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De Bona Fortuna: iconografie et similia nel ms. Liber Fortunae centum emblemata et symbola. Studio di una `tychologia?, del suo uso politico e della sua interpretazione morale

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“Se la forma non dovesse essere soddisfacente,

ben lo sarà la materia, poiché una così grande e così valida messe di concetti, tanti e tanto acconci detti,

compenseranno la fatica, riscatteranno il tempo perso” (Baltasar Gracián)

Ad A. Ancora e sempre.

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UNIVERSITA’ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL SAPERE ANNO ACCADEMICO 2015/2016

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE, DELLO SPETTACOLO E DEI NUOVI MEDIA

Classe LM-89: Storia dell’arte

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

De Bona Fortuna: iconografie et similia nel ms. Liber Fortunae centum emblemata et symbola. Studio di una ‘tychologia’, del suo uso politico e della sua interpretazione morale

IL RELATE IL CANDIDATO

Prof. ssa Sonia Maffei Amelia Capopardo

a.a 2015/2016

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3 INDICE

De Bona Fortuna: iconografie et similia nel ms. Liber Fortunae centum emblemata et symbola. Studio di una ‘tychologia’, del suo uso politico e della sua interpretazione morale

Introduzione 5

Capitolo primo

Cenni su emblemi ed imprese nell’Europa rinascimentale 8

1.1 La codificazione di un genere: la produzione emblematica in Francia e in Europa 16

Capitolo secondo

Iconografie et similia nel Liber Fortunae 25

2.1 De Bonas Fortunas: motivi e tradizioni nello studio dei centum emblemata et symbola 25

a) Fortuna Audax b) Fortuna vs Virtus c) Fortuna Volubilis d) Fortuna/Occasio

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4 e) Ultima Fortuna

2.2 Il Liber come una ‘tychologia’: studio del suo uso politico e della sua interpretazione

morale 66

Capitolo terzo Fortuna triumphans: la genesi del Liber alla corte di Valois 73

3.1 Imbert d’ Anlézy: da nobile soldato ad erudito scrittore 77

3.2 Sub insigni fontis, 1568: un manoscritto inedito 81

3.3 L’art et la politique alla corte del duca d’Alencon 89

Conclusioni 103

Abstract: 105

De Bona Fortuna: iconography et similia in the ms. Liber Fortunae emblem centum et symbola. Study of a «tychology», its political use and its moral interpretation. Appendice 108

Tavole 146

Indice delle tavole 163

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INTRODUZIONE

Che cos’è la Fortuna?

Diversi sono i motivi che mi hanno indotto a scegliere il Liber Fortunae, Manuscrits 1910 de la Bibliothèque de l’Institut de France, come tema della mia tesi di laurea. In primis, la volontà di poter sviluppare un progetto di ricerca nel campo artistico-letterario. In secundis, l’opportunità di sfruttare parte delle conoscenze acquisite durante i miei studi presso l’Università degli di Pisa e la Katholieke Universiteit in Leuven tramite la partecipazione a seminari, corsi, parte fondamentale di questa mia esperienza.1

Il manoscritto riunisce cento “doppi” emblemi sulla Fortuna presentata in tutte le sue varie vesti. La personificazione della Fortuna gode di una lunga tradizione iconografica che ha il suo principio in tempi assai remoti. Il tema della Fortuna può essere definito come vasto campo semantico in cui si attua un sincretismo tra le artes liberales, che ne determina una tale ricchezza di contenuti da rendere ardua una trattazione organica e metodica. E io ho, ormai, una specie di paura, quando sento parlare troppo di questi motivi illustri che la storia tramanda: “parlarne

1 Il Liber Fortunae è un manoscritto singolare nel suo genere come singolare è stata la sua ‘scoperta’

da parte mia. L’interesse per il tema della Fortuna nacque a Pisa durante una lezione di Storia dell’arte moderna. Interesse che decisi di rendere oggetto di un seminario durante la mia esperienza annuale a Leuven. Al tempo della stesura, mi imbattei in una copia ottocentesca del corpus illustrativo del Liber. Una ‘fortunata’ intuizione mi portò ad interessarmi all’originale e confrontarmi con l’unica studiosa che fino a quel momento aveva studiato il codice. Nacque, allora, la volontà di far di questo manoscritto oggetto di uno studio, acuito, da sviluppare negli anni. Questa tesi, invero, costituisce un primo tassello nella risoluzione dell’enigma legato a questa encyclopédie de Fortune.

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troppo, è raggiungere, per la via sicura del fastidio, il risultato di dissipar la simpatia ch’esse ci destano!”2

Tuttavia l’occasione di studiare questo manoscritto era troppo ghiotta per rinunciarvi per cui partii per Parigi in direzione Bibliothèque de l’Institut.

La presente tesi è suddivisa in più capitoli e corredata da numerose immagini e una appendice. Partendo da un macro argomento, quale la concezione della Fortuna nel Rinascimento, contiene una prima parte dedicata corte di Valois poi alle iconografie et similia del Liber ed infine alla trattazione delle problematiche riguardanti l’attribuzione della suddetta opera. Il primo capitolo è dunque dedicato ad una trattazione Alla codificazione del genere emblematico in Europa e in particolare in Francia.

Il secondo capitolo, si sofferma su una lettura delle imprese messe a paragone con le iconografie tradizionali attribuite alla Fortuna e, allo stesso tempo, evidenziandone la singolarità e l’unicità delle iconografie scelte dall’autore cinquecentesco. Il terzo capitolo dedicato alla figura del duca d’Alençon, a cui il manoscritto è dedicato, e alla figura di Imbert d’Anlézy, l’erudito scrittore del manoscritto.

Il Liber Fortunae è un manoscritto di cui non esiste nessuna altra riproduzione, a quanto sappiamo fin ora. Anche se è di straordinario interesse questo codice, nonostante sia stato più volte ricordato da Warburg, e ben studiato da Saunders, attende ancora oggi un’analisi completa, che ne evidenzi tutte le componenti culturali letterarie e figurative. Il mio contributo ha come oggetto lo studio di questo codice, ed in particolare la sua genesi e le sue finalità, il suo uso politico e la sua interpretazione morale attraverso un approccio interdisciplinare che tiene conto del panorama storico, filosofico, letterario ed artistico in cui l’opera è nata.

2 Benedetto Croce, La tomba di Iacobo Sannazaro e la chiesa di S. Maria del Parto, in «Napoli Nobilissima», I, 1892, fasc. 5, p. 68.

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L’originalità di questo manoscritto, “non inferiore all’Eneide né all’Iliade”3 è nella sua interezza. Il sapiente uso delle fonti letterarie antiche, del compendio iconografico l’eleganza delle ‘invenzioni’ lo contraddistinguono e lo connotano come frutto di un peculiare e originale originale studio. La rilevanza storico-artistica di questo manoscritto è nella sua natura: esso è è una ‘tychologia’. Il fortunae autor ci propone una vera e propria, forse prima, enciclopedia della Fortuna.

Questo grandioso Liber, generato da vicende letterarie e politiche, da speranze, e delusioni, sembra essere figlio di un autentico conflitto di passioni e di interessi, di mentalità e di idee, di sentimenti e di valori, di forze e di tradizioni, non isolabile, né indipendente rispetto al contesto estremamente significativo in cui fu composto, rivelando a noi posteri tutto lo splendore delle corti rinascimentali europee.

Durante il primo anno del mio percorso magistrale, un professore durante un colloquio mi disse che per fare carriera nella vita non bastava avere talento ma era necessario avere Fortuna. All’epoca, non risposi nulla mi limitai ad abbozzare un sorriso e ad annuire davanti a quella atroce verità. Ad oggi, a distanza di un anno, gli risponderei che di Fortuna, sulla mia strada, ne ho trovata tanta.

Sai che cos’è la fortuna? È credere che sei fortunato, ecco tutto.

3 Liber centum Fortunae Emblemata et Symbola centum continenti: cum partibus tetrasticis et disticis et testimoniis multis, variis expositionibusque, Lutatiae, in aedibus Jacobi Kervetii via iacobea, sub insigni fontis, 1558. Papier, 433 pages, plume ou sanguine, 270 × 200 mm. Manuscrits 1910. Réserve de la Bibliothèque de l’Institut de France, Paris, p. 19.

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Capitolo Primo

CENNI SU EMBLEMI E IMPRESE NELL’EUROPA RINASCIMENTALE

“E’ non mi è incognito come molti hanno avuto et hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo, potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dí, fuora d’ogni umana coniettura”.4

La personificazione della Fortuna gode di una lunga tradizione iconografica che ha il suo

principio in tempi assai remoti, ed è spesso connessa ad altri concetti come il Tempo, la Virtù, et similia. La vastissima letteratura relativa all’argomento ha rivelato i molteplici

atteggiamenti che l’uomo ha adottato, nel corso delle epoche, nei suoi confronti. Il tema della Fortuna si connota come un concetto di una tale ricchezza di contenuti da rendere ardua una

trattazione organica e metodica. Da questo punto di vista, il Liber fortunae è un codice estremamente importante perché si connota come un unicum nel panorama

letterario-iconografico rinascimentale, sia francese che europeo. Il manoscritto riunisce cento “doppi” emblemi sulla Fortuna presentata in tutte le sue varie guisa. Il testo principale è preceduto da

diverse pagine di commento in prosa, una dedica a Hercule-François d’Alençon, una seconda

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dedica in versi a Luigi Gonzaga duca di Nevers ed è concluso da un trattato in prosa latina avente per oggetto la Fortuna: il De Fortuna adnotatio sive compendium.

Nel Liber il verso del foglio riporta l’emblema nella sua forma completa: è raffigurata una

pictura in una cornice, al di sopra della quale troviamo un motto e al sotto una subscriptio in versi

latini. Nel recto, invece, è realizzata una ulteriore incisione sotto forma di cornice decorata in cui troviamo, allo stesso modo, un motto, una subscriptio in versi e, all’interno della cornice,

citazioni in latino complementari al tema generale dell’emblema in questione.

Ogni ‘coppia’, inscindibile, illustra una determinata ‘veste’ della Fortuna. L’unicità e la

complessità di ogni ‘coppia’ risiede nel fatto che è essa è studiata per essere una struttura autonoma in cui vige un legame tra fonte iconografica e fonte letteraria. L’insieme delle ‘coppie

di emblemi’ sono da interpretare, dunque, come un percorso iconografico attuo ad illustrare, ad un dotto lettere rinascimentale, le metamorfosi della Fortuna.

Potremmo classificare il Liber il Ms. 1910 come una preziosa raccolta di emblemi.5

L’emblematica fu un genere assai in voga in passato le cui origini si possono rintracciare già nel

Quattrocento, ma che ebbe una particolare fioritura e una codifica letteraria ben assodata soprattutto a partire dal Rinascimento. Difatti, il gusto per queste immagini simboliche si diffuse

a partire dalla prima metà del Cinquecento, nel pieno fiorire dell’arte manieristica, nell’ambito di una più vasta attività di organizzazione enciclopedica del sapere. Le fonti e i motivi

5Un emblema, dal greco ἔμβλημα composto da ἐν e -βάλλω, letteralmente, «ciò che è messo dentro» è una figura simbolica, spesso accompagnata generalmente da un motto, una pictura e una subscriptio in versi latini. Per la citazione etimologica è stato consultato la versione online del Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana: http://www.etimo.it/. Per gli aspetti generali dell’emblema confronta: Giancarlo Innocenti, L’immagine significante: studio sull’emblematica cinquecentesca, Padova: Liviana, 1981; Karl Josef, Aspects of the emblem: Studies in the English Emblem Tradition and the European Context, Kassel: Reichenberger, 1986; Peter M. Daly, The emblem in early modern Europe: contributions to the theory of the emblem, Burlington: Ashgate, 2014.

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dell’emblematica sono costituite da rappresentazioni simboliche del mondo classico, dell’astrologia, del mondo animale, vegetale, et alia. I commenti dell’emblema trovano la loro

ispirazione invece, oltre che nei testi sacri, nei testi classici e in particolare in poeti greci e Si può dire che nelle figurazioni simboliche degli emblemi è rintracciabile l’eredità della

degli antichi indagata e resa con filologica attenzione dagli umanisti. Sia nella scelta delle immagini che in quella dei testi, è adoperato un patrimonio di conoscenze che proprio nella

cultura Rinascimentale ha trovato il suo massimo sviluppo.

Emblemi ed imprese soddisfano l’esigenza di comunicare a livello sensoriale. La

attraverso le immagini risulta immediata e diviene attività conoscitiva sviluppando la tendenza didattica e dimostrativa del pensiero visivo.6 Così come gli emblemi anche le

imprese si diffusero a partire dalla prima metà del Cinquecento fino a tutto il XVII secolo. Sia le imprese che gli emblemi costituiscono forme di espressione simbolica in cui

elemento iconico e verbale sono legati in maniera inscindibile ma ognuna gode di un carattere specifico. L’impresa si connota come un prodotto umanistico-cortese, come un fatto di

costume ed è adoperata su armature, abiti ed oggetti mentre l’emblema nasce in un contesto librario; gli emblemi sono frutto di una cultura antiquaria e costituiscono immagini

simboliche complesse, formate da un nesso inscindibile di figura e parola. Nell’emblema, ad esempio, l’elemento verbale (motto e subscriptio) conservano la loro equivalenza rispetto

all’immagine raffigurata. Nell’impresa, invece, il motto che “Vuol anco esser breve, ma non

6 Tale concetto è magistralmente esplicato in Alberto Ambrosini, Immaginazione visiva e conoscenza: teoria della visione e pratica figurativa nei trattati di Leon Battista Alberti, Lorenzo Ghiberti, Leonardo da Vinci, Pisa: Plus-Pisa university press, 2008.

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tanto che si faccia dubbioso; di sorte che di due o tre parole quadra benissimo […]”7 si intreccia

con l’immagine fino ad assumere una valenza iconica.8

Nel Rinascimento col termine impresa si intendeva delle immagini spesso accompagnate da da un motto, che avevano il fine di esprimere il temperamento, le intenzioni, le aspirazioni di

di chi ne faceva sfoggio.9 L’origine etimologica più comune del termine «impresa», accettata dalla

dalla maggior parte dei trattatisti è quella del verbo «imprahendo», imprendere o intraprendere,

che ne evidenzia il legame con la dimensione eroico cavalleresca e amorosa.10

A partire dalla metà del Cinquecento gli emblemi e le imprese diventarono oggetto di studio

di numerosi eruditi.

In ambito italiano, Paolo Giovio fu primo11 ad elaborare ed esporre nel suo Dialogo le cinque

‘condizioni universali che si ricercano ‘a fare una perfetta impresa’.12 Nella stessa opera, l’erudito

7 Paolo Giovio, Dialogo dell’imprese militari e amorose, a cura di Maria Luisa Doglio, Roma: Bulzoni, 1978,

p. 7.

8 Cfr., Maria Cristina Fazzini, I libri di imprese e di emblemi nella Biblioteca del Seminario Vescovile di Padova (secoli XVI e XVII), Roma: La Sapienza, 2010.

9 Per uno studio approfondito sull’impresa confronta, in particolare: Guido Arbizzoni, un nodo di parole e di cose, teoria e fortuna delle «imprese», Roma, Salerno editore, 2002.

10 Cfr. Giancarlo Innocenti, L’immagine significante: studio sull’emblematica cinquecentesca, Padova: Liviana, 1981.

11 Paolo Giovio fu il primo di molti eruditi che si dedicarono allo studio delle imprese trattando anche

il modus operandi del ‘fare impresa’. Cfr. Natalie Mafuta Ma, “Dalla parola all’immagine: “anima” e “corpo” delle imprese tra Cinque e Seicento” in Ai confini del testo - Tra letteratura, retorica e immagini, Atti del XIV Congresso dell’Associazione degli Italianisti, Genova, 15-18 settembre 2010, DIRAS, 2012 e Paolo Giovio, Dialogo dell'imprese militari e amorose, a cura di Maria Luisa Doglio, Roma: Bulzoni, 1978, Introduzione.

http://www.italianisti.it/Atti-di-Congresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=188 12 “Prima, giusta proporzione d’anima e di corpo. Seconda, ch’ella non sia oscura di sorte ch’abbia

mestiero della sibilla per interprete a volerla intendere, né tanto chiara ch’ogni plebeo l’intenda. Terza, che sopra tutto abbia bella vista, la qual si fa riuscire molto allegra entrandovi stelle, soli, lune, fuoco, acqua, arbori verdeggianti, instrumenti meccanici, animali bizzarri e uccelli fantastici. Quarta, non ricerca

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afferma che la moda di ‘fare imprese’ fu portata in Italia dagli ufficiali di Carlo VIII e che solo in seguito, per spirito di emulazione, si iniziò ad ‘imprimere’. A tal proposito scrive

Giovio: “Ma a questi nostri tempi, dopo la venuta di re Carlo VIII e di Lodovico XII in Italia, ognuno che seguitava la milizia, imitando i capitani francesi, cercò di adornarsi di belle e

pompose imprese, delle quali rilucevano i cavalieri, appartati compagnia da compagnia con diverse livree, perciò che ricamavano d’argento, di martel dorato i saioni e le sopraveste, e

nel petto e nella schiena stavano l’imprese de’ capitani, di modo che le mostre delle genti d’arme facevano polposissimo e ricchissimo spettacolo e nelle battaglie si conosceva l’ardire

e il portamento delle compagnie”.13

“Nessun gioco letterario”, scrive Natalie Mafuta Ma “è più atto delle imprese a darci dello speciale punto di vista che prevalse nel Cinque-Seicento, e del gusto che ne risultò”.14

alcuna forma umana. Quinta, richiede il motto che è l’anima del corpo e vuole essere comunemente d’una lingua diversa dall’idioma di colui che fa l’impresa perché il sentimento sia alquanto più coperto. Vuole anco essere breve, ma non tanto che si faccia dubbioso, di sorte che di due o tre parole quadra benissimo, eccetto se fusse in forma di verso o integro o spezzato. E per dichiarare queste condizioni diremo che la sopradetta anima e corpo s’intende per il motto e per il soggetto; e si stima che o il soggetto all’anima o l’anima al soggetto, l’impresa non riesca perfetta” in Paolo Giovio, Dialogo dell’imprese militari e amorose, a cura di Maria Luisa Doglio, Roma: Bulzoni Editore, pp. 37-38. Su Giovio le imprese confronta: Guido Arbizzoni, “Giovio, Domenichi e le imprese” in Letteratura delle immagini Rinascimento, Bollettino Storico Piacentino, fasc. 1, CX , Piacenza, 2015 e Sonia Maffei “Iucundissimi emblemi di pitture - Le imprese del Museo di Paolo Giovio a Como” in Con parola brieve e con Figura. Emblemi e imprese fra antico e moderno, Pisa: Scuola Normale di Pisa, 2008.

13 Paolo Giovio, Dialogo dell’imprese militari e amorose, a cura di Maria Luisa Doglio, Roma: Bulzoni

Editore, pp. 36-37.

14 Natalie Mafuta Ma, “Dalla parola all’immagine: “anima” e “corpo” delle imprese tra Cinque e

Seicento” in Ai confini del testo - Tra letteratura, retorica e immagini, Atti del XIV Congresso dell'Associazione degli Italianisti, Genova, 15-18 settembre 2010, DIRAS, 2012, p. 2.

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http://www.italianisti.it/Atti-di-13

“Imprese, motti, blasoni, divise: simboli noti di una civiltà dell’ancien régime di cui l’araldica ricompone le regole sfuggenti, ma anche l’orpello concettoso, scomparso dalla nostra coscienza così lontana dai miti dell’aristocrazia di sangue. In una civiltà studiosamente divisa in classi [...] gli apparati di ritualità simbolica erano una prassi accettata, come se la suggestione visiva di una ‘pompa dignitosa’ (come si diceva) fosse parte inalienabile della logica di ordini sociali che si volevano, e si credevano, non suscettibili di mutazioni. La materia che riemerge in poche, fortuite occasioni, guardando lo stemma di un palazzo, l’impresa nella «legatura delle armi» di di un libro antico, il cartellame epigrammatico che adorna statue e cornici barocche, era uno stile di vita nel Rinascimento”.15

L’etimologia del termine emblema, invece, è ricondotta da quasi tutti i trattatisti al mondo delle

delle arti figurative: “Emblema è simile alla tarsia […] al mosaico[…] all’ornamento […] alla miniatura […] alla incrostatura […] Si piglia ancora l’emblema per una testura di parole […] .

. Gli emblemi esser figure con significati morali […]. Perciò l’immortale Alciato di questo titolo titolo chiamar volle”.16 Il termine infatti è interpretato come “composizione di più cose,

materiali, diversamente colorite e insieme maestralmente congegnate”.17

La raccolta più nota di questo genere fu gli Emblemata dell’italiano Andrea Alciato pubblicati

per la prima volta ad Augusta nel 1531 e oggetto di centinaia di edizioni e volgarizzamenti in varie lingue europee nei secoli appresso.18 A tale proposito, così recita la praefatio dell’opera di

Alciato:

15 Torquato Tasso, Il Conte overo dell’imprese, a cura di Bruno Basile, Roma: Salerno Editrice, 1993, p.

7.

16 Luca Contile, Ragionamento sopra la proprietà delle imprese, Pavia, Batoli, 1574, c. 24 r e 27r (citato in

Innocenti, L’immagine significante, p. 6, n. 8)

17 Ivi, c. 24v e 27r (citato in: Innocenti, L’immagine significante, p. 6, n. 9)

18 Una prima edizione degli Emblemata di Alciato fu realizzata dallo stampatore Heinrich Steyner nel

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“Mentre i bambini si divertono con le nocciole e i giovani con i dadi, così giocare a carte riempie il tempo dei pigri. Nella stagione delle feste noi elaboriamo questi emblemi, fatti dalla

nobile mano degli artigiani. Proprio come si aggiungono guarnizioni agli abiti e distintivi ai cappelli, così si addice a ognuno di noi scrivere segni muti. Anche se il supremo imperatore

darti preziose monete e finissimi oggetti antichi, io do a te, poeta a un altro poeta, doni di prendi questi, Konrad, segno del mio amore”.19

La prefazione presenta molti concetti: l’aspetto giocoso e ricreativo degli emblemi ritenuto un dotto divertimento, i “doni di Carta” come pegno dell’affetto per Konrad

Peutinger o l’operare degli artisti.

Tuttavia, è necessario precisare, come fa notare Mino Gabriele nella sua Introduzione a Il

libro degli Emblemi secondo le edizioni del 1531 e del 1534 che inizialmente nelle intenzioni di

Alciato la sua opera non era accompagnata da illustrazioni. A tal proposito scrive Alciato, il

Peutinger e fatto circolare tra i suoi conoscenti. L’edizione non autorizzata del 1531 fu presto seguita una edizione del 1534, questa volta autorizzata da Alciato stesso, pubblicata a Parigi da Christian con il titolo Andreae Alciati Emblematum Libellus. La ristampa francese degli Emblemata di Alciato dimostrano non solo il forte interesse verso il genere sviluppatosi nel Regno dei Gigli ma anche la circolazione. A tal proposito cfr. L’Introduzione a Andrea Alciato, Il libro degli Emblemi secondo le edizioni 1531 e del 1534, a cura di Mino Gabriele, Milano: Adelphi, 2009 e Hessel Miedema, “The Term Emblemata in Alciati” in Journal of the Warburg and Courtland Institute, London: 1968, n. 31, pp.234-250.

19 “Dum pueros iuglans, iuvenes dum tessera fallit:/Detinet, et segnes chartula picta viros. Haec

nos festivis Emblemata cudimus horis/Artificum illustri signaque facta manu:/Vestibus ut torulos, petasis ut figere parmas,/Et valeat tacitis scribere quisque notis. At tibi supremus pretiosa nomismata Caesar,/Et veterum eximias donet habere manus, Ipse dabo vati chartacea munera vates,/ Quae, Chonrade, mei pignus amoris habe” in Andrea Alciato, Emblematum libri duo, Lyon: apud Jean I de Tournes & Guillaume Gazeau, 1549, praefatio.

La Biblioteca dell’Università di Glasgow ha digitalizzato e messo in linea in libera consultazione i facsimili di 22 diverse edizioni dell’opera.

Per vedere tutte le immagini qui:

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9 dicembre 1522, in una lettera indirizzata all’amico Francesco Minizio Calvo, editore e stampatore a Roma: “[…]ho composto un libretto d’epigrammi intitolato Emblemata, in ciascuno

ciascuno dei quali descrivo qualcosa, tale che significhi con eleganza un qualche cosa tratto dalla dalla storia e dal mondo naturale, donde pittori, orefici, fonditori di caratteri possano realizzare

realizzare quel genere di oggetti che chiamiano scudi e attacchiamo ai capelli o portiamo quali insegne, come l’ancora di Aldo, la colomba di Froben e l’elefante di Calvo”.20

L’umanista, in queste poche righe, precisa la natura della sua composizione: i suoi epigrammi epigrammi hanno il fine di ispirare gli artisti, pittori, orafi, incisori nella creazione di queste

immagini simboliche. Alciato stesso, nella composizione della sua opera, attinge agli storici antichi, agli adagia, utilizza i geroglifici e costruisce un vero e proprio repertorio figurato di

immagini di antiche divinità, simboli e vestigia antiquarie, al quale avrebbero potuto attingere gli gli artisti.21

A definire più propriamente il carattere distintivo dei “segni muti”, come Alciato li definisce, definisce, è Jean Baudoin, un erudito francese, che scrive: “L’emblème est une peinture servant

servant à instruire et qui sous une figure ou sous plusieurs comprend des advis utiles à toute sorte de personnes”.22

Questo ‘stile di vita’ riscosse enorme successo nel Rinascimento. Dalla Francia alle corti europee, gli emblemi non furono solo adoperati in ambito umanistico ma furono anche un strumento di propaganda politica e religiosa. Del carattere didascalico delle imprese e degli emblemi se ne servirono soprattutto i gesuiti. L’emblema aveva assunto i caratteri di uno strumento moralizzante e perciò veniva esposto in presenza di tutti i fedeli.

20 Andrea Alciato, Il libro degli emblemi: secondo le edizioni del 1531 e del 1534; introduzione, traduzione e

commento di Mino Gabriele, Milano: Adelphi, 2009, pp. XV-XVI.

21 Cfr. Ivi, p. XVII

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1.1 LA CODIFICAZIONE DI UN GENERE: LA PRODUZIONE EMBLEMATICA IN FRANCIA E IN EUROPA

Sul modello degli Emblemata di Andrea Alciato si svilupparono in Europa tra Cinquecento e Seicento raccolte e libri di emblemi finemente illustrati. La codificazione visuale e verbale inaugurata da Alciato composta da motto, Picturae e Subscriptio venne riproposta anche nei lavori di Achille Bocchi (1488-1562), Hadrianus Junius (1511-1575), Johannes Sambucus (1531-1584), Joachim Camerarius (1534- 1598), Jacob Cats (1577-1660), per esempio.23 La vasta fioritura del genere emblamatico interessò diversi campi del sapere e soprattutto si assistette ad una vasta fioritura del genere nel campo amoroso-cortigiano e religioso-spirituale.

Il tema dell’amore, tra i più celebri della produzione lirica antica e moderna, fu uno dei soggetti eletti anche dagli autori di emblemi e imprese. Fonti antiche e moderne, da Ovidio a Petrarca, furono adoperate nella realizzazione degli emblemi amorosi. Raccolte sistematiche e monotematiche di emblemi amorosi fiorirono in tutta Europa con particolare fortuna in area olandese e fiamminga mentre ebbero una scarso sviluppo nel panorama italiano

23 Questi furono alcuni tra I maggiori umanisti che si dedicarono al genere dell’emblematica, per

un approfondimento confronta: Maria Cristina Fazzini, I libri di imprese e di emblemi nella Biblioteca del Seminario Vescovile di Padova (secoli XVI e XVII), Roma: La Sapienza, 2010.

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rinascimentale. Gli intellettuali italiani infatti si mostravano più indirizzati nella produzione di raccolte di imprese ed emblemi di carattere generale e non esclusivamente amoroso.24

La prima raccolta monografica di emblemi amorosi conosciuta è quella dell’umanista e poeta poeta olandese Daniel Heinsius (1580-1655). L’opera dal titotlo Quaeris quid si amor? fu data alle alle stampe nel 1601 sotto lo pseudonimo classicheggiante di Theocritus a Ganda. In seguito al al Quaeris furuono pubblicate splendide raccolte di emblemi amorosi che divennero oggetti preziosi ricercati dai collezionisti. Tra le più note collezioni di emblemi amorosi ricordiamo gli gli Amorum emblemata, pubblicato ad Anversa nel 1608 da Octavius van Vaen, gli Emblemata amatoria di Daniel Hensius25 pubblicato ad Amsterdam nel 1612 e Het Ambacht van Cupido (Le fatiche di Cupido) ad opera dello stesso autore.26

La grande fioritura di raccolte di emblemi non si limitò al genere amoroso. Il genere del libro religioso ha sempre avuto un rapporto privilegiato con l’immagine. I manoscritti miniati destinati a forme di devozione privata e sostanzialmente elitarie contribuirono all’utilizzo delle immagini sacre che assunsero un’importante funzione pedagogica. Difatti, gli emblemi assunsero un forte carattere didascalico divenendo così parte integrande della vita

24 “Gli emblemi d’amore fiorirono in Olanda, ove l’emblema divenne la forma saliente della

letteraturaNazionale” scrive Mario Praz in Studi sul Concettismo, Milano: Abscondita, 2014, p. 102.

25 L’opera di Hensius inagurò un vero e proprio genere di mercato. A tal proposito: “Questo Cupido

di Heinsius è sempre al centro delle vignette, e ne combina di tutti i colori giocando alla trottola, al cerchio, a mosca cieca, si cinge d’elmo e di spada, cavalca un manico di granata, fa capriole, gonfia bolle di sapone, trebbia il grano, tortura l’amante sul cavalletto, e lo brucia sul rogo” in Tina Montone, “Amor addocet artes». Emblemi d’amor profano tra gli splendori del Seicento olandese”, Intersezioni, XXI, 2 (agosto 2001), p. 282.

26 Per uno studio approfondito sull’emblematica amorosa in area fiamminga confronta, in particolare:

John Landwher, Emblem books in the Low Countries 1554-1949. A bibliography, Utrecht, Haentjens Dekker & Gumbert, 1970 (Bibliotheca Emblematica, III), n. 193; n. 693-703 e David Freeberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Torino, Einaudi, 1993 (Biblioteca di Storia dell’Arte, 19).

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monastica. La Bibbia tradotta da Lutero e stampata a Basilea nel 1524, ad esempio, era decorata con illustrazioni del celebre incisore Hans Holbein.

La codificazione e l’affermazione di immagini emblematiche in opere di devozione o fu perpetrata dall’ordine dei gesuiti. Gesuiti. La Societas Iesu fu fondata da Ignazio di Loyola a Parigi nel 1534. L’ordine dei Gesuiti, attento alle forme della persuasione, percepì subito le potenzialità dell’emblema. I membri dell’ordine furono particolarmente impegnati nell’educazione e formazione di giovani menti. Tra il 1540 e il 1544, infatti, furono fondati collegi per la formazione dei futuri membri dell’ordine a Parigi, Lovanio, Colonia e a Padova per esempio. La figurazione emblematica gesuita era prevista nel percorso educativo dei e presente nei momenti di ricreazione, delle rappresentazioni teatrali e delle celebrazioni della Compagnia. Le raccolte di emblemi gesuiti riscossero grande fortuna soprattutto in area belga tedesca godettero di un’ampia circolazione confermata dalle numerose traduzioni in lingue straniere.27 Conserviamo numerosissimi esempi di libri di emblemi religiosi. Tra le più note ricordiamo l’opera Paradisus sponsi et sponsae di Jan David (1545-1613), teologo fiammingo e membro della Compagnia di Gesù dal 1581 la serie degli autori gesuiti di libri di emblemi con Hermann Hugo e Benedictus van Haeften.Un ulteriore esempio im ambito italiano è rappresentato dalle Imprese sacre del 1629 del vescovo Paolo Aresi (1574-1644) che si distinguono per una trattazione precisa e rigorosa della applicazione religiosa degli emblemi.

Tra il Cinque e Seicento, dunque, assistiamo alla fioritura di varie manifestazioni della produzione emblematica. L’emblematica fu un genere assai in voga in tutta l’Europa rinascimentale, sviluppando varianti proprie relative al luogo e al contesto in cui fiorirono.

27 Per un studio approfondito sugli emblemi gesuiti confronta: Richard Dimler, Studies in the Jesuit emblem, New York: AMS,2007 e John Manning et Marc Van Vaeck, The Jesuits and the emblem tradition, International emblem conference, 4th, Leuven, 18-23 August 1996 Turnhout: Brepols. 1999.

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Il genere emblematico francese fu inaugurato dalla presenza a corte di Andrea Alciato che diede alle stampe una edizione dei suoi Emblemata nel 1534 pubblicata a Parigi da Christian Wechel. All’edizione di Alciato segue la pubblicazione dell’editio princeps delle Hecatomgraphie di di Gilles Corrozet edito nel 1540 da Denis Danot nella capitale parigina. Questo lavoro, costituito da un centinaio di emblemi, ha una struttura distintiva: la pagina di verso, contiene un un motto, una xilografia e una quartina, ed il recto un testo in versi spesso diviso in strofe. Ne Ne seguirono tre successive edizioni. La serie di edizioni a cura dell’editore Janot, con le loro cornici decorative, sono ottimi esempi della qualità della stampa parigina.28 Ad opera dello stesso editore è il libro di emblemi Theatre des bons engins di Guillaume de la Perrière edito nel 1544 a Parigi. Come le Hecatomgraphie di Carrozet ogni emblema occupa due pagine affiancate, la prima contenente la pictura in una cornice decorata e la seconda i versi di accompagnamento.29

Nel 1550 venne dato alle stampe da Balthazar Arnoullet la nota raccolta di emblemi Le Premier Livre des emblemes di Guillaume Gueroult. L’opera si compone di 29 emblemi numerati, generalmente composti da un motto seguito da una pictura, una quartina e poi un verso più lungo

28 Per un approfondimento confronta: Alison Saunders, ‘Emblem Books for a Popular Audience?

Gilles Corrozet’s Hecatomgraphie and Emblèmes, Australian Journal of French Studies 17 (1980), 5-29; Alison Adams, ‘Textual Development in Corrozet’s Hecatomgraphie’, Emblematica 8.1 (1994), 43-59; Stephen Rawles, ‘Corrozet’s Hecatomgraphie: Where did the Woodcuts come from and where did the go?’, Emblematica 3.1 (1988), 31-64.

29 Per un approfondimento confronta: Alison Saunders, ‘The Theatre des bons engins through

English eyes (La Perrière, Combe and Whitney)’ Revue de littérature comparée 64.4 (1990), pp.653-73; Guillaume de la Perrière, Le théâtre des bons engins; La morosophie, with introduction by Alison Saunders (Aldershot: Scolar Press, 1993); Stephen Rawles, ‘The earliest editions of Guillaume de la Perrière’s Theatre des bons engins’, Emblematica, 2.2 (1987), pp.381-6

Irene Bergal, ‘Duscursive strategies in early French embelm books’, Emblematica 2.2 (1987), pp.273-91.

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che fornisce in modo efficace la storia dell’emblema. Il libro non si si contraddistingue solo per la varietà di generi che è affrontata ma anche per la raffinatezza delle sue xilografie.30

Un ulteriore noto libro di emblemi parigino fu il Poesis Picta di Barthélemy Aneau edito

1552 da Macé Bonhomme, presso Lione. Il Poesis Picta è visivamente meno decorativo ed

esteticamente piacevole dei precedenti libri di emblemi francesi ma risulta particolarmente importante al fine di studiare la codificazione del genere in ambito francese. Il testo riscosse

grande successo tanto da produrre una seconda edizione nel 1556, e un terzo nel 1563/4.31 Picta Poesis fu seguito dalla pubblicazione di un altro libro di emblemi il Pegme di Pierre

edito nel 1560 a Lione da Barthélemy Molin. La raccolta contiene 122 emblemi, dei quali 95 sono illustrati e racchiusi in splendide cornici decorative. La struttura degli emblemi segue il

modello tradizionale suddiviso in motto, pictura e versi. L’aspetto più innovativo del Pegme è l’introduzione di sostanziali narrationes philosophicae che accompagnano ogni emblema. 32

30 Per un approfondimento confronta: Enea Balmas, ‘Le Cas de Guillaume Guéroult’,

in L’Emblème à la Renaissance, edited by Yves Giraud (Paris: CNRS, 1982), pp. 127-35.

31 Per un approfondimento confronta: Alison Adams, Stephen Rawles, Alison Saunders, A Bibliography of French Emblem Books, 2 vols Geneva: Droz, 1999-2002; Alison Saunders, ‘The influence of Ovid on a sixteenth-century emblem book: Barthélemy Aneau’s Imagination poetique’, Nottingham French Studies 16, (1977), 1-18; Alison Saunders, ‘The bifocal embem book: or how to make one work cater for two distinct audiences’, in Emblems in Glasgow, (Glasgow: University of Glasgow French and German Publications, 1992), pp.113-133; François Cornilliat, ‘De l’usage des images muettes: Imagination poetique de Barthélemy Aneau’, L’Esprit créateur, 28.2 (1988), 78-88.

32 Per un approfondimento confronta: Alison Saunders, ‘Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur,

quomodo, quando?’ or: The curious case of Pierre Coustau’s Pegma’, inAn Interregnum of the Sign, The Emblematic Age in France. Essays in Honour of Daniel S. Russell, ed. David Graham (Glasgow: Glasgow Emblem Studies, 2001) pp. 29-48; Irene Bergal, ‘Pierre Coustau’s Pegme: From emblem to essay’, in Lapidary Inscriptions: Renaissance Essays for Donald A. Stone Jr, ed. Barbara Bowen and Jerry Nash, French Forum Monographs (Lexington KY: French Forum Monographs, 1991) pp.113-22; Valerie Hayaert, ‘Pierre Coustau’s Le Pegme (1555): emblematics and legal humanism’, Emblematica 14 (2005) 55-99; Valerie Hayaert, ‘La fleur de Rhododaphné et le péril de l’exegèse biblique selon Pierre Coustau

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Edito nel 1565 da Christophe Plantin è il noto Emblemata di Hadrianus Junius. La raccolta

comprende 58 emblemi, ciascuno dei quali confinato in sofisticati arabeschi, è costituito da un un motto, una xilografia, e un epigramma in versi. A questa edizione ne seguirono numerose

altre.33 Les emblemes di Joannes Sambucus rappresentano un fine prodotto dell’emblematica

francese. Editi nel 1567 da Christophe Plantin raccoglie ben 165 emblemi di cui ogni emblema

emblema è costituito da un motto, una illustrazione xilografica e un epigramma. La versione francese è stata prodotta in contemporanea con una edizione olandese a cura di Marco Antonio

Antonio Gillis van Diest.34 Dello stesso anno il Emblemes ou devises chrestiennes di Georgette de

Montenay edito daJean Marcorelle a Lione. Il lavoro di Georgette de Montenay occupa una

posizione particolarmente importante nella storia dell’emblematica: in primo luogo, naturalmente, è stato scritto da una donna, e in secondo luogo da donna di fede calvinista. Gli

Gli Emblèmes segnano l’inizio dello sfruttamento sistematico di emblemi per propaganda religiosa. Uno degli elementi distintivi di questo lavoro è il fatto che il motto o il titolo, in latino,

latino, nonostante il testo primaria volgare, è incluso nell’incisione. Molti se non tutti i motti sono citazioni dalla Bibbia, il lettore infatti non fatica a riconoscere allusioni bibliche. Molti degli

1555’ in Flore au Paradis, ed. Paulette Choné and Bénédicte Gaulard (Glasgow: Glasgow Emblem Studies, Studies, 2005) pp. 169-94.

33 Per un approfondimento confronta: Alison Adams, ‘An expensive compositorial misreading: the

reset gathering in Hadrianus Junius’ Emblemata’, The Library, sixth series, 17 (1995), 345-348; Alison Adams, ‘Jacques Grévin et sa traduction française des Emblemata d’Hadrianus Junius’, De Gulden Passer 73 (1995), 37-66.

34 Per un approfondimento confronta: Visser, Arnoud, Joannes Sambucus and the learned image: the

use of the emblem in late-Renaissance humanism (Leiden: Brill, 2005); Waterschoot, Werner, ‘Lucas d’Heere und Johannes Sambucus’, in The Emblem in Renaissance and Baroque Europe: Tradition and Variety, selected papers of the Glasgow International Emblem Conference 13-17 August 1990, ed. Alison Adams and A. J. Harper (Leiden: Brill, 1992), pp. 45-52.

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emblemi sono apertamente di tono protestante, mentre altri sono più concilianti. La raccolta in latino fu tradotta anche in altre lingue così il lavoro non solo ebbe modo di circolare più

ampiamente ma decretò l’inizio di un genere in Francia che riscosse e enorme successo.35

di Théodore de Bèze gli Emblemata from his Icones, id est verae imagines virorum doctrina simul et illustrium [...] quibus adiectae sunt nonnullae picturae quas Emblemata vocant furono dati alle stampe 1580 da Jean de Laon . Questo volume presenta emblemi privi di motto o titolo. Sopra le xilografie, che sono racchiuse in una cornice è semplicemente riportato un numero di e al di sotto segue il verso in un corsivo elegante. Nella maggior parte dei simboli, il contesto della fede religiosa è implicito, ma ci sono anche una serie di emblemi che esprimono una posizione anti-cattolica forte ricordando la sua posizione di calvinista.36 Del 1588 edito da Aubry and Abraham Faber è invece Emblematum liber di Jean Jacques Boissard. Boissard è eccezionale autore di emblemi che, sia come artista e un poeta, è in gran parte responsabile sia per il testo e le incisioni dei suoi libri. C’è un manoscritto a Parigi presso la Bibliothèque de l’Institut 623 (c 1583), che contiene prime versioni di tutti gli emblemi di questo libro. Boissard nella sua opera dà un commento prosa francese su ogni emblema. È interessante notare che ogni emblema nell’edizione 1588 ha un dedicatario individuale, ed è interessante

35 Per un approfondimento confronta: Alison Adams, ‘Georgette de Montenay’s Emblemes ou

devises chrestiennes, 1567: New Dating, New Context’, BHR, 63 (2001), 567-574; Alison Adams, Webs of Allusion: French Protestant Emblem Books of the Sixteenth Century (Geneva: Droz, 2003), especially pp. 9-118, Labrousse, Elisabeth & Jean-Philippe, ‘Georgette de Montenay et Guyon du Gout son époux’, Bulletin de la Société archéologique, historique, littéraire et scientifique du Gers (1990), 369-402; Paulette Choné, Emblèmes et pensées symboliques en Lorraine (1525-1633) (Paris: Klincksieck, 1991), pp. 543-660; Reynolds-Cornell, Regine, Witnessing an Era: Georgette de Montenay and the Emblemes ou Devises Chrestiennes (Birmingham, AL: Summa Publications, 1987).

36 Per un approfondimento confronta: Alison Adams, ‘The Emblemata di Théodore de Bèze

(1580)’, in Mundus emblematicus. Studi in neolatina Emblem Libri, a cura di Karl AE Enenkel e Arnoud SQ Visser (Turnhout: Brepols, 2003), pp 71-96.

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notare che molti di questi sono amici di Boissard morti nella peste di Padova. Molti degli emblemi contengono citazioni dal greco, la maggior parte dei quali provenienti dalle Sententiae di Sententiae di Menandro.37

Queste numerose raccolte e libri di emblemi rappresentano un antecedente alla nascita del del nostro Liber. Tuttavia, all’interno di questo folto panorama francese il nostro codice rappresenta un unicum per diverse caratteristiche. L’uso morale del nostro manoscritto38 è stato

stato più volte ribadito. Risulta, perciò, piuttosto comune la scelta di intraprendere la stesura di di un libro di emblemi da parte dell’autore del nostro codice, d’altronde “l’arte des emblèmes

[…] fait les images des moeurs, et [...] met en figures toutes les maximes de la Politique et de la la Sagesse agissante”.39 Ciò che, però, appare non comune è la scelta di dedicarlo ad unico

soggetto. Tra il XVI e il XVIII secolo, le figure allegoriche della Fortuna, nelle sue varie vesti, si imposero nel panorama artistico dando vita ad una ricco e fitto sviluppo iconografico del

genere. Conosciamo numerosi emblemi, in differenti libri ed edizioni, aventi come oggetto la Fortuna ma, con il Liber fortunae, siamo davanti ad una prima raccolta sistematica di ben centum

emblemata et symbola ad essa dedicati.

37 Per un approfondimento confronta: Wolfgang Harms, 'Mundus imago Dei est. Zum

Entstehungsprozeß zweier Araldica Bücher Jean Jacques Boissards', Deutsche Vierteljahres-Schrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte 47 (1973), 223-244; Wolfgang Harms, 'Eine Kombinatorik unterschiedlicher Grade des Faktischen. Erweiterungen des emblematischen Bedeutungspotentials bei dem Archäologen Jean Jacques Boissard ', in Mimesis und simulazione , ed. A. Kablitz e G. Neumann, Romback Litterae 53 (Friburgo: Rombach, 1998), pp 279-307; Heinfried Wischermann, 'Ein Emblembuch-Manuskript von Jean-Jacques Boissard', Archiv für Geschichte des Buchwesens 14 (1974), col. 433-464.

38 Per un approfondimento sull’emblematica francese vedi: Daniel Russell, Emblematic structures in Renaissance French culture, Toronto: University of Toronto press, 1995; Daniel Russell, The emblem and device in France, Lexington: French forum,1985; Darien Russel, The sixteenth-century French emblem book : a decorative and useful genre, Genève: Droz, 1988.

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Questi accenni alla storia della emblematica mirano solo a testimoniare il lungo processo di metamorfosi ed uso di questo genere tra Cinquecento e Seicento e costituiscono ovviamente solo in minima parte l’ampiezza e la complessità del dibattito teorico e della relativa trattatistica sugli emblemi e sulle imprese.

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Capitolo Secondo

ICONOGRAFIE ET SIMILIA NEL LIBER FORTUNAE ’: MOTIVI E TRADIZIONI NELLO STUDIO DEI CENTUM EMBLEMATA ET SYMBOLA

“Fortuna […] dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle […] Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano”.40

Nella tradizione latina (non in Grecia però), la Fortuna è donna; o così appare nella quasi totalità di emblemi ad essa dedicati. Il termine latino fortuna deriva da fors, che vuol dire «sorte» ed ha la stessa radice di fero, la cui traduzione principale è «portare». A tal proposito, Giovanni Pontano nel suo De Fortuna, del 1501, scrive: “Il nome della Fortuna è divulgato presso tutti i popoli […]. Era questa nei tempi primitivi l’opinione degli uomini sulla fortuna: essi, ignorando quale ne fosse l’essenza, e poiché tante cose, sia buone sia cattive, si presentavano loro

La selezione degli emblemi ivi proposta è motivata da due fattori principali: in primis, si è preferito

ripartire concettualmente le imprese al fine di presentare al gentile lettore una trattazione più agevole e metodica del Liber, ponendo a confronto i suoi emblemi con le iconografie tradizionali attribuite alla Fortuna e, allo stesso tempo, evidenziandone la singolarità e l’unicità delle iconografie raffigurate dell’autore cinquecentesco. In secundis, la selezione nasce dalla volontà di far di questo manoscritto oggetto di uno studio, acuito, da sviluppare negli anni. Questa tesi, invero, costituisce un primo tassello nella risoluzione dell’enigma legato a questa encyclopédie de Fortune.

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repentinamente, inattese e fuor di proposito e ragione, piuttosto che con ordine e regolarità, oppure corrispondenti alla loro scelta o alle azioni intraprese, le diedero il nome dal verbo (‘portare’), evidentemente perché essa ‘portava’ a un suo arbitrio anziché secondo ragione o secondo un’idea concepita o stabilita. ”.41

Sin dall’antichità, il concetto di Fortuna si sviluppò con diverse varianti iconografiche e letterarie che ritorneranno, ulteriormente contaminandosi, nel Medioevo e nel Rinascimento. In principio fu Platone (Leggi, 709b) ad affermare che gli affari umani sono determinati da Dio, dalla Τύχη e dal Kαιρός. L’iconografia della Τύχη si costruì su quella egiziana di Iside,42 di vela e nave, e su quella greco-romana dotata di timone, cornucopia e copricapo turrito a corona (indicato con il temrine greco “polos”). Nel Rinascimento, la Fortuna assunse le sembianze di una fanciulla assomigliante a Venere, che, a seconda dei contesti artistici, si presentava dotata di un attributo attinto tra quelli che le appartenevano sin dall’antichità. Spesso è rappresentata con simboli marini come la vela, il timone, la nave: questa tipologia costituirà una delle iconografie più note della Fortuna. Ed è proprio sulla base iconografica della Fortuna con vela che si apre il nostro Liber.43

41 “Fortunae nomen apud omnes gentes divulgatum est adeo […]. Atque haec quidem rudioribus

illis seculis de fortuna e rat hominum opinio: qui, quod ignorarent quae vis esset ae, quadque tum bona tum mala plurima repente obiicerentur praeterque expectationem atque agenti propositum ac rationem magisque omnino contingerent, quam ordine ac lege profiscerentur sua, aut electioni consentirent susceptisque actionibus, a ferendo ei nomen indidere, quod pro libito videlicet, magis quam ratione, aut ex concepta sententia constitutique nunc prosperos afferret” in Giovanni Pontano, La fortuna. Testo latino a fronte, ed. a cura di F. Tateo, Napoli: La Scuola di Pigarora, 2012, p. 80.

42 Cfr. Giuseppe Pucci, “Iside Pelagia. A proposito di una controversia iconografica”, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, serie 3, vol. 4, Pisa, 1976.

43 Sul manoscritto cfr. Alison Saunders, “The Liber Fortunae of Jean Cousin, Imbert d’ Anlezy or

Ludovic Lalanne?” in Emblems and the manuscript tradition, Laurence Grove (ed.), Glasgow: 1997, pp. 19-61; Florence Buttay, “Miles fortunae. Remarques sur le Livre de Fortune de la Bibliothèque de

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Nei seguenti paragrafi saranno prese in esame le iconografie di alcuni emblemi scelti. Tale studio si interessa in particolare delle immagini del Liber ponendo a confronto le iconografie tradizionali riferite alla Fortuna con quelle contenute nel corpus illustrativo del manoscritto al fine di evidenziare gli elementi comuni alla tradizione e gli elementi divergenti che costituiscono l’originalità del codice francese.

a) Fortuna Audax

‘Fortuna Audax’ [fig. 1]44 è l’emblema che troviamo ad apertura del nostro manoscritto. Questa ‘tychologia’ si presenta al lettore come un affresco assai variegato e, a tratti, caotico. Gli Gli emblemi appaino numerati nella parte in alto a destra manifestando, verosimilmente, la volontà del suo autore di una successione sistematica.

Sul verso del foglio della prima ‘coppia’ di emblemi, al di sotto del motto, troviamo una pictura che raffigura all’interno di una cornice decorata la Fortuna posta al centro pagina raffigurata come una donna seminuda stante con il piede su una sfera e con l’altro su un delfino. Avvolta in panni mossi da un vento imperioso, la figura che riecheggia alla mente quella di una Venere, regge nella mano sinistra una vela anch’essa rigonfia, e con l’altra solleva i veli che le cadono lungo i fianchi. Sullo sfondo sono percepibili una imbarcazione, sul lato destro, e una città su quello sinistro. La subscriptio recita:

l’Institut (ms. 1910)”, in Histoire, économie et société, vol. 21, n. 4, 2002, pp. 451-477; Ludovic Lalanne, The The book of Fortune: two hundred unpublished drawings, Paris: Librairie de l’art, 1883.

44 Tutte le immagini degli emblemi inserite nella presente tesi sono tratte dalla versione Ottocentesca

a cura di Ludovic Lalanne, The book of Fortune: two hundred unpublished drawings, Paris: Librairie de l’art, 1883.

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28 “Si non Aecides audax, Ca(e)sarque fuisset

Illorum quisnam facta superbat canat? Profuit audentii plerumque audacia solers Scilicet audendum qui volet esse aliquid”.45

“Se non fosse stato audace Eacide e lo stesso Cesare/ Di questi chi mai celebrerebbe le grandi gesta?/ Il solerte coraggio ha giovato per lo più a colui che osa/ Senza dubbio, dovrà essere audace chi vorrà essere qualcosa”.

Appare chiaro in questi versi il riferimento ad illustri personalità46 come Achille e Cesare, che seppero essere audaci. L’iconografia coerentemente con il motto e la subscriptio sembra essere un invito alla audacia mezzo con il quale è possibile raggiungere i propri scopi. Questa pagina di apertura è strutturata per fungere da dedica morale e spirituale all’adolescente rampollo Valois, a cui il manoscritto è destinato.

L’iconografia della fortuna con la vela è tra le più diffuse: l’immagine deriva dalla figura di Iside: il culto della divinità egiziana era molto diffuso nel mondo ellenistico e in particolare in ambito romano, dall’età imperiale in avanti. Nei culti sincretici le divinità orientali venivano assimilate a quelle romane, è questo il caso della dea egizia recepita nella figura di Venere. Iside era conosciuta e venerata con gli

45 Liber centum Fortunae Emblemata et Symbola centum continenti: cum partibus tetrasticis et disticis et testimoniis multis, variis expositionibusque… p. 31.

46 Con il nome di Eacide (in greco antico:

Αἰακίδης) l’autore può riferirsi al re dell’Epiro dal 331 al 316 a.C. Sposò Ftia II, la figlia di Menone di Farsalo, da cui ebbe tre figli: un maschio, Pirro, e due femmine Deidamia e Troias. Eacide venne sconfitto dai macedoni in due battaglie, perdendo peraltro la propria vita. Cfr. William Smith, Aeacides, in Dictionary of Greek and Roman Biography

and Mythology, 3 voll., Boston: Little Brown and company, 1870,

qui

https://archive.org/details/dictionaryofgre01sm ituoft. Tuttavia, è più probabile che l’autore si riferisca ad Achille chiamato Eacide nell’Iliade. Gli Eacidi sono i discendenti della dinastia dell’antico Epiro. Essi vantavano di discendere dal leggendario Eaco, considerato fondatore della dinastia, padre di Peleo, nonno di Achille. I re di Epiro e Olimpiade, madre di Alessandro Magno, vantavano l’appartenenza a questo lignaggio. Cfr. la voce Eacidi in Enciclopedia Treccani Online, qui http://www.treccani.it/enciclopedia/eacidi/.

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epiteti di pharia, euploia, pelagia, ovvero dea ‘del mare, ‘dei flutti’ e quindi ‘del vento’.47 Conserviamo una moneta di epoca adrianea [fig. 2] che costituisce un precedente iconografico antico, indispensabile per la la comprensione della diffusione, in età rinascimentale, dell’attributo della vela associato a Fortuna. In tutto il Rinascimento, le monete imperiali circolavano in gran numero. Grazie alle collezioni numismatiche dagli umanisti, queste monete divennero oggetto di curiosità e di studio. L’iconografia rinascimentale della Fortuna con vela fu sfruttata anche in una preziosa incisione di Nicoletto da Modena Modena [fig. 3] dove la dea in orbe simula con il proprio panneggio una vela rigonfia, facendosi trasportare trasportare sulle acque. Un ulteriore importante testimonianza è da ritrovare negli Emblemata nobilitate et et vulgo di Theodor de Bry, nella prima edizione stampata a Francoforte nel 1593 [fig. 4]. Il motto, riprodotto in basso ai piedi della dea rappresentata come una Venere Euploia con conchiglia e su sfera poggiata sulle onde, recita: ‘his Fortuna parens, illis iniusta noverca est’. “Difatti, ai personaggi raffigurati raffigurati alla sua destra la Fortuna si rivolge quale benevola madre (‘parens’), donando prosperità e ricchezze, mentre, a quelli alla sua sinistra appare invece quale ingiusta matrigna (‘iniusta noverca’) che fa affondare la loro nave e bruciare la loro città”.48

Aby Warburg, già a partire dal 1907, con il saggio sul mercante fiorentino Francesco Sassetti, si interessò al tema della Fortuna. A tal proposito scrive Warburg: “Rispetto al cavaliere che schiera il suo clan intorno alla bandiera familiare per l’estrema difesa [nella lotta per l’esistenza], il mercante del rinascimento fiorentino conferisce quasi come stendardo appunto quella dea del vento, Fortuna, che egli ha dinnanzi agli occhi in forma così corporea come potenza che decide della sua sorte […] Indaghiamo

47 Cfr. Giuseppe Pucci, “Iside Pelagia. A proposito di una controversia iconografica”, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, serie 3, vol. 4, Pisa, 1976.

48 Giulia Bordignon, Monica Centanni, Silvia Urbini, et alii, “La Fortuna nel Rinascimento. Una lettura di tavola

48 del Bilderatlas Mnemosyne” in Engramma, n° 131, Dicembre 2015, p. 5 e sgg. http://docplayer.it/1189318- Fortuna-nel-rinascimento-barale-bordignon-gordon-piccolomini-sbrilli-squillaro-urbini-con-un-testo-di-niccolo-machiavelli.html.

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in che modo questa Fortuna, come simbolo anticheggiante dell’energia, nacque nell’ambito delle idee personali di un contemporaneo del Sassetti, Giovanni Rucellai”.49

Invero, ritroviamo la Fortuna con vela anche nell’impresa Rucellai che compare nella parte interna delle mura del palazzo [fig. 5]. 50 L’uso di questa variante manifesta le volontà di esprimere le sociali ed economiche del committente che, anche sul piano concreto, con vele e imbarcazioni aveva che fare per i suoi mercanteggi. Durante i suoi studi sulla Fortuna, Aby Warburg si interessò alla iconografia della ‘Fortuna Audax’ contenuta nel nostro codice. A tal proposito scrive: “The figure of Fortune with a sail, thought ubiquitous then as now, was presented to a Renaissance public as a new formulation in Cartari, Le immagini (1556) fol. 98v.51 As a mental image, she was known to the Middle

49 Aby Warburg, “Le ultime volontà di Francesco Sassetti”, in La rinascita del paganesimo antico, a c. di G. Bing,

tr. it. di E. Cantimori, Firenze (1966) 1996, p. 232.

50 “Troviamo riuniti [nello stemma Rucellai] sentimenti popolarmente pagani, fantasia artistica

anticheggiante e umanesimo teologico intenti a svolgere da triplice viluppo concettuale la divinità tuttora viva della ‘Fortuna Audax’, schiettamente pagana nell’idea e nell’aspetto […] quella stessa vela della Fortuna ornava, unita in maniera significativa alle imprese dei Medici, con la medesima coerenza di stile, la facciata del suo palazzo, questo monumento classicheggiante della gratitudine di chi gioiva delle cose terrene; a buon diritto, infatti, egli considerava l’associazione con i Medici fra i doni più cospicui della sua ‘buona fortuna”. Ivi, p. 235.

51 Vincenzo Cartari, fin dalla prima edizione de Le Imagini con la spositione de i dei de gli data alle stampe a

Venezia nel 1556, dedicò un’ampia descrizione alla figura della Fortuna, la quale, per via della molteplicità delle sue accezioni e significati, era stata ampiamente impiegata nel corso di tutto il Rinascimento. L’autore, supportato dalle varie fonti che in tempi diversi e in vario modo avevano identificato e caratterizzato la figura di Fortuna (tra cui Pausania, Virgilio, Orazio, Aulo Gellio, Catullo, Dante e Petrarca), illustra i molteplici tratti della divinità: “La Fortuna “dispensatrice e patrona delle ricchezze e beni humani, e governatrice delle cose di qua giù”, che, dalla traboccante cornucopia, distribuisce le prosperità con tanta incostanza quanta quella di “una nave fluttuante nelle instabili onde marine”; la Fortuna lieta e triste al contempo, ovvero quella passata, quella presente e quella futura (cfr. fig. 2: “una donna […] mesta in vista, e sconsolata alla quale è davanti una giovine bella e vaga nello aspetto […] e di dietro è una fanciulla”; la Fortuna come Occasione, rappresentata in equilibrio – instabile – sulla sfera o sulla ruota e con un ciuffo di capelli mosso dal vento (cfr. fig. 3), oppure sfuggente con ali d’uccello, o a cavallo seguita dall’arciere del Fato, ovvero l’opportunità, o Occasio, che “chi non prende quando si rappresenta, in vano poi si cerca, e si pentisce” (cfr. fig. 4)”. Cfr. Emma Filipponi, Sara Agnoletto, “La Fortuna come Giustizia: la Calunnia di Apelle nelle Imagini di Vincenzo Cartari”, in Engramma, n. 93, settembre/ottobre 2011.

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Ages from Cicero (De officiis 2.6), as quoted by Lactantius, Insit. Div 3.29 (1841), 167. Direct artistic precedents (aside from, say, a Venus on a dolphin) might have include- as Dr. Regling has kinly pointed out to me-the figure of Isis Pharia […]. Fortuna Audax was her name as, e. g., the principal Fortune in in [Jean Cousin’s] Liber Fortunae (1568)”.52 In relazione al nostro manoscritto, il noto storico tedesco cita l’iconografia della Fortuna Audax come un esempio di un genere assai diffuso.

Una incisione di ambito nordico che ritrae la Fortuna-Venere con una lunga chioma ondeggiante, in orbe con le ali ai piedi, è presente in tavola nell’impresa editoriale di Andreas Cratander, utilizzata per un’edizione delle opere di Cicerone stampata a Basilea nel 1528. Un’altra marca editoriale, in ambito italiano, ad opera di Comino Ventura ritrae la Fortuna come una bella Venere stante su un delfino.

Nella celebre opera di Sigismondo Fanti, il Triompho di Fortuna, dato alle stampe a Venezia nel 1527, viene adoperata per alcune incisioni l’iconografia della Fortuna con vela. Invero, sono illustrate ben quattro ‘Fortune’, il cui disegno pare ispirato agli affreschi di Baldassarre Peruzzi nella Sala delle Prospettive della Farnesina.53 L’iconologia della Fortuna-Venere stante su un delfino è assai nota. Ad esempio, Rinaldo Ruuli e Giovanni Pietro Cardi utilizzano questa iconografia ancora nel tardi Seicento.

L’iconografia della Fortuna con vela compare invece nell’ Imagine de Tritoni et delle Nereide huomini et donne marine

marine secondo Alessandro Napolitno, Theodoto Gaa et altri antichi et moderni, con l’imagine di Galatea nereide principale et suo suo carro significante la doppia virtù delle acqui. In questa Imagine è ripresa l’iconografia comune della donna-Venere nuda

nuda con vela rigonfia tra le mani stante su un carro. (pag. 226 edizione di riferimento: Vincenzo Cartari, Le imagini

imagini dei degli antichi, in Padova, nella stamparia de Lorenzo Pasquati, 1607, Ad instantia di Pietro Paolo Tozzi,

libraro in Padova, all'insegna del Giesù qui https://archive.org/details/leimaginideidegl01cart)

52 Aby Warburg, Die Erneuerung der heidnischen Antike, Berlin: Bredekamp, 1932, p. 258.

53 Giulia Bordignon, Monica Centanni, Silvia Urbini, et alii, “La Fortuna nel Rinascimento. Una lettura di tavola

tavola 48 del Bilderatlas Mnemosyne” in Engramma, n° 131, Dicembre 2015, p. 5 e sgg. http://docplayer.it/1189318-Fortuna-nel-rinascimento-barale-bordignon-gordon-piccolomini-sbrilli-squillaro-squillaro-urbini-con-un-testo-di-niccolo-machiavelli.html.

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Se tuttavia, da questo breve confronto iconografico,54 può trasparire una scelta illustrativa assai comune da parte di Imber d’Anlézy il vero motivo di originalità è la Fortuna ritratta mentre poggia allo stesso tempo su un delfino e su una sfera, motivo reperibile in altre incisioni rinascimentali

Ancor più originale l’emblema corrispondente. L’altro emblema che costituisce la ‘coppia’ di è ‘Ausus Herculeus’. Questa appare come una meravigliosa invenzione propria dell’autore. Il fregio cornice è splendidamente decorato dalle imprese erculee. Come fa notare Alison Saunders in The Liber Fortunae of Jean Cousin, Imbert d’Anlezy or Ludovic Lalanne?55 qui vige un chiaro riferimento a Francois

d’Alençon battezzato con il nome Ercole.

Come commenta lo stesso autore nel manoscritto: “Essendo quasi general costume de tutti i pittori di depingere la fortuna come appare in questo primo quadro, per questo m’è parso quasi necessario con tal figura principio alle imprese della fortuna accompagnato dall’audace impresa di Hercole, la si rappresenta al vivo de la clava da lui et la da le spoglie del leone et altri egregi fatti posti attorno al fregio”.56 Si possono, infatti, riconoscere alcune delle celebri fatiche dell’eroe come Ercole e il leone di o Ercole alle prese con il cinghiale di Erimanto, Ercole e l’idra di Lerna. Le dodici fatiche di Ercole sono una serie di episodi della mitologia greca che riguardano le imprese compiute dall’eroe per espiare il fatto

54 Per uno studio iconografico della Fortuna cfr. Alfred Doren, Fortuna im Mittelalter und in der

Renaissance, in Vorträge der Bibliothek Warburg, 2, 1 (1922-23), pp. 71-144; Florence Buttay-Jutier, Fortuna: usages politiques d'une allégorie morale à la Renaissance, Paris: Presses de l'université Paris-Sorbonne, 2008; Frederick Kiefer, “The Conflation of Fortuna and Occasio” in Renaissance Thought and Iconography in Journal of Medieval and Renaissance Studies , 9-10, 1979, pp. 1-27; Giuseppe Pucci, “Iside Pelagia. A proposito di una controversia iconografica”, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, serie 3, vol. 4, Pisa, 1976; Jean Starobinski, Largesse, exposition au musée du Louvre, Paris: Réunion des musées nationaux, 1994, pp. 33-63; Lucie Galactéros de Boissier, “Images emblématiques de la Fortune: Elements d’une typologie”, in L’Emblème à la Renaissance, Paris: SEDES, 1982, pp. 79-125; Paola Pisani. L’Iconografia Della Ruota Della Fortuna. Verona: QuiEdit, 2011; Raimond Van Marle, Iconographie de l’art profane au Moyen-Age, vol. II, La Haye: 1932, pp. 189-202.

55 Cfr. Allison Saunders, “The Liber Fortunae of Jean Cousin, Imbert d’Anlezy or Ludovic Lalanne?” in Emblems and the manuscript tradition, Laurence Grove (ed.), Glasgow: 1997.

56 Liber centum Fortunae Emblemata et Symbola centum continenti: cum partibus tetrasticis et disticis et testimoniis multis, variis expositionibusque… p. 34.

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di essersi reso colpevole della morte della sua famiglia. La prima fatica riguardava l’uccisione del leone di Nemea: in una zona dell’Argòlide, chiamata per l’appunto Nemea, viveva un leone gigantesco e feroce dalla pelle invulnerabile. Ercole deciso ad ucciderlo, non potendolo colpire né con l’arco e né con la clava, lo intrappolo dentro una grotta. Qui, lo soffocò tra le braccia e si vestì della sua pelle. La seconda fatica riguardava l’Idra di Lerna: nel lago di Lerna viveva drago con nove teste di cui una immortale che divorando uomini e greggi rendeva inabitabile la zona. Ercole lo affrontò impugnando la spada. Ma, dopo il primo colpo, con grande stupore vide che a ogni testa tagliata ne ricrescevano immediatamente due. Con tronchi infuocati bruciò tutte le teste del drago. Ne rimase una, quella immortale: la tagliò netta con un colpo di spada e la seppellì sotto un macigno. La terza fatica racconta del cinghiale di Corinto: questo cinghiale gigantesco che rovinava tutti i raccolti impoverì la popolazione del posto. Per cui Ercole, deciso ad eliminarlo, dopo un lungo inseguimento per boschi, sul monte Erimanto catturò la bestia e, caricandosela sulle spalle, la portò a Tirinto. Sul monte sul monte Cerinea è ambientata la quarta fatica: qui, dei cacciatori da tempo immemorabile rincorrevano una cerva dalle corna d’oro e dai piedi di rame, senza riuscire mai a raggiungerla. Ercole la inseguì, senza mai riposarsi, per un anno intero e quando la raggiunse presso un fiume riuscì a ferirla con una freccia e a catturarla. Sul lago di Stinfalo, in Arcadia, dove ebbe luogo la quinta fatica, vivevano degli uccelli che avevano le ali, il becco e le penne di bronzo. Adoperavano loro penne come frecce per uccidere e divorare ogni essere vivente. Ercole riuscì ad ucciderne alcuni. Altri, spaventati dal suono di un sonaglio di bronzo che Ercole continuava ad agitare, preferirono abbandonare il territorio. La sesta fatica ha come oggetto il cinto di Ippolita: Admeta, figlia del re Euristeo, desiderava avere il ricco cinto d’Ippolita, regina della Amazzoni. Allora Ercole intraprese una guerra contro queste ultime che vivevano cavalcando nella regione del Mar Nero. Ercole fece una strage, uccidendo anche Ippolita e riuscì a venire in possesso del cinto. La settima fatica riguardava la pulizia delle stalle di Augia: in Elide viveva un re di nome Augia che teneva nelle sue stalle migliaia di buoi. La pulizia in queste stalle non era delle migliori e tutta la regione era appestata da un insopportabile odore di letame. Ercole fu incaricato di pulire le stalle in un giorno. Così deviando il corso del fiume Alfeo fece passare le acque nelle stalle: la violenta corrente trascinò facilmente via gli strati di letame.

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