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SEZIONE 2: LA RICERCA

10.1 I paradigmi della ricerca educativa

Il termine “paradigma”, fin dall’antichità, è stato connotato di diversi significati. Secondo Platone esso equivale a un “modello”, mentre secondo Aristotele è un “esempio” (Corbetta, 2015). Negli anni Sessanta il concetto viene rivisitato e indagato ulteriormente dai filosofi e dai sociologi della scienza. Sono noti i contributi di Kuhn (1962) che riassumiamo brevemente, al fine di discutere e poi scegliere il paradigma che ci ha orientato nello scegliere un disegno di ricerca.

Secondo Kuhn, la scienza non sarebbe una collezione di informazioni, quest’ultime derivate da un pensiero lineare di causa ed effetto. Il processo di scoperte scientifiche, invece, vivrebbe dei momenti “rivoluzionari” nei quali ci sarebbe un’interruzione con il passato, a discapito di nuove “lenti” per interpretare la realtà. Il modo di concettualizzare il mondo è ciò che Kuhn chiama “paradigma”; esso costituisce una prospettiva teorica riconosciuta e condivisa dalla comunità di studiosi di uno stesso settore e si fonda su acquisizioni precedenti, orientando la ricerca sia in merito all’individuazione del problema, sia nella fase di ideazione delle ipotesi, sia nella scelta delle tecniche per indagare i fatti selezionati e infine nell’interpretazione dei dati. Il paradigma, dunque, è antecedente alla teoria: grazie a esso il ricercatore prende posizione riguardo alla “strada” che intende percorrere, per indagare il mondo, per poi delimitare la teoria di indagine sulla base dell’orientamento individuato. La scelta di un paradigma rispetto a un altro dipenderebbe, in ultima analisi, da giustificazioni di tipo filosofico (Hughes, 1980; trad. it. 1982). La scelta del ricercatore, circa le procedure o gli strumenti di ricerca, è strettamente connessa con le sue particolari interpretazioni del mondo e i suoi valori di riferimento.

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I quadri di riferimento che hanno guidato la ricerca sociale e la ricerca in educazione sono riducibili a due: il positivismo e l’interpretativismo (Corbetta, 2015). Essi costituiscono due visioni opposte di indagare la realtà dalle quali scaturiscono differenti tecniche di ricerca. I paradigmi rispondono a tre domande fondamentali: qual è l’essenza della realtà? Quale conoscenza? Con quale metodo? Dunque, in diverse modalità, il ricercatore riflette sulla questione ontologica: ci sono relazioni tra i fatti educativi e le rispettive interpretazioni? In generale la questione riguarda l’esistenza dei fatti educativi e del mondo esterno. La seconda domanda riguarda: è possibile conoscere la relazione educativa? Quale relazione tra il ricercatore e il contesto educativo? La questione epistemologica si pone l’interrogativo dell’intersoggettività del ricercatore. Infine, la questione metodologica: come indagare i contesti educativi? Per esempio, se lo studioso crede che la realtà educativa sia inevitabilmente influenzabile dal processo di ricerca, allora la metodologia sarà basata sull’interazione. I tre filtri che si applicano prima di intraprendere una ricerca sono fortemente intrecciati tra di loro: selezionare le credenze e i valori per indagare e interpretare i contesti educativi significa scegliere un paradigma di riferimento.

Presentiamo di seguito i principali paradigmi di ricerca.

Il positivismo fonda le sue radici sul realismo: i fatti sociali corrispondono a “cose” (Durkheim, 1895; trad. it. 1969) e dunque si prediligono gli stessi metodi delle scienze naturali (procedere induttivo, adozione di formule matematiche, realizzazione di esperimenti). I fenomeni, dunque, vengono indagati con strumenti matematici. Il mondo sociale sarebbe regolato dalle stesse leggi fisiche e per questo sono studiabili oggettivamente. In tale paradigma la scienza è assunta come unica e immutabile.

Tra il positivismo e l’interpretativismo si colloca il neopositivismo, movimento che si sviluppa tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del ‘900. Dal realismo ingenuo del positivismo si passa a un realismo critico, ossia si assume che la realtà sia conoscibile solo in maniera imperfetta e probabilistica, crolla quindi quella certezza che prima connotava la scienza. Un altro elemento di novità riguarda l’introduzione della categoria di “falsificabilità”: una tesi è attendibile quando i dati non contraddicono l’ipotesi; ogni ipotesi, dunque, potrebbe essere falsificata. Come sostiene Popper (1934) la conoscenza non è più certa; le scoperte rimangano comunque delle ipotesi e non costituiscono conoscenze certe. In questo senso la percezione della realtà non sarebbe una “fotografia” oggettiva, ma dipendente da fattori personali del ricercatore e da condizionamenti culturali e sociali di una determinata epoca. In quest’ultimo paradigma, nonostante si continui a privilegiare le tecniche quantitative, c’è un’apertura alle modalità qualitative.

Secondo l’interpretativismo per conoscere non è sufficiente osservare la realtà, essa va interpretata. Secondo Dilthey (1984) le scienze della natura e le “scienze dello spirito” sono diverse proprio per il

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rapporto tra ricercatore e realtà indagata: nelle prime esiste una realtà esterna al ricercatore ed essa viene indagata per essere spiegata, mentre le seconde non presumono il distacco tra ricercatore e fenomeno, quindi la conoscenza avviene tramite la comprensione. Secondo Weber, però, le scienze sociali dovrebbero essere svincolate dal giudizio di valore del ricercatore, anche se egli è consapevole che le credenze giochino un ruolo importante nella fase di scelta del problema da studiare. Un’altra differenza che evidenzia Weber tra scienze naturali e scienze sociali è la generabilità: le seconde essendo orientate all’individualità presumono la comprensione dell’oggetto di studio attraverso l’interpretazione razionale e dunque si tenderebbe a generalizzare i risultati come nelle scienze naturali. Nelle scienze sociali nasce la concezione del tipo ideale, come se esistesse una conoscenza “oggettiva”. Weber (1922; trad. it. 1958) sostiene che il “tipo ideale” consiste in un insieme di comportamenti tipici che si ricavano dalla rilevazione empirica, grazie ai quali sorgono dei modelli teorici che supportano il ricercatore nell’interpretazione della realtà (Schutz, 1967). In questi termini, nelle scienze sociali non ci sarebbero delle leggi, ma degli “enunciati di possibilità”, grazie ai quali è possibile tracciare le condizioni che rendono possibile un determinato comportamento (Boudon, 1984; trad. it. 1985). Il movimento dell’interpretativismo, sorto negli anni Sessanta negli Stati Uniti, sviluppa la prospettiva weberiana sulla base delle interpretazioni degli individui, le quali sorgono attraverso l’interazione; si iniziò dunque a studiare il mondo della vita nella sua quotidianità. Da una impostazione “oggettiva”, basata su un linguaggio matematico e statistico tipico del positivismo, si passa a una impostazione soggettivista, attribuendo nuovo valore alle componenti intenzionali e soggettive; a partire da queste convinzioni verrà sviluppata la ricerca qualitativa.

Il soggetto opera in modo intenzionale, di conseguenza, per studiare fenomeni inerenti alle scienze umane, è imprenscindibile il contesto e la cultura di appartenenza. Lo studioso stesso si serve di interpretazioni e visioni del sé e del mondo per capire alcuni eventi (Caronia, 2002). Nelle scienze umane si pensa, dunque, che la realtà sia osservabile e descrivibile, proprio sulla base delle rappresentazioni che formano la realtà.

Se si sceglie di adottare il paradigma del “costruttivismo” si abbraccia l’idea che la realtà possa essere compresa attraverso costruzioni mentali, socialmente fondate. La sua natura metodologica è stata definita “ermeneutica/dialettica” in quanto si crede che le costruzioni di senso possano essere indagate attraverso il dialogo e l’interazione (Varisco, 2007).

La costruzione della conoscenza è imprescindibile dal contesto; come sostiene Gregory Bateson la creazione di significati avverrebbe sulla base di un contesto ed è frutto di processi relazionali operanti su rappresentazioni (Bateson, 1979). Sulla base di queste considerazioni, non è possibile generalizzare i dati empirici in educazione, in quanto essi cambierebbero sulla base del contesto;

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come sostiene anche Duccio Demetrio (1994), la conoscenza non è dunque una riproduzione fedele della realtà, ma dipenderebbe da come essa viene costruita dai soggetti interagenti. Il metodo conoscitivo fondamentale risulta essere l’abduzione: esso permette di descrivere un fenomeno per cercare altri fenomeni contenenti: relazioni, regole o leggi. L’atto conoscitivo equivale a un processo di compensione per analogia.

Il paradigma costruttivista ci permetterebbe di capire i fenomeni in educazione tenendo in considerazione il contesto e la cultura di appartenenza e la loro relazione, per cogliere, così, la complessità e ampliare i diversi punti di vista.

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