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I giovani, fra bracciantato, cinema e bicicletta

A svolgere una funzione di rottura nella società dei poderi furono principalmente le giovani generazioni, quelle classi di età - lo si è già accennato - che erano state spedite al fronte e che al loro ritorno con grande difficoltà tornavano a reinserirsi in famiglie patriarcali e gerarchiche in cui «ai genitori si dava del voi; il tu, diceva mia mamma, si dà ai cani»100. Come afferma un ex-mezzadro fu all’indomani della guerra che «la famiglia patriarcale cominciò a tentennare»; il giovane soldato «aveva girato», aveva preso coscienza di un mondo ben più largo della propria comunità locale, e «si era aperto un po’ la mente»101.

Già gli studi di Ariès hanno mostrato la lenta, faticosa e sofferta «storia» dell’adolescenza in una società contadina in cui vi era un sostanziale disinteresse per le dimensioni individuali di tipo anagrafico entro cui ricade l’età dell’individuo come entità certa e valutabile entro specifici termini

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M. di Frassineto, Funzione economica e sociale della terra, in “Atti della Reale Accademia dei Georgofili”, 1919, serie V, vol. XVII, disp. I.

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ADN, Maggini Igino, Memorie di un segretario comunale, MP/89. Sulle formule di indirizzo dei figli nei confronti dei genitori, cfr. M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 445-467.

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sociali e psicologici. In una dimensione del tempo non individuale ma collettiva, in cui le fasi dell’esistenza erano concepite in una corrispondenza della biologia umana con i fatti naturali, le età della vita non si intrecciavano fra loro, ma rimanevano livelli distinti di un processo che unificava natura e società umana102. I piani gerarchici propri della società contadina parevano così riflettersi in rigidi rapporti d’autorità che si stabilivano all’interno delle mura domestiche, e furono proprio i giovani e gli adolescenti che, «in tanto moto di vapore e di elettricità», cominciarono a manifestare insofferenza per la propria condizione di subordinazione rispetto all’autorità degli anziani e del capoccia. Essi iniziarono a desiderare una maggiore autonomia nella famiglia polinucleare o, meglio ancora, andare a vivere da soli, «fuori dalla soggezione un giorno serena ed [ora] soffocante del focolare paterno»103. Come mi racconta un ex-mezzadro con parole assai espressive, allora «se ti volevi sposare ci voleva il permesso del proprietario… [i giovani] andavano a domandare ogni cosa, anche se avevano da pisciare e non era possibile, era un forma di schiavismo»104.

L’ordine sociale e familiare, che era etico prima ancora che sociale, presentava ormai rigidità «anacronistiche», e tali da nascondere, all’ombra di «formalità apparenti», «rapporti assai più liberi di quanto si possa credere»105. Capitava già allora che «i giovani, pur di contrarre matrimoni di loro gradimento e quando lo ritengano più opportuno, abbandonano la famiglia, mentre molti anni fa il matrimonio era subordinato, quasi sempre, a certi intendimenti ed a certe necessità di tutta la famiglia»106. Il desiderio di prender moglie al di fuori delle logiche endogamiche di classe o di villaggio, indeboliva così ulteriormente il ruolo del capoccia e delle gerarchie di fattoria, mentre la pratica di residenza neolocale, spesso obbligata dall’impossibilità di accrescere i componenti dell’azienda

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P. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Roma, Laterza, 1999.

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“La Terra”, 9 febbraio 1923, I «nostri affezionati coloni», citato in R. Zangheri, Lotte agrarie cit., p. 423. Si veda anche N. Mazzoni, Lotte agrarie nella vecchia Italia cit., pp. 62-63.

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Intervista n. 4 a Landi.

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Scrive nelle sue memorie un ex-mezzadro mugellano, che sarebbe poi divenuto dirigente della Federterra: «Soprattutto le nostre giovani generazioni di allora covavano una sotterranea ribellione contro il sistema arcaico e gerarchico che regolava non solo i rapporti lavorativi ma anche quelli familiari. Ormai non potevano più reggere i matrimoni combinati fra capoccia, fattore e qualche volta prete e/o sensale; anche il classico “donne e buoi dei paesi tuoi”, ovvero il dover ricercare il partner all’interno della fattoria del villaggio o al massimo dentro la parrocchia, senza poter andare oltre, era diventato anacronistico. (…) Già negli anni Trenta l’amore cosiddetto “di nascosto” (vale a dire non ufficializzato con la famiglia) era molto esteso. Si chiamava “fare l’amore fuori” (la frase era già tutto un programma): quindi approfittavamo della cerimonie religiose notturne, delle prediche, delle missioni, delle processioni…». ADN, Cesari Muzio, Appunti sul movimento operaio e contadino del Mugello, MP/Adn2, pp. 6-7.

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familiare, accentuava la tendenza delle nuove famiglie nucleari a divenire, da coloniche, pigionali.

La forza attrattiva dell’ambiente urbano alimentava infatti sempre più la tendenza dei giovani a trasferirsi in città ed a divenire braccianti. Nonostante gli agronomi della prima età fascista denunciassero tale fenomeno come una degenerazione recente, si trattava in realtà di una tendenza certo non nuova, già osservabile prima della guerra, specialmente nelle aree di pianura più vicine ai centri di manifatture artigianali o industriali, oltre che nelle aree della paglia, dove l’esodo dall’agricoltura aveva interessato già nel corso dell’Ottocento tanto i maschi come le ragazze107.

Ciò che mutò nel dopoguerra furono piuttosto le dimensioni crescenti dell’esodo dai poderi, l’irreversibilità del processo emigratorio (non più stagionale, non più circoscritto all’ambito locale) ed il passaggio dal comparto agricolo a quello manifatturiero o industriale. Infine nelle aziende mezzadrili «si separarono dal vecchio ceppo familiare soprattutto gli elementi giovani, tornati dalla guerra, nei quali più vivo era lo spirito di indipendenza», spinti in ciò non più soltanto da ragioni di “riequilibrio interno”, ma da un proprio desiderio personale di abbandonare la casa colonica108. Si trattava insomma di un fenomeno in cui entravano in gioco anche fattori psicologici, come l’aspirazione di liberarsi dalla “cappa familiare”, la possibilità di poter disporre di un proprio, ancorché misero, stipendio in moneta anziché in natura.

Come infatti ricorda un ex contadino nelle sue memorie, i ragazzi delle famiglie mezzadrili «lavoravano tanto, ma senza percepire una lira di stipendio» mentre «nell’immediato dopo la prima guerra mondiale, mediante lotte sostenute, lo stipendio degli operai [braccianti] fu portato a

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Il Guicciardini scriveva ad esempio già nel 1907: «Non sono rari gli esempi di giovani che lasciano la famiglia per andare a lavorare in Francia, in Svizzera, in Germania o per occuparsi in qualche manifattura sorta nel vicinato, o anche per fare il bracciante; i salari che si sentono offrire li seducono e alla seduzione non sempre resistono. E dove sono sorte fabbriche con mano d’opera femminile, le giovani contadine cominciano a lasciare il lavoro dei campi per quello di fabbrica, coll’approvazione della famiglia che vede una nuova sorgente di lucro versarsi in casa, e con la tacita tolleranza del padrone che chiude un occhio sulla violazione del contratto colonico». F. Guicciardini, Le recenti agitazioni agrarie cit., pp. 123-134. Sul tema P. Sabbatucci Severini, Il mezzadro pluriattivo dell’Italia centrale, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana cit., vol. II, pp. 785-822 ed in particolare le pp. 795-804 relative alla pluriattività. Sul tema dell’inurbamento e delle migrazioni femminili nelle aree della paglia, anche per la bibliografia ottocentesca e novecentesca, si vedrà il mio M. Baragli, Né operaie né contadine: Braccianti e pigionali in Toscana tra Otto e Novecento, in AAVV., Percorsi di lavoro e progetti di vita femminili, Atti del Convegno di Studi tenutosi a Pisa il 7-8 febbraio 2008, Pisa, Pacini, 2009.

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V. Bellucci, I lavoratori avventizi nell'agricoltura toscana, in “Annali dell'Osservatorio di Economia Agraria per la Toscana”, Firenze, Tip. Ricci, 1937, vol. IV, p. 416

otto lire al giorno, con la giornata lavorativa di otto ore», cosicché per loro «facendo tutte le economie, era più facile che avessero qualche soldo in tasca rispetto ai contadini». Anche i giovani contadini «si arrangiavano, col rallevare polli e conigli per cui se tutto andava bene, se non ci entrava l’epidemia, la volpe, un temporale quando i polli erano pulcini (…) lo scapolo li vendeva personalmente senza dover qualcosa al capo famiglia. Ma in via generale – conclude l’ex mezzadro – i contadini [d]i soldi in tasca ne avevano sempre pochi, e quei pochi li tenevano strinti»109.

Per dirla con un georgofilo che certo non guardava con favore un tale processo, «ragioni economiche e psicologiche non agirono indipendentemente, essendo l’una e l’altra spesso in relazione fra loro»110. Lo «spirito d’insofferenza dell’autorità del capoccia» unito a «le cosiddette idee nuove» avevano contribuito a far «sciamare» - come scriveva il conte Martelli – i giovani coloni fuori dalle famiglie mezzadrili divenendo operai agricoli. Nessuna meraviglia se poi «il popolo della campagne toscane [era] per la sua semplicità e incultura facile preda agli organizzatori di mestiere e ai sovversivi politici i quali (…) asser(iscono) che per aver fatto la guerra, l’operaio [agricolo] ha diritto di pretendere lavoro vicino a casa»111. Una

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ADN, Guglielmo […], I ricordi di un contadino cit. Anche le memorie di un altro contadino confermano: «Riguardo alla possibilità di disporre di qualche centesimo per andare la domenica in paese o per recarci qualche volta al cinema o a ballare, noi giovani potevamo tenere personalmente un paio o al massimo due coppie di piccioni ricavando dalla vendita dei piccioni 4-5 lire ogni 3-4 mesi. Oppure nella stagione invernale, quando erano meno pressanti i lavori dei campi, si poteva andare a tagliare il bosco con qualche piccola impresa, venendo pagati a giornata. Di questi guadagni in parte gli davamo alla famiglia in parte ce li tenevamo per noi». ADN, Cesari Muzio, Appunti sul movimento operaio e contadino del Mugello, MP/Adn2, p. 3.

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V. Bellucci, I lavoratori avventizi cit., p. 416. Secondo l’agronomo lo “spirito di indipendenza” era «alimentato anche dai risparmi che le famiglie avevano in quegli anni facilmente potuto accumulare e dalla facilità con cui poteva trovarsi occupazione nell’avventiziato realizzando un reddito che, almeno in denaro, era superiore a quello che il lavoro nel podere poteva offrire. (…) Facile è la disgregazione di famiglie coloniche, altrettanto difficile è la loro ricostituzione. Lo spirito di indipendenza mal si concilia con l’obbedienza ed il riconoscimento dell’autorità del capo di famiglia»

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A. Martelli, La questione del bracciantato agricolo nella Toscana. Relazione al Congresso Agrario Nazionale tenuto in Roma nel febbraio 1921, Firenze, Vallecchi, 1921, p. 11; p. 30. «Vi fu un tempo in cui (…) erano strettamente avvinti i contadini alla terra e le numerose e prolifiche famiglie patriarcali accudivano tranquille ai lavori agricoli. Ma quando poco a poco cominciò nei giovani a manifestarsi quelle spirito d’insofferenza dell’autorità del capoccia e a farsi strada nelle loro menti le cosiddette idee nuove, che in quelle anime semplici ed eccezionalmente rozze fecero presa con rapidità e con un senso ben diverso da quelle di civiltà e di elevazione morale, le famiglie si disorganizzarono e per il fatto dello straordinario incremento della popolazione rurale si divisero, direi quasi sciamarono. Svanì allora l’amore al lavoro dei campi e nacque allora quel fenomeno della esuberanza della manodopera avventizia». Sulla stessa linea un altro grande proprietario, in seguito anch’egli fascista come il conte Paolo Guicciardini, che individua i mali della società mezzadrile nel «periodo inflazionistico del dopoguerra: prezzi altissimi, rendite alle

monografia di Mario Tofani cita il caso di una famiglia di Sant’Andrea a Casole in Chianti, nella val di Greve, in cui il figlio maggiore aveva lasciato il podere: «Per il contatto con amici di città che venivano a cacciare con lui, e dietro l’esempio di altri compagni che già avevano preferito la vita di città a quella di campagna, venne nella determinazione di abbandonare la famiglia, non appena fosse sposato, spinto in ciò anche dalla fidanzata, che aveva in orrore la vita dei campi»112.

Un tale processo era individuato anche da Mario Bandini, che datava «a partire dal 1918», al rientro dal fronte, l’incremento del «fenomeno di smembramento nelle famiglie coloniche» che induceva molti giovani a trasformarsi in braccianti, andando a cercare lavoro nei centri vicini». Anch’egli individuava poi, come pure avevano fatto il Guerrazzi, il conte Martelli e tutti i proprietari terrieri, nell’azione delle leghe rosse, ma anche bianche, un «eccitamento» al «distacco del lavoratore dalla famiglia»113. Fra coloro che restavano, in molti tendevano a «far tasca da sé», ed a nascondersi «il prosciutto sotto il letto»114. Il ruolo del capoccia come detentore unico della “cassa” familiare cominciava ad essere contestato, indebolito dalle maggiori esigenze di figli maschi e nuore. In effetti il sistema mezzadrile individuava nel capoccia, per le sue particolari mansioni

stelle. Tendenza dei coloni giovani a disertare i campi, attratti dagli alti salari dell’industria, dalle lusinghe della città». P. Guicciardini, Cusona, Firenze, Rinascimento del Libro, 1939, pp. 432-433.

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M. Tofani (a cura di), Studi e monografie. Monografie di famiglie agricole. Mezzadri di Val di Pesa e del Chianti cit., famiglia n. 2. p. 63. Per l’esodo dei giovani verso la città o i poderi più redditizi, cfr. P. Sabbatucci Severini, Il mezzadro pluriattivo cit., p. 805. «Che non siano i capoccia i protagonisti del cambiamento e dell’ascesa, ma i loro figli giovani e giovanissimi, che trovano lavoro in fabbrica, spesso appena terminata la scuola dell’obbligo, è oramai un dato largamente documentato», Ibidem, pp. 815-16.

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Così infatti si esprimeva Bandini: «Ad accelerare il fenomeno hanno non poco contribuito le leghe bianche e rosse, che favorivano fortemente il distacco del lavoratore dalla famiglia, dato che il loro scopo era esclusivamente quello di far tesserare in numero maggiore che fosse possibile e di eliminare la resistenza che opponeva la mezzadria alle loro ideologie ed ai loro programmi». M. Bandini, Aspetti economici dell’invasione della fillosserica cit., p. 263-4. L’autore tuttavia afferma che il grosso della trasformazione da coloni a braccianti avvenne dopo il 1923, tanto a San Casciano (p. 269) che a Tavarnelle (p. 266). Si veda anche G. F. Guerrazzi, Per la nostra terra, Roma, 1919, p. 10: «Questo movimento [delle leghe] (…) mira a distruggere la mezzadria, che è ostacolo alla ascensione del socialismo: ostacolo che sparirebbe quando, staccati i mezzadri dalla proprietà e fattine dei salariati, non sarebbero più di impedimento alla socializzazione della proprietà».

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Dal discorso del deputato socialista Nino Mazzoni, Atti Parlamentari, Legislatura XXV, Prima sessione, Prima tornata del 9 dicembre 1920, p. 6443: «I poveri vecchi accovacciati a un tavolo, i quali vi diranno che l’unità della famiglia è spezzata. Salite nelle soffitte dei casolari e vi troverete rimpiattati, nei cubicoli che servono alla promiscuità delle creature e delle cose, i giovani membri di famiglia con le spose e i figlioli, col prosciutto nascosto sotto il letto, col vino nascosto nell’armadio, in una sorda difesa della loro autonomia, in una cupida e gelosa difesa dei loro interessi».

e per una solida tradizione, l’unico consegnatario dei principali redditi e dei risparmi, che difficilmente venivano ridivisi alla fine di ogni anno fra fratelli, cugini, nuore, cognate. Non è difficile comprendere che dopo la guerra i giovani – specialmente se sposati – «insofferenti di questa stretta dipendenza finanziaria dal capoccia, sognano una propria autonomia e possono giungere a separarsi dalla famiglia, dove sembra loro di essere trattati come ragazzi». Anche il sistema della contabilità veniva messo in discussione poiché «la mancanza di qualsiasi registrazione impedisce un controllo da parte degli altri familiari e provoca sospetti che, in verità, non sono del tutto ingiustificati». Ed ancora una volta, come scrive il Tofani, «tale fatto nel dopo guerra assumeva aspetto particolarmente preoccupante – essendo motivo di diffidenze, di litigi e di frequenti separazioni»115.

L’apertura delle prospettive morali e culturali (ed in seguito anche politiche e sociali) dei giovani contadini avvenne non solo in forma diretta, ma anche grazie alla mediazione di giornali, comizi, scambio di idee, contatti col mondo urbano e bracciantile. Come scriveva un agronomo a proposito delle famiglie contadine del Padule di Fucecchio «le frivolezze dei centri vicini (tra i quali Montecatini: dove sovente le donne si recano, a servizio negli alberghi, durante la stagione termale) influiscono inevitabilmente – e non poco – sui costumi dei giovani e delle giovani in ispecie»116.

In effetti in questi anni fu crescente il richiamo e l’imitazione di comportamenti domestici e modalità di consumo differenti rispetto a quelli che caratterizzavano le precedenti generazioni. L’alimentazione, a detta di tutti gli osservatori, era «incomparabilmente migliore» di quella dell’anteguerra117, maggiore era il consumo di carne, di vino118 e di tabacco119. Probabilmente aveva ragione Martini quando affermava che «il

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M. Tofani (a cura di), Studi e monografie. Monografie di famiglie agricole. Mezzadri di Val di Pesa e del Chianti cit., p. 12.

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P. F. Nistri (a cura di), Studi e monografie. Contadini del Padule di Fucecchio. Monografie di famiglie agricole, n. 14, vol. III, Roma, Treves, 1933, p. 94.

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M. Bandini, Inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice formatasi nel dopoguerra in Toscana, in “Annali dell’Osservatorio di Economia Agraria per la Toscana”, Firenze, Tip. Ricci, 1931, vol. II, pp. 14-15: in Casentino l’alimentazione dei mezzadri è «incomparabilmente migliore di quello di qualsiasi contadino dell’ante-guerra». In Valdelsa «le condizioni di vita dei contadini sono moltissimo migliorate dall’anteguerra. Nei riguardi dell’alimentazione si nota un maggior consumo di carne (3-4 volte alla settimana) e l’uso esclusivo di pane di grano». Ibidem, p. 36.

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Ibidem, p. 101: l’aumento dei consumi «non sarebbe un male se si risolvesse in un miglioramento delle qualità del contadino, il guaio è che è aumentato principalmente il consumo del vino, e che più frequenti sono i casi di alcoolismo. Anche la saldezza famigliare è stata scossa».

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«Quanto a tabacco, Corrado fuma sigarette (due pacchetti alla settimana) e qualche sigaro. Oreste e Guido [fratelli del capoccia] spuntature della pipa, i giovani sigarette (15- 20 la settimana l’uno). Cinematografo niente o quasi niente». F. Cerri – F. Rotondi (a cura

bisogno [era sì] un fatto fisico, ma col progresso della civiltà [diveniva] anche sempre più psicologico»120. Lo confermava Mario Bandini il quale scriveva che «dove principalmente si è fatto sentire l’influsso dei tempi moderni è nel vestiario. Particolarmente i giovani e le ragazze nei giorni festivi raggiungono un grado di “eleganza” mai conosciuto, e sotto questi aspetti anche i semplici mezzadri non si lasciano sorpassare»121. I giovani contadini, ed in particolare le ragazze, rifiutavano ormai i rozzi panni di rascia dei propri genitori, preferendo capi «di tipo piuttosto fine», scarpe coi tacchi, calze di seta. Si trattava di consumi su cui il parroco, il fattore, il padrone continuavano ad esercitare un controllo esterno molto forte, al punto che il colono celava, quasi fosse un “peccato”, ogni acquisto di tipo voluttuario122.

Nelle abitudini sociali dei mezzadri del dopoguerra si continuano a riscontrare usi di tipo tradizionale, come la veglia serale, il gioco delle carte, la tombola, la fierina domenicale, il teatrino popolare e di marionette, a cui si recano tanto i bambini quanto gli adulti, organizzati da contadini nelle sagrestie o nei locali delle associazioni cattoliche123. Ad esse però si andavano affiancando la frequentazione di luoghi nuovi, ritenuti appannaggio degli abitanti del borgo o delle città, come l’osteria ed il cinematografo124, «ma solo la domenica e non sempre, e poi non era un gran che di divertimento». Le proiezioni infatti erano mute ed i contadini «anche

di), Studi e monografie. Monografie di famiglie agricole. Contadini della pianura livornese e pisana, n. 14, vol. VII, Roma, Treves, 1934, p. 104.

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M. A. Martini, La mezzadria toscana nel momento presente cit, p. 26.

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M. Bandini, Inchiesta sulla piccola proprietà cit., p. 14.

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L’ex colono Orlandini ad esempio dichiara che «si verificavano casi in cui le donne più anziane impedivano alle ragazze di avvicinarsi alla fattoria se indossavano un nuovo capo di vestiario, e i capoccia celavano più a lungo possibile di aver comprato un orologio o una bicicletta». La testimonianza è in S. Orlandini – G. Venturini, Padrone arrivedello a battitura cit., citato in P. Clemente (et altri), Mezzadri, letterati e padroni cit., p. 107.

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F. Cerri – F. Rotondi (a cura di), Studi e monografie. Monografie di famiglie agricole. Contadini della pianura livornese e pisana cit., p. 89. La domenica i contadini «in maggio vanno a vedere gli spettacoli all’aperto in località “Chiesa Nuova”, organizzati dalla Croce Rossa e inscenati da contadini. Questi sono adattamenti di racconti cavallereschi del ciclo di Re Artù, della Tavola Rotonda – che compare sulla scena – e simili, resi interessanti da aspri combattimenti e da draghi soffianti fiamme dalla fauci, che interessano abbastanza gli spettatori. Le parti sono in poesia e interamente cantate su un motivo estremamente noioso [a detta dell’osservatore, evidentemente non contadino], che si ripete fino a sazietà. Questi spettacoli segnano tutte le domeniche immancabilmente degli esauriti, mentre gli spettatori rodono semi di zucca o noccioline americane o fumano e i bimbi restano a bocca aperta dal principio alla fine». Ibidem, p. 104: «Dopocena o si resta in casa o si va a veglia o a giro per il paese. A letto tutti quasi tutto l’anno alle ore 22. A domenica i giovani vanno a

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