La volontà dei riformatori di rigenerare moralmente la chiesa conduce ad un mutamento sensibile dei concetti di regno e d’impero, di episcopato e di papato, quali si sono determinati attraverso le vicende dell’alto medioevo: e ciò non tanto per la riforma in se stessa, quanto perché ne assume la direzio- ne un papato intransigente, che la traspone sul piano delle istituzioni. La di- scussione che s’impegna determina allora il più singolare intrico di influssi fra l’antica concezione gelasiana, le consuetudini di pensiero degli ultimi secoli e le idee suggerite dalle esperienze e dalle esigenze della lotta.
Da un lato i gregoriani riaffermano l’antico concetto dell’indissolubilità del patrimonio ecclesiastico dall’ufficio pastorale e, seguendo le tendenze del mondo feudale, incorporano in quel patrimonio tutte le funzioni pubbliche affidate ai vescovi dal potere regio: in questo modo, non che liberare il con- cetto di episcopato da ciò che gli era originariamente estraneo, essi aggravano l’alterazione compiutasi nel mondo germanico e superano le ultime incertezze e resistenze ad una definitiva assunzione delle nozioni di potenza politica e di funzione pubblica nella idea di potere spirituale. Basti l’esempio di Placido di Nonantola che, giudicando inalienabile tutto ciò che i principi hanno donato alle chiese, condanna espressamente la restituzione voluta da Pasquale II nel concordato di Sutri del 1111: poiché la dignità spirituale non risiede soltan- to nella imposizione delle mani, ma nei beni esteriori delle chiese, che sono santificati dallo Spirito così come il corpo è sostenuto dall’anima, e sono in- dispensabili al sacerdote per l’esercizio del suo ministero1. E poiché Placido
non ignora che a Sutri la rinunzia concerneva le giurisdizioni temporali e le regalie appartenenti al principe al tempo di Carlomagno e dei suoi successori – «id est civitates, ducatus, marchias, comitatus, monetas, teloneum, mer- catum, advocatias regni, iura centurionum et curtes quae [manifeste] regni erant, cum pertinentiis suis, militiam et castra [regni]»2 –, nel suo pensiero
questa somma di beni, di forze e di giurisdizioni risulta definitivamente acqui-
1 Placidi monachi Nonantulani Liber de honore ecclesiae, edd. L. von Heinemann, E. Sackur,
in MGH Scriptores, Ldl 2, capp. 6, 7, 30, 42, 46, 57, 72, 91 sgg., pp. 576-577, 583, 588, 591, 598, 613 sgg.
2 Heinrici V. Imperatoris constitutiones, 85, in MGH Leges, LL 2, p. 69.
Laura Gaffuri (a cura di), Giovanni Tabacco. La relazione fra i concetti di potere temporale e di
potere spirituale nella tradizione cristiana fino al secolo XIV, ISBN (print) 978-88-8453-997-7,
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Giovanni Tabacco, La relazione fra i concetti di potere temporale e di potere spirituale sita alle chiese e dunque incorporata nel potere spirituale3. Ciò che del resto è
in perfetta armonia con la funzione attribuita da Gregorio VII ai vescovi, che implica una immediata responsabilità nella vita politica: il potere di legare e sciogliere non soltanto assicura la vita eterna o separa dalla chiesa, ma toglie e dona la potenza terrena4.
Ma la resistenza dei principi conduce ad un risultato opposto: imponen- do un compromesso politico, determina un chiarimento definitivo della na- tura dei poteri dei vescovi, in armonia con la tradizione dualistica più antica. L’ideale di un sacerdozio libero da ambizioni mondane viene praticamente abbandonato, ma il concetto di potere spirituale come autorità sfornita per sua natura di materiale potenza – donde la necessità di un intervento del prin- cipe là dove il sacerdote è investito di poteri terreni – riacquista intera la sua chiarezza: quando però si tratta dei vescovi, non del pontefice romano. S’inizia infatti allora una divergenza sostanziale destinata a farsi sempre più evidente nei secoli XII e XIII, fra le nozioni di vescovo e di papa. Quella distinzione fra i due poteri che si riafferma in tutti i regni dell’occidente per mezzo della duplice investitura dei vescovi, non vale per il papato. Neppure il concordato di Sutri, pur così esplicito nel condannare le cure secolari dei vescovi5, tocca
il problema del papato: Pasquale II ed Enrico V non rappresentano soltanto i due poteri tradizionali, concepiti come paralleli e diversi, ma costituiscono un rapporto ben più complesso e impreciso, conforme alla situazione creata dall’azione imperiale di Gregorio VII. L’idea papale non solo non segue le ul- teriori vicende del concetto di potere episcopale, ma, compiendo intera l’evo- luzione delineatasi in questo nei secoli precedenti, incorpora integralmente la nozione di potenza politica.
Ciò avviene già in tutta chiarezza in Gregorio VII. In lui si conclude lo svi- luppo dell’idea medievale del papato, considerata nel suo nucleo essenziale, insieme religioso e politico: uno sviluppo attuatosi attraverso l’attività eser- citata dai papi nei rapporti coi principi, coi vescovi e coi monasteri dell’occi- dente per secoli, e già palese in singole affermazioni papali del secolo IX. E da lui s’inizia il lavoro dei commentatori e degl’interpreti per darle una formula- zione teorica persuasiva e adeguata allo sviluppo delle istituzioni politiche: in ciò soltanto consiste l’evoluzione manifesta da Gregorio VII a Bonifacio VIII.
Per rendercene conto, dobbiamo in primo luogo considerare l’idea me- dievale dell’impero come potere universale. Abbiamo respinto a proposito di
3 Placidi monachi Liber de honore ecclesiae cit., cap. 91, p. 61410.
4 «Si potestis in celo ligare et solvere», dice ai vescovi convenuti a Roma nel 1080, «potestis in
terra imperia, regna, principatus, ducatus, marchias, comitatus et omnium hominum possessio- nes pro meritis tollere unicuique et concedere»: Das Register Gregors VII., hrsg. E. Caspar, in
MGH Epistolae, Epp. Sel. 2/2, VII, 14, p. 487.
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Carlomagno la concezione dell’impero come di una magistratura essenzial- mente religiosa, sfornita di un forte significato politico: e ciò in considerazione del contenuto assunto nel pensiero cristiano, così in oriente come in occiden- te, dal concetto di potere temporale. Questo vale anche per l’età degli Ottoni. L’impossibilità di esercitare nella sua pienezza l’autorità imperiale non toglie ad essa il suo significato universale e politico: così come il re può restringere il suo governo di fatto ad una parte limitata del regno, ai suoi domini patri- moniali, e tuttavia conserva una responsabilità suprema nell’ambito del regno e perciò l’esigenza di una potenza materialmente preminente su quella degli altri signori territoriali6. La signoria immediata su una pluralità di popoli as-
sicura all’imperatore la potenza necessaria per svolgere nella ecclesia un com- pito universale, assicurandone l’esistenza e l’espansione. E questa appunto è la responsabilità che un Gregorio VII e un Urbano II hanno coscienza di avere: essi sono gli eredi di Carlomagno e di Enrico III, non meno che di Nicola I e di Giovanni VIII. Certo non elaborano teorie, e neppure si avvedono di esautora- re l’impero in quello che era il suo compito peculiare: ma l’attività che pratica- mente essi svolgono e gli spunti dottrinali ch’essi offrono a giustificazione dei propri atti sono ispirati da una coscienza chiaramente imperiale del papato.
Alla luce di questo concreto concetto d’impero dev’essere interpretato l’in- feudamento di taluni regni cristiani alla sede apostolica. Che siano i principi stessi a ricercare la protezione feudale della santa sede, nulla toglie all’impor- tanza di queste sottomissioni, ché anzi dimostra quanto politica oltre che reli- giosa appaia alle coscienze di allora l’autorità papale, e come centrale essa sia nel mondo cristiano, dalla Spagna fino al regno di Kiew; proprio come a suo tempo il regno degli Ottoni, «auf den», dice lo Schramm, «sich die Blicke aller andern Völker bis in den Orient und bis nach Afrika richten»7. E merita tutta
la nostra attenzione la preoccupazione di papa Gregorio di conservare e raf- forzare questi legami feudali. Il Fliche non vede il rapporto esistente fra questa preoccupazione e i contemporanei tentativi di Gregorio di stabilire sugli stati cristiani la supremazia papale: «gouvernement sacerdotal et suzeraineté pon- tificale se développent parallèlement sans se pénétrer»8. Egli dimostra che i
termini fidelitas, servitium, auxilium, beneficium assumono in Gregorio si- gnificati diversi a seconda del contesto9; dimostrazione che ha giustamente
persuaso gli storici, ma dev’essere integrata dall’osservazione dell’Erdmann
6 Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio cit., I, p. 77, ha fatto un’analisi acuta del concetto d’im-
pero al tempo degli Ottoni. L’impero è lo stato centrale del mondo cristiano: «diese Machtstellung aber hat der Kaiser, weil eine Mehrzal von Völkern unter seinen Szepter zusammengefasst ist».
7 Op. cit.
8 Fliche, Grégoire VII cit., p. 332. 9 Op. cit., pp. 327 sgg.
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Giovanni Tabacco, La relazione fra i concetti di potere temporale e di potere spirituale sulla incertezza dei concetti di fidelitas e di oboedientia nella mente del papa10.
Si tratta cioè per lo più non di concetti di natura schiettamente diversa, anche se designati da un medesimo termine, bensì di variazioni di un medesimo con- cetto, e in ogni caso di idee fornite di un’affinità profonda, che è data dalla co- mune ispirazione religiosa e politica insieme: poiché la fedeltà religiosa impli- ca sempre nei principi speciali doveri politici e militari verso la sede di Pietro. Lo stesso Fliche si trova talvolta imbarazzato nel decidere il significato di un termine; è questo il caso della fidelitas testimoniata dal figlio del re di Kiew verso il beato Pietro, di cui parla papa Gregorio in una lettera al mede- simo re11. Singolare è la relazione del re di Danimarca con la sede romana: il
pontefice sollecita l’auxilium del re ed è a sua volta sollecitato a concedere al regno il patrocinium del beato Pietro, e tuttavia non pare che si possa parlare in questo caso di un vincolo propriamente feudale, ma piuttosto di «une vague protection, en échange de laquelle le Saint-Siège a peut-être reçu des dons en argent»12. Il malinteso stesso che il Fliche suppone creato nei rapporti fra
Guglielmo il Conquistatore e il pontefice dai legati papali, che nel trasmette- re talune richieste di Gregorio ne avrebbero deformato il pensiero13, dimo-
strerebbe come tra la fidelitas e il servitium universalmente dovuti alla sede dell’apostolo e gli speciali doveri dei vassalli papali la confusione sia possibile per gli stessi collaboratori del pontefice: tanto più che esistono gradi interme- di fra l’una e l’altra fedeltà, com’è il caso del re danese. Il legame feudale non è concepito da Gregorio come eterogeneo rispetto alla normale dipendenza dei regni da Roma, bensì come un naturale incremento di essa.
Questo significato imperiale del papato del secolo XI è specialmente sen- tito dagli storici che ricercano la genesi dell’idea di crociata. Già il Cognasso rileva la relazione esistente tra il fallimento dell’impero carolingio nel suo compito di difesa militare e di disciplina politica della cristianità e l’assunzio- ne della protezione della pace pubblica da parte dei sinodi provinciali e della direzione della guerra santa da parte del papato nel concilio di Clermont del 1095: a Clermont il vicario di Pietro diviene il supremo garante della pace di Dio e della guerra di Dio14. L’Erdmann poi studia sistematicamente tutte le
manifestazioni dell’idea di guerra della chiesa e del papato nel secolo XI, e in relazione con esse considera l’attività svolta dalla sede romana per procurarsi
10 C. Erdmann, Die Entstehung des Kreuzzugsgedankens, Stuttgart 1935 (Forschungen zur
Kirchen- und Geistesgeschichte, 6), p. 202.
11 Das Register Gregors VII. cit., VII, 4, pp. 463 sgg. 12 Fliche, Grégoire VII cit., pp. 342 e 344.
13 Op. cit., p. 348. Ma l’Erdmann, Die Entstehung cit., pp. 172 sgg. e p. 203, crede ad un vero e
proprio tentativo papale di stabilire un legame feudale con l’Inghilterra.
14 Cognasso, La genesi delle crociate cit., pp. 11 sgg.; cfr. p. 15: «era la città di Dio, che usava le
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i mezzi finanziari e militari necessari per tradurre in atto tale idea15. Ne risul-
ta soprattutto illuminata la figura di Gregorio VII: la guerra da lui promossa e benedetta, i piani militari da lui concepiti sono nella sua coscienza parte integrante dell’attività della chiesa e del suo rettore16. In Gregorio VII non si
possono scindere il sommo sacerdote che libera la chiesa dalla simonia, e il principe che si assicura il dominio delle isole del Tirreno, la fedeltà feudale dei re più lontani, il servizio militare dei grandi signori laici ed ecclesiastici17: e ciò
appunto manifesta l’alterazione avvenuta, nella concezione del papato, dell’i- dea patristica del sacerdozio. Si consideri la condotta di Gregorio verso il re di Danimarca, al quale nel 1075 chiede aiuti «in militibus et materiali gladio» contro i nemici di Dio e fa sperare per il figlio, qualora intervenga personal- mente a capo delle milizie destinate al papa, una ricca provincia «iuxta mare, quam viles et ignavi tenent heretici»18: il pontefice ha il potere di disporre dei
domini della terra per compensare i servizi che alla causa della fede rendono i principi, siano essi o no feudalmente legati alla sede di Pietro, ed ha il potere di costituire a difesa della chiesa un nucleo di forze militari, destinato ad ope- rare secondo la sua volontà.
Sono a questo riguardo di vivo interesse gli studi che sta svolgendo lo Stickler intorno al potere coattivo materiale attribuito alla chiesa dai cano- nisti del medioevo. Egli ricerca le prime testimonianze dell’idea del possesso del ius gladii e della vis armata da parte della chiesa e del papato: idea che affiora ad esempio in una rubrica di Anselmo di Lucca, «quod ecclesia perse- cutionem possit facere»19. È vero che l’indagine dello Stickler è compromessa
dalla rigidezza di una sua tesi: il papato medievale, quando rivendica la spada materiale, distinguerebbe il ius gladii della chiesa, pur se affidato per l’eserci- zio ai principi, dal potere coattivo dello stato, pur se esercitato in difesa della
15 Particolarmente interessante l’analisi dei concetti di «vexillum sancti Petri» e di «militia sancti
Petri» (Erdmann, Die Entstehung cit., capp. VI e VII).
16 Op. cit., pp. 151, 161, p. 165: «er war Kriegsmann ebensosehr wie Priester und Politiker». Ed
infatti si legga nella lettera ad Enrico IV del dicembre 1074 («dictatus pape») a proposito della disegnata spedizione in oriente: «si me possunt in expeditione pro duce ac pontifice habere, ar- mata manu contra inimicos Dei volunt insurgere et usque ad sepulchrum Domini ipso ducente pervenire» (Das Register Gregors VII. cit., II, 31, p. 166).
17 Si vedano ad esempio le richieste papali al duca di Aquitania, al conte di Borgogna, all’arcive-
scovo di Aquileia, al vescovo di Trento (Fliche, Grégoire VII cit., p. 339; Erdmann, Die Entstehung cit., pp. 163, 195).
18 Das Register Gregors VII. cit., II, 51, p. 194. L’Erdmann ritiene possa trattarsi della Dalmazia
(Erdmann, Die Entstehung cit., p. 200): non sappiamo su quale fondamento.
19 A. Stickler, Il potere coattivo materiale della chiesa nella riforma gregoriana secondo
Anselmo di Lucca, in Studi gregoriani cit., pp. 235 sgg. (cfr. p. 259); Stickler, Il “gladius” nel registro di Gregorio VII, in Studi gregoriani, raccolti da G.B. Borino, III, Abbazia di San Paolo di
Roma 1948, pp. 89 sgg.; Stickler, Magistri Gratiani sententia de potestate ecclesiae in statum, in «Apollinaris. Commentarius Iuris canonici», 21 (1948), pp. 36 sgg.; Stickler, Der Schwerterbegriff
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Giovanni Tabacco, La relazione fra i concetti di potere temporale e di potere spirituale fede. Lo stato sarebbe in un duplice significato il braccio secolare della chiesa, poiché eserciterebbe un’azione coattiva delegata dal potere spirituale, e una coercizione conforme ai propri compiti essenziali, che comprendono la difesa della chiesa20. Questa costruzione è possibile perché lo Stickler attribuisce a
pontefici e canonisti del medioevo un concetto molto ricco dello stato: di qui la troppo netta distinzione fra significato largamente politico e semplicemente coattivo del gladius temporalis, e la concezione di una spada materiale appar- tenente alla chiesa e adoperata dal principe e tuttavia distinta dalle funzioni proprie dello stato. Ma crediamo che, quando si prescinda da questa costru- zione, i lavori dello Stickler riescano utili, poiché rivelano l’alterazione subita dal concetto di potere spirituale fin dal secolo XI: basterà sostituire alle rigide interpretazioni del nostro studioso l’osservazione delle testimonianze ch’egli reca. Esse sono in gran parte costituite di antiche fonti cristiane, utilizzate dagli autori delle collezioni canoniche per dimostrare il potere della chiesa di usare la violenza contro i propri nemici. In questo modo l’interpretazione agostiniana del precetto paolino sul rispetto dovuto alla spada del principe, interpretazione che già costituiva un’alterazione della primitiva concezione dei rapporti fra chiesa ed impero, viene a sua volta deformata e condotta a significare il possesso papale di un potere materialmente coattivo.
Il papato si sostituisce dunque all’impero nel governo della cristianità. Si può anzi affermare che soltanto questa sostituzione realizza infine l’esigenza, manifesta nella tradizione imperiale, di una suprema direzione politica dei po- poli cristiani. Il significato universale dell’impero è infatti costantemente limi- tato dai legami troppo palesi dell’istituzione con un determinato popolo: don- de l’impossibilità di una esplicita rivendicazione della giurisdizione suprema sul mondo cristiano. Il significato universale del papato è invece incontrastato in occidente: l’assunzione definitiva di un contenuto politico nell’idea papale determina perciò il chiarimento e l’attuazione dell’esigenza di un potere poli- tico universale. La manifestazione più chiara di questo potere è rappresentata dal diritto, rivendicato da Gregorio VII e divenuto poi tradizionale nel papato, di deporre i principi. Di qui la risoluta asserzione della Summa Coloniensis e della Summa Parisiensis nel secolo XII: «papa ipse verus imperator»21.
Ma l’affermazione di una piena maturità del concetto teocratico nella co- scienza di Gregorio VII sembra in aperto contrasto con la diffusa opinione ch’egli non rivendichi una sovranità temporale sul mondo. Il Fliche si sforza di ricondurre il pensiero di Gregorio VII a quello di Gregorio Magno, che nei
20 Stickler, Il potere coattivo materiale della chiesa cit., pp. 283 sgg.
21 A.J. Carlyle, The political theory of the Roman lawyers and the canonists, from the Tenth
Century to the Thirteenth Century, in R.W. Carlyle, A.J. Carlyle, A history of mediaeval political theory in the West, II, Edinburgh-London 1909, p. 224.
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Moralia distingue fra l’iniquità dei principi e la giustizia a cui collabora il loro potere per volere divino22. Ma il primo Gregorio è lontano dal pensare che
tocchi ad altri che a Dio allontanare i principi iniqui dal trono e distribuire ai meritevoli i regni della terra: e in ciò rimane fedele al pensiero di Gelasio. La subordinazione patristica del regno al sacerdozio non creava un rapporto giuridico fra i due poteri, analogo a quello esistente fra il principe e gli ufficiali a lui sottoposti23.
Nella concezione patristica il carattere giuridico del sacerdozio ha un limi- te là dove si richieda l’intervento di una forza materiale. Questo limite manca interamente nell’azione e nel pensiero di Gregorio VII: «quodsi sancta sedes apostolica (…) spiritualia decernens diiudicat, cur non et secularia»?24 Che si-
gnifica allora affermare che Gregorio VII non persegue «fini politici» e neppu- re obbedisce a «preoccupazioni d’ordine temporale»25? Quando i fini terreni
non siano semplici strumenti di un bene spirituale, sono vietati ai principi non meno che al papa. Gregorio infatti li esorta a governare per l’utilità delle ani- me, per il trionfo della giustizia e per l’onore di Dio26: che sono i fini medesimi
per i quali egli lotta contro l’impero e interviene all’interno dei regni. E se talo- ra è incline a giudicare diabolico il potere regio, ciò non procede dalla conside- razione dei mezzi usati dai re, ma dall’orgoglio e dall’amore di gloria mondana che spesso li ispira. Non cade tuttavia il criterio atto a distinguere il sacerdozio dal regno: che è dato però non dall’esclusione dei sacerdoti dalla vita politica, bensì dall’esclusione dei laici dal governo del sacerdozio e dunque dall’uso, sia pure indiretto, di quei mezzi spirituali d’azione, che non spettano ai re, pur essendo comune all’uno e all’altro potere il fine morale e religioso.
Di ciò non sembra interamente persuaso neppure l’Arquillière, nonostante la sua insistenza sul carattere teocratico della dottrina gregoriana. Egli infatti trascorre dal riconoscimento più aperto dell’assorbimento dello stato medie-