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Sembra strano dover argomentare, nel 2017, sulla non neutralità della scienza. Tuttavia, questo che rappresenta un portato fondamentale (inteso come fondante, fondativo) per numerosi ambiti disciplinari resta confinato nel campo dell'ignoto o dell'eresia in buona parte del settore sanitario. Eppure la medicina, come gli altri domini del sapere, ha una sua storia che evidenzia come le idee siano figlie del loro tempo. Storia che viene spesso interpretata come lineare e progressiva, orientata a una sempre migliore conoscenza capace di approssimarsi a una realtà data, e di dotarsi di un apparato tecnologico in costante perfezionamento per intervenire in modo più preciso, efficace, risolutivo su detta realtà. Non si può negare che la rassicurante mitologia di questo approccio abbia buon gioco nel sedurre le menti (nonché, come vedremo oltre, nel mantenere un certo assetto di poteri). Tuttavia, non serve molto per mostrare che il re è nudo e che le cose, per come si danno e non per come sono narrate, sono assai più complesse.

La rimozione del sociale

Agli studenti di medicina, nel corso di Salute Globale e Determinanti Sociali della Salute svolto dal CSI, viene raccontato un aneddoto per spiegare la sistematica rimozione delle variabili socio- economiche nella costruzione del sapere medico. Fino a pochi decenni fa, la borsite prepatellare nota come “ginocchio della lavandaia” era descritta come tipica del sesso femminile. Ora, è evidente che l'aumentata incidenza della patologia non era legata agli attributi genetici, bensì alle conformazioni sociali che esponevano le donne – con maggiore frequenza – a svolgere occupazioni come quella della lavandaia. Patologia occupazionale e/o patologia di genere, dunque, che modificatosi l'assetto sociale si è avviata verso una maggiore equità nella distribuzione tra i sessi. L'episodio è ovviamente “stilizzato” ai fini didattici, ma non mancano casi recenti che hanno messo in luce, per esempio, il ruolo della componente sociale (razziale e/o di genere) nell'aumentata incidenza dell'ipertensione arteriosa tra gli afroamericani – da una prospettiva medico-scientifica (Pickering 2001; Sims et al. 2012) così come antropologica (Pollock 2012) – o nell'eccesso di mortalità per tumore al seno tra le donne afroamericane (Krieger 2002; Gilman 2013). Nonostante sia stato efficacemente argomentato che utilizzare la razza come proxy per differenze genetiche limita la comprensione delle complesse interazioni tra processi politico-economici, esperienze vissute, e biologia umana (Goodman 2000), l'influente American Heart Association, in una pagina aggiornata al 2016 (American Heart Association 2016), afferma che: “La prevalenza di ipertensione tra gli afroamericani negli Stati Uniti è tra le più alte al mondo. Più del 40% degli afroamericani non ispanici, uomini e donne, soffrono di ipertensione. [...] I ricercatori hanno riscontrato che ci

potrebbe essere un gene che rende gli afroamericani più sensibili al sale.”. D'altro canto, la stessa organizzazione senza scopo di lucro vive dei finanziamenti di compagnie transnazionali, tra cui le maggiori aziende farmaceutiche (Novartis, BMS/Pfizer, Sanofi, AstraZeneca, Jannsen...), grandi distribuzioni come Walmart e Macy's, e il colosso mondiale della distribuzione dei farmaci Wallgreens. Per la tesi che stiamo sostenendo, le condizioni materiali e i rapporti economico-politici fanno parte dell'analisi del processo di produzione di conoscenza, e in questo caso la rilevanza di quello che va sotto il nome di “complesso medico-industriale”11 nell'orientare le interpretazioni

scientifiche appare ben chiara, e coerente con i fini di promuovere una lettura della patologia aperta al solo intervento medico (in essenza farmacologico), produttore oltre che di salute anche di mercato e profitti.

A scanso di equivoci sulla pertinenza dell'analisi della razza nelle questioni di salute, e prima di abbandonare l'argomento, riportiamo la dichiarazione dell'American Anthropological Association citata da Goodman:

«...le variazioni nella biologia umana non dovrebbero essere ridotte alla razza. È una questione troppo complicata che non può rientrare in un'idea tanto datata. La razza è reale. Anziché essere basata sulla biologia, è un processo sociale e politico che ci permette di comprendere come leggiamo significati più profondi all'interno dei fenotipi. La razializzazione e il razzismo esistono perché, in una cultura razializzata, leggiamo significati nel colore della pelle come in altre varianti fenotipiche. Non è che la biologia condizioni il comportamento, piuttosto ideologia e comportamento agiscono negli individui 'al di sotto della pelle'.» (Goodman 2000)

Al contrario, usare la variabilità genetica come spiegazione delle differenze razziali implica l'accettazione di ben due assunzioni non verificate: che la variabilità genetica spieghi la variabilità della malattia, e che la variabilità genetica spieghi la variabilità razziale della malattia. Nel primo caso, si tratta di una forma di “genetizzazione” (la nozione secondo cui i geni sono i determinanti primari della biologia e del comportamento umano), la seconda una forma di razializzazione, ovvero un'esagerazione della rilevanza della razza (Goodman 2000).

11 La definizione emerge nei tardi anni Sessanta, riprendendo l'ultimo discorso del presidente degli Stati Uniti Eisenhower (1961) in cui sottolineava i rischi del “complesso militare-industriale”, ovvero le minacce legate all'influenza esercitata sul governo da parte dell'esercito e dell'industria militare. Applicato al campo della salute, e in particolare dell'assistenza sanitaria, il termine descrive il sistema che – in modo esemplificativo negli Stati Uniti, ma con gradi diversi in tutto il mondo – utilizza la salute per generare profitto. Il termine è entrato nell'ambito accademico con un articolo apparso nel 1980 sul New England Journal of Medicine, in cui l'autore descrive l'aumento delle attività “for profit” in medicina e analizza gli insorgenti conflitti di interessi che minacciano l'indipendenza dell'assistenza e della ricerca in salute (Relman 1980).

Critiche “evidenti”

Un altro filone di argomentazioni critiche volte a mostrare quanto la rimozione del piano socioeconomico provochi distorsioni nel sapere medico è quello che mette in luce la grande eterogeneità che esiste tanto a livello di sapere e ancora di più di pratiche, nonché all'intreccio tra i due piani. È esperienza comune che tra Paesi, regioni, ospedali e perfino reparti esistano prassi differenti, nonostante il proliferare di protocolli, linee guida, e della tanto acclamata medicina basata sull'evidenza (EBM).

L'approccio critico può procedere dalle origini, ovvero andando alla radice di quella che comunemente viene considerata “evidenza”. Per esempio, è dimostrato che esiste un significativo bias di pubblicazione a favore degli studi che mostrano risultati positivi. Una recente meta-analisi (si noti come l'approccio critico si possa avvalere degli strumenti di rigore metodologico a fondamento della stessa EBM) ha evidenziato come le probabilità di pubblicazione arrivino a essere fino a cinque volte superiori per studi con risultati statisticamente significativi o positivi, rispetto a studi con esiti non significativi o negativi (Fujian Song et al. 2009, 2009; F. Song et al. 2010). Inoltre, le ricerche finanziate dall'industria farmaceutica vengono pubblicate meno rispetto a quelle finanziate tramite altre fonti, e riportano più frequentemente risultati favorevoli allo sponsor rispetto a studi con altri finanziatori (Dickersin e Chalmers 2011). Il mancato accesso a tutti i dati disponibili comporta errori amplificati nelle meta-analisi, in genere considerate come fonti più sicure e affidabili. Un recente studio ha mostrato che solo in un terzo delle meta-analisi prese in considerazione gli autori discutevano apertamente la possibilità di un bias di selezione e cercavano di limitarne l'impatto (Ahmed, Sutton, e Riley 2012).

La vicenda del farmaco antinfluenzale Oseltamivir, recentemente “declassato” nella lista dei farmaci essenziali dell'OMS, è esemplificativa a questo proposito: l'approvazione ottenuta dalla Food and Drug Administration statunitense nel 1999, e dalla European Medicines Agency nel 2002, si è basata su evidenze scarse in gran parte fornite dalla multinazionale produttrice Roche, rivelatesi in seguito incomplete. Pochi anni dopo, preoccupati da una possibile pandemia di influenza aviaria e a seguito della diffusione dell'influenza H1N1 nel 2009, molti governi hanno acquistato ingenti scorte del farmaco, che nel 2010 è stato inserito nella lista dei farmaci essenziali dell'OMS (dove dovrebbero entrare solo i principi attivi a maggiore profilo di efficacia, sicurezza e a minor costo a parità di effetto). Il risultato è stato un guadagno estremamente significativo per la Roche, generato per la metà dall'acquisto di scorte da parte di governi e imprese (scorte a oggi largamente inutilizzate) (Jack 2014). È emerso in seguito che la casa produttrice Roche non aveva reso disponibili tutti gli studi effettuati sul farmaco. In seguito a una campagna portata avanti, tra gli altri, dal British Medical Journal (BMJ), molti più dati sono stati resi pubblici (anche se non quelli individuali per paziente, come da richiesta). Una meta-analisi Cochrane pubblicata nel 2014 ha messo in luce, oltre allo scarso profilo di efficacia già emerso da altre indagini, un'incidenza di effetti avversi decisamente superiore a quanto precedentemente dichiarato. Secondo un recente editoriale del BMJ a commento della vicenda – giustamente definita un “fallimento multi-sistema”

per la molteplicità di enti coinvolti e di decisioni errate a diversi livelli – ci sono tre importanti lezioni da tenere presenti: la prima è che è indispensabile che tutti gli studi vengano pubblicati, e che i dati individuali dei pazienti siano resi accessibili per l'esecuzione di analisi indipendenti (come richiesto dalla campagna AllTrials, AllTrials Campaign); la seconda è che i soldi spesi per fare scorta di Oseltamivir sono stati sottratti ad altre priorità di salute pubblica, e questo impone che decisioni di tale portata siano il più possibile informate da evidenze complete, attendibili ed esaustive; la terza è che la fiducia riposta in Oseltamivir può aver ridotto la ricerca di alternative realmente efficaci, rappresentando un ulteriore danno per il pubblico (Ebell 2017).

Spostandosi dal piano della produzione di evidenze a quello della loro applicazione, ma rimanendo sul filone degli intrecci tra salute e mercato, vi sono sempre più studi che documentano quanto i comportamenti prescrittivi dei medici siano associati al marketing delle case farmaceutiche, dai pagamenti per prestazioni fino alla semplice offerta di un pasto gratuito durante una conferenza (DeJong et al. 2016; Yeh et al. 2016). Gli appelli della società civile e di parte della comunità scientifica vanno nella direzione di chiedere maggiore trasparenza nella pubblicazione dei dati, sia quelli relativi agli esiti degli studi clinici (a prescindere dalla loro positività), sia quelli relativi ai finanziamenti erogati dalle case farmaceutiche a beneficio di medici, società scientifiche, programmi di ricerca, ecc. Un passo in avanti in tal senso è stato fatto dal Physician Payments Sunshine Act, approvato negli Stati Uniti nel 2010 ed entrato in vigore nel 2013. Il decreto prevede che ogni transazione finanziaria, in denaro o in natura che superi i dieci dollari americani, tra un medico o gruppo di medici e uno o più produttori di farmaci o altri prodotti sanitari, debba essere notificata e inserita in uno speciale registro pubblico, consultabile da chiunque (Cattaneo 2014). È grazie a questo registro, che amplia lo spazio dell'indagabile e mette in relazioni ambiti diversi, che possiamo ora esplorare e conoscere meglio l'entità degli intrecci tra interessi di marketing, interessi privati di medici e gruppi di medici, e interesse collettivo della popolazione.

Lo sguardo antropologico

Infine, uno sguardo interessante sulle pratiche – il loro ruolo agentivo (performativo) e la loro intrinseca eterogeneità – viene da alcuni studi critici su scienze e tecnologia. In particolare Mol, in un'affascinante etnografia della pratica medica, si avventura dapprima a ricomporre il dualismo soggetto-oggetto tanto nell'accezione cultura-natura quanto in quella conoscente-conosciuto (attivo, vivo / passivo, inerte), e in seguito a proporre ricomposizioni delle pratiche all'insegna della molteplicità (Mol 2002). Secondo questo sguardo, la conoscenza non risiede nella mente, ma svariate materialità sono attivamente coinvolte nella attuazione del reale: l'organizzazione materiale della pratica medica plasma dunque la realtà della malattia. La linea divisoria tra soggetti umani e oggetti naturali è superata: come i soggetti (umani), gli oggetti (naturali) sono inquadrati come parti

di eventi che accadono/sono posti in essere. Per evitare la reificazione della dicotomia, Mol suggerisce di non dire chi conosce, ma di distribuire l'attività del sapere in modo diffuso “su tavoli, coltelli, registrazioni, microscopi, edifici, e altre cose o abitudini in cui è incorporata” (saperi incorporati), per arrivare a parlare di come si costruisce/performa (enact) la realtà nelle pratiche (Mol 2002). Interpretando la conoscenza come incorporata, localizzata eminentemente nelle attività, negli eventi, nelle costruzioni, negli strumenti, nelle procedure, eccetera, Mol affronta le pratiche quotidiane come eventi e attività in sé, piuttosto che come tramite per un sapere articolato in parole dai soggetti. Questo approccio conoscitivo è ben descritto da Latour quando afferma che: “Per rifiutare il riduzionismo è sufficiente [...] lasciare che si sviluppi la diversità davvero stupefacente dei 'cicli di oggettività' che esso stesso sviluppa.” (Latour 2008). Secondo Latour, infatti, il reale si sviluppa per reti di associazioni: la scienza non ha un intrinseco potere di imporsi, piuttosto si diffonde perché ci sono attori, fuori dai laboratori, che si associano a essa e tra di loro. Anziché pensare a un'unica struttura massiccia, Latour parla di “catene di associazioni” che formano reti la cui coerenza non è basata sulla coerenza logica ma sulla materialità e sulla pratica. La forza delle reti dipende da ciò che sostiene le associazioni, è definita dalle attività richieste per dissolverle e frammentarle: “La consistenza di un'alleanza è rivelata dal numero di attori che devono essere messi insieme per separarla” (Latour 1988).

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Procedendo per esempi e paradigmi, abbiamo così identificato alcuni “punti di emersione”, o di svelamento, in cui le connessioni profonde tra ciò che chiamiamo “sapere medico-scientifico” e il mo(n)do attraverso il quale questo sapere viene posto in essere e agisce sono particolarmente evidenti e rilevanti. Ma, come lo sguardo di Mol e Latour suggerisce, anziché interpretare questi fenomeni come “distorsioni” di un sapere altrimenti neutro, li intendiamo come – appunto – punti di emersione della sua costitutività molteplice. A scanso di equivoci, e per non dar l'idea di voler suggerire un approccio universale alla conoscenza della presunta “realtà”, cosa che sarebbe poco sensata oltre che profondamente incoerente, aggiungo che a mio modo di vedere esistono molteplici approcci di conoscenza, portatori di elementi utili a interpretare (nel senso concreto di interagire con) ciò che ci accade. Riprendiamo Mol per dire che i metodi non sono strumenti che aprono finestre sul mondo, ma modalità di interferire con esso mediando tra un oggetto e le sue rappresentazioni. La domanda da porsi è quindi come essi mediano e interferiscono, interrogandosi non tanto sulla validità (cioè sulla capacità di rappresentare fedelmente un oggetto in quanto tale), ma sulla “bontà”: una buona conoscenza acquista il proprio valore perché fornisce modalità buone per vivere con il reale (Mol 2002).