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Nel 2009 c'è stata in Italia una grande campagna contro il rischio che, nell'ambito di un provvedimento normativo denominato “Pacchetto Sicurezza”, venisse rimosso il divieto di segnalazione per le persone straniere non in regola che si recano presso una struttura sanitaria. La campagna, denominata “Noi non segnaliamo”, fu ampia coinvolgendo non solo gli addetti ai lavori (medici e operatori sanitari), ma molte parti della società civile, e raggiunse l'obiettivo di far ritirare l'emendamento incriminato, pur riuscendo solo in parte a limitarne gli esiti infausti (paura e diffidenza tra le persone immigrate nei confronti delle strutture sanitarie sono ancora oggi di comune riscontro). Analizzando questo episodio in un contributo a un pubblicazione internazionale (PHM et al. 2011), tra le ragioni del successo scrivevo: “In Italia, avere un sistema sanitario universalistico che tutela la salute di tutta la popolazione è una realtà che la maggioranza della popolazione considera importante. É probabilmente uno dei pochi diritti che le persone ritengono intoccabile”.

A distanza di pochi anni lo scenario è molto mutato. A farne le spese non è solo il sistema sanitario, ma più in generale una visione di salute e cittadinanza come diritto. La crisi economica, le misure di austerity imposte come toccasana salvo poi essere rinnegate dagli stessi organismi internazionali responsabili della loro applicazione (Ostry, Loungani, e Furceri 2016), i conseguenti tagli alla spesa pubblica e lo spazio crescente lasciato e concesso al settore privato, la mancanza di forme organizzate di tutela dei diritti individuali e collettivi, sono tutti processi che hanno fortemente eroso la qualità della vita di molte persone nonché la fiducia che le attuali forme democratiche possano efficacemente rappresentare gli interessi della collettività. Analizzato a livello internazionale, il processo si iscrive in una progressiva ed espansiva mercificazione degli spazi della vita, che a detta di diversi autori si manifesta come caratteristica intrinseca al sistema capitalista nella sua fase di sviluppo (o razionalità) neoliberista (Harvey 2005).

Secondo Dardot e Laval, infatti, il neoliberismo è la razionalità del capitalismo contemporaneo, pienamente riconosciuto come costrutto storico e assunto a norma dell'esistenza in tutte le società moderne: “Il neoliberismo può essere definito come il set di discorsi, pratiche e apparati che determina una nuova modalità di governo degli esseri umani in accordo con la norma generale della competizione” (Dardot e Laval 2013). Gli autori hanno sottolineato un punto importante, ovvero come il neoliberismo non sia solo un agente di smantellamento di assetti preesistenti, ma anche una forza produttrice di un certo tipo di relazioni sociali, di modi di vita e di soggettività, identificandone in questo l'originalità (non solo un regime di accumulazione ma, più in generale, la produzione di una società diversa). Sottolineano anche come la recente crisi economica, lungi dall'ostacolare le politiche neoliberali, ha condotto a un loro rafforzamento (sotto forma per esempio

di misure di austerity), con un ruolo molto attivo giocato dagli Stati nel promuovere la logica della competizione nei mercati finanziari.

In contrapposizione alla vulgata che vede nell'attuale assetto economico una vittoria del mercato sullo Stato, Dardot e Laval propongono un'analisi del ruolo attivo dello Stato nel processo di introduzione e universalizzazione della logica competitiva e del modello imprenditoriale a livello di economia, società e degli stessi apparati statali, frutto di politiche precise e mirate. Riprendendo la lezione di Marx, Weber e Polanyi gli autori affermano che il mercato non opera da solo, ma è sempre stato sostenuto dallo Stato. Infatti, le ondate di privatizzazione, deregolamentazione e riduzione delle tasse che si sono diffuse nel mondo dagli anni Ottanta hanno fatto pensare a una riduzione dello Stato, o addirittura alla fine dello Stato-nazione, corrispondente a un'espansione dell'attività del capitale privato in campi prima governati da principi estranei al mercato. Tuttavia, gli autori mostrano che non si tratta di una ritirata dello Stato di fronte al mercato, ma piuttosto di una trasformazione dell'azione statale che rende lo stesso Stato uno spazio governato dalle regole della competizione, e soggetto ai limiti dell'efficienza al pari di un'impresa privata. Lo Stato viene così a essere rimodulato da due processi, che agiscono rispettivamente dall'esterno (attraverso le estese privatizzazioni delle imprese pubbliche) e dall'interno (mediante l'istituzione di uno Stato che valuta e regola mobilizzando nuovi strumenti di potere e strutturando, tramite essi, nuove relazioni tra il governo e i soggetti sociali) (Dardot e Laval 2013).

Gli aspetti interessanti di questo sguardo sono la denaturalizzazione dei processi economici alla base dell'accumulazione del capitale (non senza un certa presa di distanza da Marx), e il rifiuto di assumere la dimensione economica come fattore invariante rispetto alle dimensioni istituzionali e sociali. Inoltre l'intendere il neoliberismo come processo di governamentalità19 aiuta a superare la

dicotomia Stato-mercato, che non rende pienamente ragione delle profonde sinergie esistenti tra gli ambiti, per vedere come la medesima logica normativa governa le relazioni di potere a diversi livelli e in sfere differenti della vita economica, politica e sociale. Nelle parole di Dardot e Laval, “In contrapposizione a ogni interpretazione del mondo sociale che lo divide in campi autonomi e lo frammenta in clan e microcosmi separati, l'analisi in termini di governamentalità sottolinea il carattere trasversale delle modalità di potere esercitate in una società all'interno di una stessa epoca” (Dardot e Laval 2013).

19 Riprendendo Foucault, con riferimento alla dimensione del potere, si intendono con questo termine le molteplici attività attraverso le quali gli esseri umani, che possono o meno fare parte di un governo, mirano a dirigere la