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I secoli XVI-XVII Cartesio: l’animale-macchina

3. La questione animale nella filosofia moderna Filosofia dei secoli XVI-XIX

3.1 I secoli XVI-XVII Cartesio: l’animale-macchina

Per la rinascita di forme di pensiero “animalista” bisogna attendere il Rinascimento. Leonardo è senza dubbio la figura più rappresentativa dell’animalismo di questa epoca: le testimonianze pervenuteci in riguardo al suo impegno per le sofferenze degli animali, gli innumerevoli aforismi in cui ne stigmatizza il maltrattamento e l’uccisione sono emblematici della nuova sensibilità nei confronti delle altre specie viventi e, in generale, della natura127

.

Nella seconda metà del XVI secolo la difesa dei diritti degli animali trova posto negli scritti di due pensatori molto diversi tra loro per impostazione teorica: Michel de Montaigne e Giordano Bruno.

Quest’ultimo si ricollega alle forme più antiche del pensiero greco, «facendo proprie alcune dottrine tipiche dei presocratici, ai quali deve la visione

vitalistica della natura, che concepisce [...] come realtà divina e vivente»128. La filosofia di Bruno «è permeata di amore per la vita e per la natura, che

egli considera come tutta viva, tutta animata, per cui non esiste materia

127 Cfr. E. GRANITO, Filosofi per gli animali. Linee di una filosofia non antropocentrica,

in E. GRANITO, F. MANZIONE (a cura di), Per una storia non antropocentrica. L’uomo

e gli altri animali, Roma: Ministero per i beni e le attività culturali, 2010, p. 217.

La Direzione generale per gli archivi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha pubblicato il Catalogo della mostra e Atti del convegno di studi, Archivio di Stato di Salerno, maggio 2009. L’intento è di guardare al rapporto uomo-mondo animale nella storia

a partibus animalium, dal punto di vista di coloro che, in un’ottica tradizionale, sembrano

viceversa rappresentare semplici strumenti di cui l’uomo si avvale per soddisfare i propri bisogni. Vero è che la mostra propone testimonianze «prodotte dalla specie dominante, l’uomo», nel quadro del secolare sfruttamento degli animali, soprattutto come fonte alimentare e di energia. Tali testimonianze, pur eterogenee per qualità, provenienza e collocazione temporale – si tratta di documenti, libri, monete, foto, disegni, dall’antichità al secolo XX – sono tutte parimente viziate dal contesto di origine; sicché, come ben rilevato dai curatori del catalogo, consentono di ricostruire non certo la storia degli animali ma piuttosto il posto che l’uomo ha assegnato agli animali «nella sua storia». I documenti esposti comprovano la permanenza nell’uomo, pur attraverso successivi adattamenti, di un atteggiamento improntato alla negazione dell’autonoma dignità dell’animale.

128

34 inerte»129

. Per questa concezione egli si rifà esplicitamente all’antica filosofia greca: la vita è presente, sia pure in vari gradi, in tutta la realtà; non c’è nulla che ne sia privo. Proprio perché «una e divina è la vita-materia, dal cui seno scaturiscono tutti gli esseri finiti, tra essi non vi sono differenze né dal punto di vista corporale né da quello spirituale»130. È da questa concezione di fondo che deriva il rispetto del filosofo per gli animali, «composti della stessa materia dell’uomo»131

- e quindi non inferiori a lui - e la condanna della loro uccisione per scopi alimentari e per la caccia.

Il pensiero “animalista” trova una giustificazione teorica anche nella rinascita dello scetticismo, ascrivibile, ad opinione di Granito, «oltre che alla scoperta delle opere di Sesto Empirico, a vari fattori: la crisi della cultura aristotelico-scolastica, la scissione della cristianità in seguito alla Riforma, le scoperte geografiche, che consentirono la conoscenza di nuovi popoli con costumi e scale di valori diversi da quelli europei»132. Furono appunto questi fattori ad indurre uomini come Michel de Montaigne a ripudiare l’antropocentrismo: «l’uomo arroga a sé solo il privilegio della ragione ed è incapace di vedere quanta razionalità e saggezza emerga dal comportamento degli animali»133.

Secondo Montaigne, «c’è più differenza fra un uomo e un altro uomo, che non fra un animale e un uomo»134. Di qui la sua profonda sensibilità per la sofferenza degli animali che lo induce a stigmatizzare i maltrattamenti loro inflitti:

«Quanto a me, non ho potuto mai veder senza dispiacere inseguire e uccidere neppure una bestia innocente, che è senza difesa e dalla quale non riceviamo alcuna offesa. E quello che accade comunemente, che il cervo, sentendosi senza fiato e senza forza, non avendo più altro scampo, si rimette e si arrende a noi stessi che lo stiamo inseguendo, chiedendoci grazia con le sue lacrime, [...] questo mi è sempre sembrato uno spettacolo spiacevolissimo.

129 Ibid. 130 Ibid. 131 Ivi, p. 219. 132 Ibid. 133 Ivi, p. 221. 134

M. DE MONTAIGNE, Saggi, a cura di F. GARAVINI, Milano: Adelphi, 1992, vol. I, p. 604.

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Non prendo mai una bestia viva a cui non ridia la libertà. Pitagora le comprava dai pescatori e dai cacciatori per fare altrettanto [...] Le nature sanguinarie nei riguardi delle bestie rivelano una naturale inclinazione alla crudeltà. Dopo che a Roma ci si fu abituati agli spettacoli delle uccisioni degli animali, si passò agli uomini e ai gladiatori. La natura stessa, temo, ha istillato nell’uomo qualche istinto verso l’inumanità. Nessuno si diverte vedendo delle bestie giocare fra loro e accarezzarsi, tutti immancabilmente si divertono vedendole sbranarsi e squartarsi»135.

Montaigne è indotto a mettere in discussione la distinzione tra l’uomo e gli animali, fatta in nome della ragione e del linguaggio. L’uomo è un essere limitato; nonostante ciò, ha una smisurata presunzione, di cui sembra che la natura lo abbia dotato per consolarlo del suo stato miserevole. In realtà, egli è una creatura meschina; non è padrona neanche di se stessa e non ha la facoltà di conoscere neppure la minima parte dell’universo e tanto meno di comandarla. Ed è proprio a causa di questa presunzione che si pone al di sopra degli altri esseri viventi e ritiene lecito trattarli con disprezzo:

«La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa […] e con l’immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna e mettendosi il cielo sotto i piedi. È per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si uguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli piace. Come può egli conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro? [...] Resta da stabilire di chi sia la colpa del non intenderci; poiché noi non le comprendiamo più di quanto esse comprendano noi. Per questa stessa ragione esse possono considerarci bestie, come noi le consideriamo»136.

In quel grande teatro dello scetticismo che è l’Apologia di Raymond

Sebond137, Montaigne infatti «ritrova e rinnova [...] Sesto Empirico in un

135 Ivi, pp. 559-560. 136 Ivi, pp. 584-585. 137

L’Apologia di Raymond Sebond costituisce il capitolo più organico e ampio dei "Saggi" di Montaigne.

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elogio spettacolare degli animali che associa costantemente ad una descrizione severa della miseria dell'uomo, “la più calamitosa e fragile di tutte le creature”, eppure “la più orgogliosa” nelle sue pretese illusorie di una razionalità superiore»138; egli afferma che noi non abbiamo ragione di sentirci superiori agli animali.

D'altra parte, l'affermazione che l'uomo, liberandolo dalla presunzione e dall'arroganza di ogni forma di antropocentrismo, non è superiore agli animali non è unicamente strumentale alla demolizione delle certezze della ragione. Montaigne ribalta anche la tradizionale concezione antropocentrica che pone l'uomo al vertice della natura e - ispirandosi alle critiche di Plutarco alle crudeltà sugli animali - nega che l'uomo abbia il diritto di opprimere gli animali, dato che essi, come lui, soffrono e provano sentimenti. Inoltre Montaigne deplora la barbarie della caccia, esprimendo la sua compassione nei confronti degli animali innocenti e senza difese verso i quali, anziché esercitare una «sovranità immaginaria», l'uomo dovrebbe riconoscere un dovere di rispetto.

Nonostante quanto detto, l’antropocentrismo di marca aristotelica rimarrà la concezione dominante fino al XVII secolo, allorquando, in totale opposizione a Montaigne, vennero a inserirsi le posizioni ben più estreme di Cartesio (René Descartes).

La teoria cartesiana dell’animale-macchina, figlia del meccanicismo cartesiano risultante dal razionalismo scientifico, negò agli animali il riconoscimento perfino delle più semplici facoltà che, fino ad allora, non erano mai state poste in discussione. Si trattava di una concezione dell’animale nuova, estranea tanto al senso comune quanto ai tradizionali insegnamenti aristoteliani. Teoria paradossale che percepiva gli animali come corpi naturali privi di anima, di ragione e di linguaggio, ma organizzati secondo la tecnologia coerente di un meccanismo predeterminato: teoria che, come ci dice Spallanzani, in realtà, Cartesio

138

M. SPALLANZANI, Descartes e il ‘paradosso’ degli animali-macchina, in “Bruniana

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«non aveva mai redatto a sistema né formulato nei termini rigidi che le controversie postume gli hanno attribuito»139. Ed ancora, secondo chi scrive: «la tesi paradossale degli animali-macchina - spunto iniziale, forse, nella biografia intellettuale del filosofo - si pone come argomento complementare e, insieme, differenziale del suo pensiero, e comunque, malgrado l'enfasi che il futuro le assegnerà, relativamente marginale nei suoi testi»140

. Argomento marginale, in quanto rari sono i testi in cui Cartesio ne parla esplicitamente e lo tematizza a dottrina compiuta, essendo esso, piuttosto, motivo polemico utilizzato da lui stesso nella sua critica alla scolastica: «oggetto, comunque, di una lettura postuma dei cartesiani, articolato in enunciati e organizzato a teoria, forzando le poche pagine scritte da lui a materia monografica di una letteratura vastissima»141, che diventerà desueta solo alla metà del Settecento.

La tesi dell'automatismo animale mostrava anche le difficoltà concettuali della filosofia cartesiana, in cui la pretesa di una ricostruzione scientifica della natura si rivelava troppo ambiziosa e praticamente irrealizzabile proprio nella spiegazione delle strutture e dei processi biologici, irriducibili, nella loro totalità organica, alla modellizzazione meccanica e alla deduzione lineare dai principi.

La teoria del corpo-macchina è esposta da Cartesio «fin dal Traité de

l'homme nei suoi dati scientifici fondamentali [...] riconducendo così

l'animato all'inanimato, la vita a movimenti meccanici, del tutto simili a quelli che regolano gli orologi ο che dirigono i gesti degli automi - il contatto, l'urto, la spinta, la trazione ecc. - la teoria escludeva immediatamente ogni riferimento a un'anima [...] [in contrapposizione alla] tradizione aristotelica-scolastica»142.

Ma il testo fondamentale di enunciazione della tesi cartesiana, ed anche testo di risposta filosofica allo scetticismo di Montaigne mediante un

139 Ibid. 140 Ivi, p. 189. 141 Ibid. 142 Ivi, pp. 190-191.

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rovesciamento radicale dei suoi argomenti, è il Discours de la Methode143 , là dove egli, autore di studi di medicina e di anatomia che amava anche praticare personalmente, espone una teoria meccanica che fonda una medicina tale da porsi come conoscenza scientifica - Cartesio la teorizza e la difende con estremo vigore, prendendo ripetutamente distanza da Aristotele e dalla tradizione galenica - e che consente altresì di stabilire una distinzione radicale tra gli uomini, dotati di quello strumento universale che è la ragione, e gli animali, corpi naturali sprovvisti di conoscenza e quindi incapaci di linguaggio e di azioni universali, ma in grado di muoversi e agire secondo uno schema rigido in virtù delle sole leggi meccaniche144. Proprio come gli orologi che, «pur essendo fatti solo di ruote e di molle, contano le ore e misurano il tempo»145 con precisione: gli animali possono essere pensati come degli automi ο delle macchine, incomparabilmente meglio organizzate e più perfette di quelle inventate dagli uomini, perché fatte dalle mani di Dio:

«non sembrerà affatto strano a coloro i quali, sapendo quanti diversi automi o macchine semoventi può costruire l’industria umana con l’impiego di pochissimi mezzi in confronto alle grandi quantità di ossa, muscoli, nervi, arterie, vene e altre parti che compongono il corpo di ogni animale, considereranno questo corpo come una macchina che, essendo stata fatta dalle mani di Dio, è incomparabilmente meglio ordinata, ed ha in sé movimenti tanto più meravigliosi di quelle che mai gli uomini possono inventare»146.

Essi, dunque, venivano percepiti nella concezione del filosofo quali automi, macchine non coscienti e prive di pensiero (cogito), «capaci sì di agire apparentemente come se desiderassero certe cose piuttosto che altre, o di reagire agli stimoli dolorosi, ma esclusivamente come risposta di natura meccanica, in base ad una sequenza stimolo-reazione avulsa da qualsiasi

143 R. DESCARTES, Discorso sul metodo, Torino: SEI, 1978. 144 Cfr. SPALLANZANI, Descartes cit., p. 192.

145

Ibid.

146

39 sensibilità»147

. In pratica, gli animali non avrebbero alcuna consapevolezza delle proprie sensazioni, né del piacere, né del dolore alle stesse connesse. Gli animali non sono in grado di parlare, di usare il linguaggio; su tali presupposti si basa la definizione cartesiana degli animali quali bruti privi di

pensiero148.

«È certo che nei corpi degli animali, come nei nostri, ci sono ossa, nervi, muscoli, spiriti animali e altri organi disposti in modo tale da poter da soli, senza alcuna attività pensante, dare a tutti gli animali i movimenti che osserviamo. Questo è molto chiaro nei movimenti convulsivi quando la macchina del corpo si muove a dispetto dell’anima, e qualche volta più violentemente e in modo più vario di quando viene mossa dalla volontà. In secondo luogo sembra ragionevole, dato che l’arte copia la natura, e l’uomo può creare vari automi che si muovono senza pensare, che la natura debba produrre i propri automi, molto più perfetti di quelli artificiali. Questi automi naturali sono gli animali»149.

Non per questo riteneva di aver provato positivamente la non esistenza del cogito negli animali, in modo da poter concludere all'evidenza di una scienza certa, rimandando la soluzione a un giudizio di probabilità, fondato su argomenti d'esperienza che consentivano di negare l'anima delle bestie con ragionevole attendibilità, anche se non assolutamente.

A tale concezione meccanicistica Cartesio ritenne di trovare conferma negli studi di anatomia che si erano sviluppati fin dal Rinascimento. Egli stesso si interessava di questa scienza: per anni sezionò i più diversi animali ed aveva l’abitudine di frequentare le botteghe dei macellai e di andare in giro per i villaggi per vedere ammazzare i maiali150.

Tale esasperato meccanicismo volto ad oscurare la natura di creature senzienti di quegli esseri che umani non fossero, portò alla più assoluta reificazione di questi ultimi, «collocandoli al di fuori della terra lambita, ben

147

BASINI, La tutela penale degli animali cit., p. 5.

148 Cfr. DESCARTES, Discorso sul metodo cit., pp. 88-93. 149 Ivi, p. 93.

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prima che dalle onde del diritto, da quelle della morale»151. L’effetto della concezione dell’animale macchina fu devastante, e servì quale giustificazione teorica, ad esempio, per la pratica della vivisezione che andò sviluppandosi e incrementandosi nel periodo immediatamente successivo. La vivisezione fu praticata senza il benché minimo rispetto per le sofferenze degli animali, come un ignoto contemporaneo di Cartesio ci illustra nel seguente passo:

«Gli scienziati (cartesiani) bastonavano i cani con la più assoluta indifferenza e si prendevano gioco di coloro che avevano compassione di queste creature pensando che sentissero dolore. Dicevano che gli animali non sono altro che degli orologi, che i lamenti con cui reagiscono alle percosse sono soltanto il rumore di una piccola molla che è stata sollecitata, e che nel loro corpo non c’è posto per sentimenti. Essi immobilizzavano quei poveri animali e li vivisezionavano per poter osservare la circolazione del sangue che era allora oggetto di vivace controversia»152.

Per concludere, e come sentenzia Spallanzani, «più che una teoria scientifica, il modello dell'automatismo animale, tanto paradossale per il senso comune quanto riduttivo per la comprensione del vivente, si rivelava infatti molto duttile per l'azione tecnica, ribadendo e confermando il primato della razionalità e valorizzando e legittimando le possibilità illimitate dell'industria umana nella sua applicazione operativa a tutti i corpi, organici e inorganici. Come se fosse nell'orizzonte della ragione pratica e della ragione tecnica che la celebre questione degli animali si decidesse e acquisisse il suo significato più vero, a coronare così il progetto cartesiano di un dominio razionale dell’uomo sulla natura»153.

151 BASINI, La tutela penale degli animali cit., pp. 5-6.

152 Si riprendono le parole di Granito (GRANITO, Filosofi per gli animali cit., p. 224),

secondo cui la citazione testuale si deve a Tom Regan (T. REGAN, I diritti animali, trad. it. R. RINI, Milano: Garzanti, 1990, p. 27). Si segnala però che in Cartesio, Wikipedia,

https://it.wikipedia.org/wiki/Cartesio#L'uomo_macchina_e_gli_animali (controllata il: ottobre 23, 2020) tale citazione viene attribuita a: N. FONTAINE, Mémoires pour servir à

l'histoire de Port-Royal, Cologne, 1738, vol. 2, pp. 52-53.

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3.2 LA CONSIDERAZIONE PER GLI ANIMALI NELL’EPOCA DEI

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