il 1918 ed il 1939 comparvero in

Siria e Libano non meno di 490 periodici, più della metà dei quali a Beirut: cfr. Nadine Méouchy, “La presse de Syrie et du Liban entre les deux guerres (1918-1939)”, in Débats Intellectuels au Moyen-Orient dans l'entre-

deux-guerres, Revue des Mondes Musulmanes et de la Méditerranée nn. 95-98, Édisud, Aix-en-Provence 2002,

p. 55. Il gran numero di pubblicazioni esistenti nel mondo arabo era visto come un problema, poiché gran parte della stampa era di bassa qualità, e dipendeva dalle sovvenzioni per la propria sopravvivenza: T. J. McFadden,

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