• Non ci sono risultati.

I L L IBER COME UNA ‘ TYCHOLOGIA ’: STUDIO DEL SUO USO POLITICO E DELLA SUA INTERPRETAZIONE MORALE

O Fortuna, /velut Luna/statu variabilis,/semper crescis/aut decrescis.133

Il volume, rimasto inedito fino alla fine del XIX secolo, fu dato alle stampe solo nel 1883 da Ludovic Lalenne. Ludovic Marie Chrétien Lalanne fu un noto storico e bibliotecario francese. Egli condusse studi paleografici e dopo aver conseguito la laurea, lavoro come bibliothécaire de l’Institut dove tutt’oggi è custodito il nostro manoscritto. Conserviamo una testimonianza diretta del ritrovamento del Liber: “A few years ago, while loooking over various manuscripts oreserved in the Library of The Istitute, I chanced upon a book […]. Its title, Emblemata Fortunae, seemed to point to its being one of those tedious allegorical works so much in vogue in the sixteenth century, the most celebrated of which is that by Alciat. But, opening it I was agreeably surprised. In addition to the Latin text which I was quite prepared to find, it contained two hundred drawings belonging unmistakeably to the French school, and a mere glance over them sufficed to show that they possessed a high artistic

69

value”.134 Tempo dopo, lo storico decise di pubblicare una edizione del corpus di illustrazioni del codice. La scelta di tralasciare tutta la parte letteraria fu dettata dal fatto che, a suo avviso, le le citazioni latine erano da reputare banales et inignifiantes a differenze della originalité, élegance élegance et merveilleuse variérté degli emblemi. Tuttavia, è doveroso precisare che la teoria degli degli emblemi non era all’epoca ancora conosciuta.

Le incisioni della raccolta ottocentesca furono incise, per volere dello stesso Lalenne, da un certo M. Drout, che autografa le copie, di cui non abbiamo alcuna notizia certe.135 Nella breve introduzione incipitaria alla edizione del 1883, lo storico fornisce alcune informazioni circa il manoscritto avanzando il nome di Imbert d’Anlézy, Seigneur de Dunflun come autore del suddetto e Jean Cousin come incisore delle tavole. Tuttavia, le ipotesi di Lalenne non sono ancora del tutto confutate e, alla pubblicazione delle imprese, non seguì alcuna ricerca di valore scientifico. Eppure l’edizione ottocentesca rappresenta un buon antecedente nello studio delle rappresentazioni iconografiche del Liber, non solo perché sono una fonte visiva per quegli emblemi ormai danneggiati dal tempo ma anche perché costituiscono un fine prodotto dell’arte incisoria francese di fine secolo. Volendo ricostruire l’iter del volume giunto sino a noi, Lalanne scrive che alla morte del suo autore il manoscritto fu ereditato dai suoi discendenti.136 Successivamente, fu difficile tracciarne il percorso.

134 Ludovic Lalenne, The book of Fortune: two hundred unpublished drawings, Paris: Librairie de l’art, 1883,

p. 1.

135 Non abbiamo alcuna informazione circa l’incisore francese che Lalenne assoldò per curare le copie

delle illustrazioni del Liber. A riferirci il suo nome è lo stesso Lalenne che lo cità alla pagina 3 della introduzione alla edizione del 1883.

136 Cfr. in Ludovic Lalanne, The book of Fortune: two hundred unpublished drawings, Paris, Librairie de l’art:

70

Nel 1810 a Parigi Alexandre Lenoir diede alla stampe la sua Historire des Arts dove per la prima volta viene citato il nostro Liber come un lavoro di Jean Cousin: “In Paris there is a manuscript by Jean Cousin, composed of sixty (this should be one houndred) drawings, and equal number of cartouches, representing th various attitudes of Forune during the course human life, and illustrative of all classes of society: the cartouches in connection with each drawing, also the work of Jean Cousin, contain in French (this should be Latin) verse the explanation of the subjects represented in the drawings facing them respectively. […]. After death of the present owner of this fine MS., who is over seventy years of age, it may pass in possession of the National Library”.137

Maggiori informazioni circa il proprietario del manoscritto sono date nel terzo volume dell’inedito Traité Philosophieque des Artes a cura dello stesso Lenoir: “this great artist (Jean Cousin) has left a precious MS., which was the propoerty of the Chevalier de Boufflers, and which I saw in the hands of M. Le Breton, the Secretary to the Academy of Fine Arts”.138 Lenoir aggiunge in nota un particolare interessante: “The Chevalier de Bouffletes had entrusted it for sale to M. Le Breton; it is not known what has become of it”.139

Non abbiamo molte notizie biografiche su Chevalier de Bouffletes né su M. Le Breton. Sappiamo solo che Chevelier morì nel gennaio del 1815 e che fu probabilmente l’ultimo proprietario del manoscritto e che Le Breton lavorò all’Accademia delle Belle Arti di Francia

137 Alexandre Lenoir, Histoire des Artes en France, Paris: par A. L., 1810, pp. 74-75 e in Lalanne in

Ludovic Lalanne, The book of Fortune: two hundred unpublished drawings, Paris, Librairie de l’art: 1883, p. 12.

138 Ivi, p. 14.

71

fino al marzo 1814.140Come il Liber finì conservato nella raccolta di manoscitti Bibliothèque de l’Institut resta un mistero.

Per un studio organico del manoscritto è però necessario non tralasciare la parte letteraria. Il Il codice fu progetto e realizzato in modo tale da rendere la parte iconografica inscindibile dalla dalla sua prosa. Le citazioni latine contribuiscono in maniera preponderante alla interpretazione interpretazione e alla comprensione morale di ogni singola coppia di emblemi. Come abbiamo abbiamo visto, ad ogni figura corrisponde una citazione coerente ad essa attua ad amplificarne amplificarne il messaggio. Le citazioni sono tratte da noti autori antichi e moderni come: Senofonte, Virgilio, Polizano et alii.141 Inoltre, a volontà di diffusione del pensiero morale delle delle invenzioni appare confermato anche dal commento poliglotto dell’autore che segue buona parte degli emblemi. Difatti, se numerosi quesiti riguardo questo codice sono ancora dubbi, una certezza è che il Liber fu creato con il fine di essere donato.

Come abbiamo potuto intendere, la Fortuna fu un tema assai ricorrente nella storia dell’umanità già a partire dai tempi antichi. In ambito emblematico, ricorre sia nelle opere di

140 Cfr. Lalanne in Ludovic Lalanne, The book of Fortune: two hundred unpublished drawings, Paris, Librairie

de l’art: 1883, pp. 13-14. A pag, 14, Lalanne CI INFORMA CHE PRIMA DI GIUNGERE ALL’INSITUT NON VI È MENZIONE CHE COLLOCA IL LIBER all’Accademia delle Belle Arti di Francia.

141 Gli autori citati nel Liber Fortunae sono: seguente: Ovidio, citato in 15 simboli, Palingenio in 12,

Seneca in 13, Erasmo e Cicerone in, Virgilio in 6, Publio Siro e Orazio in 5, Euripide, Eusebio di Cesarea, G. Giraldi Gigli e Platone in 4, Giovenale, Boezio, G. Budè, Chilone di Sparta, Plutarco in 3, Aristotele, Claudiano, Democrito, Esopo, Omero, Lattanzio, Battista Mantovano, Menandro, Periandro, Plauto, Sallustio e JL Vives in 2. Solo una volta: Apelle, Archelao, Aristofane, Gellio, Bion, Jean Bouchet, Tabella di Cebete, Epitteto F. Filefo, Isidoro di Siviglia, Lucano, Marziale, Pacuvio Pindaro, Plinio, Poliziano, Properzio, Pitagora, J. Tixier di Ravisy, Silio Italico, Sofocle, Strabone, Stobeo, Terenzio, Talete, Valerio Massimo, R. Maffeo Volaterrano, Senofonte e alcuni Salmi. Cfr. Florence Buttay, “Miles fortunae. Remarques sur le Livre de Fortune de la Bibliothèque de l’Institut (ms. 1910)”, in Histoire, économie et société, vol. 21, n. 4, 2002, pp. 451-477.

72

Alciato che in quelle di Gilles Corrozet, ad esempio.142 Tuttavia, le invenzioni relative a questi ultimi seguono lo schema iconografico tradizionale differendo dal lavoro originale di L’autore del Liber, infatti, nelle sue imprese ha mostrato una capacità di ingenium senza pari riuscendo a dar vita alla prima ‘enciclopedia della Fortuna’ della storia del Rinascimento. L’originalità del documento risiede quindi nel fatto di essere inteso come un ‘tychologia’ che una, varias qui tentas fingere sortes”143 riunisce tutti gli autori che hanno scritto della Fortuna, tutte le possibilità di rappresentazione della dea commentate in qualsiasi lingua allora Il Liber Fortunae non si configura solo come una raccolta originale di emblemi ma è anche una interessante testimonianza di un certa idea della Fortuna che circolava in quel tempo e quel gruppo sociale. Con la riscoperta e lo studio del mondo classico si diffondono le teorie neoplatoniche che auspicavano ad una conciliazione della divina pietas e della pia philosofia, esempio. Un esempio importante fu Marsilio Ficino che con la sua Theologia platonica de immortalitate animarum, cercò di conciliare i due concetti.144 Ed è proprio grazie a queste concezioni circa la centralità dell’uomo che modifica e caratterizza la Fortuna nel Rinascimento. Per Warburg la creazione della figura della Fortuna nella Fortuna con vela o timone, nella Fortuna con Ruota e nella Fortuna con ciuffo si rispecchiano tre tipiche fasi dell’uomo in lotta per la propria esistenza. Nella raffigurazione della Fortuna si rispecchia

142 Gilles Corrozet fu un noto incisore francese nato a Parigi nel 1510. Nell’edizione del 1543

dell'Hecatomgraphie, la sua opera più nota, sono presenti 25 emblemi riferibili alla Fortuna: il numero 8, 11, 12, 18, 21, 37, 38, 40, 41, 45-49, 61, 67, 71, 73, 74, 76, 83, 87, 88, 91-93, 100. Le invenzioni sono relative a concetti come il Tempo, la Sorte, la Virtù e alle altre tradizionali guise attribuite alla dea. Cfr. Cfr. Florence Buttay, “Miles fortunae. Remarques sur le Livre de Fortune de la Bibliothèque de l’Institut (ms. 1910)”, in Histoire, économie et société, vol. 21, n. 4, 2002, pp. 451-477.

143 Cfr. Daniel Russell, Emblematic structures in Renaissance French Culture, Toronto: University

Toronto Press, 1995, p. 147-149.

144 Per un approfondimento si rimanda a Andrè Chastel, Marsilio Ficino e l’arte, a cura di Ginevra

73

infatti quella lotta per l’esserci che lo storico definisce come Kampf ums Dasein145 che è all’origine di ogni effigie della dea.146

La personificazione della Fortuna, è dunque intesa come emblema dell’uomo che libera se se stesso. La figurazione di Fortuna, considerata nei suoi vari aspetti tra XV e XVI secolo, rappresenta per Warburg la “formulazione figurativa del compromesso fra la ‘medievale’ fiducia fiducia in Dio e la fiducia in se stesso dell’uomo rinascimentale”.147 Scrive ancora Warburg: “Nella Fortuna con Ruota l’uomo è un oggetto passivo, collocato sulla ruota come un tempo veniva legato l’assassino; in un ribaltamento per lui incomprensibile e imprevedibile, raggiunge raggiunge dal basso il sommo, per poi ricadere giù in fondo. Nella Fortuna con ciuffo – che ha ha trovato nell’Occasio del Rinascimento la sua coniazione, derivante da una rappresentazione antica <Kairòs>, è al contrario l’uomo che cerca di afferrare il destino per il ciuffo e di appropriarsi saldamente della sua testa come preda, come fa il boia con la testa della vittima. Tra le due risalta la Fortuna con vela. Anche questa deriva da un’antica rappresentazione, poiché anche presso i Romani la dea della Fortuna è al timone, e come ‘Isis euploia’, con la vela spiegata,

145 Tale termine è adoperato da Warburg in una lettera del 1927 indirizzata a Edwin Seligman,

professore di economia politica alla Columbia University in cui lo storico scrive: “Credo che dopo trentadue anni che sono trascorsi dal mio primo viaggio in America, la storia dell’arte si sia sviluppata a a tal punto che vale la pena per entrambe le sponde di far conoscere in America il nuovo indirizzo della della scienza della cultura […]. In questo senso cerchiamo di interpretare ad esempio, alla luce di una nuova “estetica energetica”, la creazione della figura della Fortuna, come appare in primo luogo nella Fortuna con Ruota, in secondo luogo nella Fortuna con ciuffo, e in terzo luogo nella Fortuna con timone timone e vela: in queste tre figure si rispecchiano tre tipiche fasi dell’uomo in lotta per la propria esistenza”. Ivi, http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=727#VIII.

146 Cfr. Giulia Bordignon, Monica Centanni, Silvia Urbini, et alii, “La Fortuna nel Rinascimento.

Una lettura di tavola 48 del Bilderatlas Mnemosyne” in Engramma, n° 131, Dicembre 2015, p. 5 e sgg.

http://docplayer.it/1189318-Fortuna-nel-rinascimento-barale-bordignon-gordon-piccolomini- sbrilli-squillaro-urbini-con-un-testo-di-niccolo-machiavelli.html

74

è la dea della buona navigazione. Ma il primo Rinascimento ha trasformato, in modo tutto suo proprio, la dea con la vela nel simbolo di un uomo che ingaggia una lotta attivo-passiva con il proprio destino. Fortuna sta al centro della nave, come l’albero a cui è fissata la vela spiegata, ed è padrona della nave ma non completamente, perché al timone siede l’uomo e, nel parallelogramma delle forze, quanto meno concorre a determinare la diagonale”.148

Per comprendere meglio le motivazioni che hanno spinto d’Anlézy a dar vita ad un progetto di tale erudizione e fatica è necessario tener conto dell’ambiente culturale in cui opera e dei destinatari del manoscritto. D’Anlèzy, erudito umanista, assume una concezione positivistica nei confronti della Fortuna, intesa come opportunità ad afferrare, e del tempo come momento opportuno grazie al quale l’uomo può realizzarsi e mostrare il proprio valore afferrando l’occasione che divina, sorte congiunta alla volontà stessa di Dio, gli ha offerto. In una tale concezione, è legittimo per l’uomo dover essere identificato come ‘Ercole’ capace di fronteggiare la audace Fortuna. Questa idea, di cui si trovano riscontro anche nel Rinascimento italiano, è affiancata da un ideale che nella cattolica Francia vede la nobiltà dotata di una eccellenza di cui il germe sarebbe stato depositato da Dio nell’uomo. Ma occorrerebbe meglio comprendere le implicazioni di questo pensiero per un giungere ad una interpretazione politica e morale del nostro codice.

Il Liber Fortunae è da interpretare come uno speculum principis indirizzato al quattordicenne duca d’Alençon, come un invito ad afferrare le opportunità che gli erano offerte, come sottolinea la studiosa Alison Saunders.149

Per cui, il Liber, non si configura solo come un dono con il fine di docere l’ultimo erede maschio al trono di Francia ma anche come strumento politico dall’alto profilo morale,

148 Ibidem.

149 Cfr. Allison Saunders, “The Liber Fortunae of Jean Cousin, Imbert d’Anlezy or Ludovic

75

scritto da un uomo che con le sue gesta, combattendo per Francesco I durante le Grandi Guerre d’Italia, aveva fatto la storia. Francesco I fu un grande re e un grande uomo. Le fonti lo ricordano come un principe, che incarnando numerose virtù, rese grande il Regno dei Gigli sotto il suo impero. Lo stesso non si può affermare dei suoi successori. Il duca d’Alençon fu battezzato come Francesco II in onore di suo nonno. Probabilmente il manoscritto, si configurava come un invito al giovane principe Francesco a non dubitare delle proprie virtù ed a conoscere i diversi volti della Fortuna al fine di poter cogliere senza remore ogni momento propizio, senza trascurare che la essa è una forza volubile e capricciosa capace di sovvertire le sorti anche di re, regine ed imperi. E così Fortuna, “né domina prepotente né foemina da maltrattare”,150 è colei che solo l’uomo nuovo può trattenere, prendendola, ma dolcemente, con grazia, per i capelli.

150 Giulia Bordignon, Monica Centanni, Silvia Urbini, et alii, “La Fortuna nel Rinascimento. Una

lettura di tavola 48 del Bilderatlas Mnemosyne” in Engramma, n° 131, Dicembre 2015, p. 37. http://docplayer.it/1189318-Fortuna-nel-rinascimento-barale-bordignon-gordon-piccolomini- sbrilli-squillaro-urbini-con-un-testo-di-niccolo-machiavelli.html

76 Capitolo Terzo

FORTUNA TRIUMPHANS: LA GENESI DEL LIBER ALLA CORTE DI VALOIS

“Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o republiche o principati. E’ principati sono, o ereditarii, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o e’ sono nuovi. E’ nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna. Sono questi dominii così acquistati, o consueti a vivere sotto un principe, o usi ad essere liberi; e acquistonsi o con le armi d'altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù”.151

Il Liber Fortunae, Ms. 1910, custodito presso la Bibliothèque de l’Insititut in Paris, è un manoscritto di singolare interesse da diversi punti di vista. Si tratta di un codice cinquecentesco, di scuola francese, in plume ou sanguine, di 433 pagine su carta (270 × 200mm), contenete centum emblemata et simbymbola dedicati ad un unico soggetto: la Fortuna.

77

Come notato da Lucie Galactéros L. Boissier, il tema della fortuna, nel Cinquecento, gode di “son maximum de résonnance, autant formelle que sémantique”.152

Se, infatti, furono dedicate celeberrime opere letterarie al tema, prima fra tutte il De remediis utrius fortunae di Petrarca, anche le arti diedero il loro contributo favorendo un fiorente sviluppo iconografico del tema. In particolare, in Italia nella seconda metà del XV secolo, il tema della fortuna, in rapporto alla condizione umana, fu assai teorizzato dagli umanisti. Le nuove concezioni favorivano maggiormente una visione antropocentrica in cui la fortuna o la sfortuna giocava un ruolo chiave. Accantonate le teorie teocentriche, che volevano l’uomo vincolato al proprio destino per volontà divina, si auspicava una maggiore libertà di scelta nell’agire umano indipendente dalla volontà divina e dallo stato di nascita. La fortuna, nel Rinascimento, è protagonista indiscussa delle nuove teorie umanistiche. Tuttavia, questo manoscritto non è il semplice frutto di un lavoro basato su un tema in voga, tutt’a contrario si connota e si distingue per la sublimazione del tema detenendo ‘un primato’ tra opere ad essa dedicate.

Seppur di straordinaria bellezza e fine erudizione, questo manoscritto non è stato fin ora oggetto di uno studio approfondito.

La prima pagina che, fungerebbe da frontespizio, reca al di sotto del titolo utili informazioni: “Lector, varia post tot fortunae nomina hoc tandem certum habe. Deum quidem esse omnia. Naturam autem dei potestatem ordinariam fortunam vero eius voluntatem”. Segue un periodo in greco antico che, dato la calligrafia ‘traballante’ (che farà capolino nell’ultima sezione del manoscritto a causa di una malattia debilitante di cui soffrì l’autore) sembra essere stato aggiunto in seguito: “Φύσισ φύει τυχεν φυσιν τεχει τυχη”.153* A fondo pagina, inoltre, troviamo riportato

152 Lucie Galactéros de Boissier, Fortune, catalogue de l’exposition, Musée de l’Elysée, Lausanne: 1981,

p. 5.

153 Come gentilmente suggerisce il professore Andrea Robiglio, questa sentenza è assai

78

l’indirizzo, l’editore e la data di pubblicazione del codice: “Lutetiae, in aedibus Jacobi Kervetii, via iacobea, sub insigni fonti, 1568”.

Un ‘frontespizio’ che funge da dichiarazione di intenti. Fin da qui traspare l’ambizioso progetto portato avanti dal suo creatore e la sua grande erudizione. Questo grandioso codice raccoglie ben cento incisione e altrettanti cento simboli di varia iconografia sulla fortuna o allégories sur les diverses sortes de fortunes, accompagnate da citazioni tratte da autori antichi e moderni. Un progetto, dunque, non solo di maestosa inventiva artistica ma che presuppone una profonda conoscenza letteraria, artistica, classica ed antiquaria.

È interessante, inoltre, notare che l’iscrizione seicentesca francese a piedi pagina “de la main de Jehan Cousin”, attribuisce le tavole del codice al celebre incisore francese.

Di seguito, il manoscritto si apre con una dedicatoria, in latino, rivolta al candidus et elegans lector e ad Hercule-François d’Alençon cui il codice è dedicato: “En, tibi, variariarum fortunarum opus, lector candide, quod quidem quantis vigiliis quantis sudoribus construxerim vix credas. [...] E Dunfluno nostro, apud nyvernos, calendis Martiis, 1568”.154 La dedicatoria si conclude recando il nome dell’autore e l’anno in cui fu terminato, presumibilmente, il codice. Emondus Danlezyus o, francesizzato, Imbert d’ Anlézy, Seigneur

sotto il titolo di Liber de bona fortuna ed ebbe, per l’appunto, buona fortuna tra Medioevo e Rinascimento. Ma, per motivi stilistici e filologici, è da escludere Aristotele, per cui la sentenza potrebbe essere spuria o, forse, dell’autore del manoscritto. Tuttavia è stata ritrovata la stessa espressione citata nella Therapeutica, hoc est sanitatis restituendae ratio (1596) di Johannes Werner, tedesco del secondo Cinquecento. Questa adagia in greco bizantino (si noti φυσιν) può essere anche come una sorta di translatio ad sensum con innovazione del detto classico latino: faber est suae

Documenti correlati