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Identità e capitale sociale nella fabbrica post-fordista

deindustrializzazione legati alla crisi del modello fordista, si è cominciato a valutare le opportunità offerte da tali aree per la città, pensando ai vuoti industriali come ad una grande risorsa per la trasformazione della città.

La fabbrica, perso il significato e la connotazione stabile di luogo di trasformazione e produzione delle merci, è divenuta

luogo della memoria, luogo simbolo di valori e scontri lontani,

luogo di sperimentazione di nuove progettualità e temi di riuso. Gli edifici industriali, la loro localizzazione, le loro modalità costruttive, la loro chiusura, mettono in luce che cosa hanno rappresentato e cosa potrebbero significare per lo sviluppo futuro delle città.

Nell'ambito del processo di dismissione, diventa evidente il consumo culturale cui è soggetto l'edificio industriale che, non più simbolo di un progresso tecnico inarrestabile, appare sempre più come componente di un paesaggio oggetto di trasformazione9.

Il modello fordista, basato sul pieno accentramento delle funzioni, è entrato in crisi quando non è riuscito ad adattarsi alle innovazioni in atto dei sistemi produttivi.

Fino agli anni Settanta, infatti, la fabbrica, tempio retorico del progresso, aveva contribuito a formare l'iconografia urbana della città industriale attraverso la definizione delle direttrici di crescita e la destinazione di gran parte delle aree; le politiche per lo sviluppo avevano eletto e promosso la grande impresa come sinonimo di industrializzazione ed avevano attivato generose politiche statali a suo favore. Secondo tale approccio, solo una maggiore presenza della grande impresa avrebbe garantito uno sviluppo moderno. Quindi, solo fattori esogeni come la grande impresa esterna e lo Stato, integrandosi opportunamente, avrebbero potuto favorire

dall'alto lo sviluppo economico.

Gli anni Settanta, con la crisi del modello fordista e la comparsa dei primi grandi vuoti industriali, hanno segnato il rovesciamento di opinioni e di ricette consolidate che erano state elaborate nei due decenni precedenti in materia di sviluppo economico. Inizialmente, la dismissione ha riguardato le aree di più antica industrializzazione, le prime a confrontarsi con la crisi, accompagnandosi a vistose perdite occupazionali ed a sensibili cali della produttività.

9 La perdita di una centralità, non solo simbolica, dell'edificio industriale, non

significa un superamento culturale di gerarchie urbane o territoriali ma semplicemente una loro messa in discussione. (Amirante R., Lo stato delle aree dismesse, Pironti, Napoli, 2001)

1_TEMI 1.3 IDENTITÀ E CAPITALE SOCIALE NELLA FABBRICA POST-FORDISTA

Verso la fine degli anni Settanta il fenomeno ha coinvolto, invece, anche l'Europa meridionale e mediterranea: in questo caso, a fronte della caduta occupazionale e di produttività che ha interessato i nuclei centrali delle aree metropolitane, si sono rilevati vistosi incrementi di occupazione e di capacità produttive in alcune regioni periferiche in precedenza non industrializzate, con lo sviluppo di una nuovo modello economico di aree produttive medio-piccole.

Così, all’inizio degli anni Settanta, la scena si è capovolta: l'impresa medio piccola non è apparsa più necessariamente meno efficiente della grande impresa e, nello stesso tempo, la sua eccezionale flessibilità le ha permesso di reagire ad un mercato più instabile, in cui la concorrenza è più forte e la quantità e la qualità della domanda variano più velocemente. All’interno del sistema produttivo centrato sulla grande impresa fordista, integrata verticalmente, capace di controllare il mercato del lavoro e quello dei beni di consumo di massa, viene allora introdotta l'azienda di dimensioni medio-piccole, caratterizzata da una struttura più agile ed adattabile, ma nello stesso tempo più dipendente dall'ambiente esterno in quanto esigente di collaborazione, alleanze e pertanto più aperta a rapporti non concorrenziali con le altre imprese.

La scoperta dei modelli produttivi flessibili della piccola impresa, in cui si fa sempre più perno sulle potenzialità locali e sulle condizioni specifiche delle varie formazioni sociali e territoriali, tende a riconoscere l'importanza del contesto territoriale nel quale le imprese si trovano ad operare. Fattori istituzionali, socio- culturali e politici, che costituiscono il capitale sociale più che economico di un determinato contesto locale, fino ad allora posti in secondo piano dalla capacità di controllo della grande impresa e dell'intervento dello Stato, riemergono ed acquistano un'importanza cruciale per la nascita e la sopravvivenza tanto della piccola quanto della media impresa.

L'analisi economica si arricchisce quindi della dimensione

territoriale: ciascun luogo mobilita nella produzione la propria

morfologia, la propria storia, la propria cultura, le proprie risorse specifiche. La varietà dei luoghi produttivi non può quindi più essere trascurata: ogni impresa attinge per il suo sviluppo a valori, conoscenze ed istituzioni formatasi nei luoghi in cui è insediata la proprie unità produttiva.

Si va affermando il convincimento che una reale politica di trasformazione favorevole allo sviluppo urbano sostenibile, deve essere meno pervasiva, più discreta e rispettosa delle capacità imprenditoriali locali e del contesto storico-territoriale in cui dovrà operare.

È infatti nelle società che hanno ereditato una maggiore dota- zione di capitale sociale che gli episodi di cooperazione spontanea sono probabilmente più diffusi tra i membri di una comunità.

1_TEMI 1.3 IDENTITÀ E CAPITALE SOCIALE NELLA FABBRICA POST-FORDISTA

Al contrario, in una comunità caratterizzata da atteggiamenti individualistici, la promozione dello sviluppo può rivelarsi ben più difficoltosa.

Questi aspetti, a causa della loro forte influenza sui processi di sviluppo, configurano la trasformazione delle aree dismesse come una costruzione sociale e politica in cui gli attori endogeni, con i loro comportamenti, con i loro valori e atteggiamenti sono i protagonisti principali.

Oggi, la promozione dello sviluppo in contesti dismessi non può più tralasciare la problematica della loro identità socio- culturale, che è fatta di storia, consuetudini, norme civiche, tradizioni.

Solo riabilitando il ruolo svolto dal capitale sociale può spiegarsi come, paradossalmente, la più alta concentrazione di incentivi registrati nei grandi poli industriali si accompagna, spesso, a strutture produttive con gravi problemi di ristrutturazione e ad un ambiente fortemente corrotto, mentre segnali di uno sviluppo più autonomo e consistente provengono da quelle aree meno toccate dalle politiche tradizionali di industrializzazione; luoghi il più delle volte caratterizzati da una maggiore integrazione sociale, da un miglior equilibrio demografico, da più radicate tradizioni di lavoro autonomo, le cui passate esperienze storiche hanno favorito il diffondersi di atteggiamenti collaborativi, dove si sono potute cogliere maggiormente le opportunità per uno sviluppo diffuso, presentatesi a partire dagli anni Settanta con la crisi della produzione di massa; zone che nell'ottica dell’industrializzazione postbellica apparivano potenzialmente più svantaggiate e quindi non giustificavano tecnicamente un massiccio intervento pubblico.

Proprio in queste aree, il minor afflusso di trasferimenti pubblici spinge la popolazione a valorizzare le risorse e le specificità

locali per metter in moto un processo di sviluppo con una

propria identità, sollecitando alcune comunità a riconoscere, conservare e potenziare le esperienze produttive e di cultura collettiva. Queste comunità industriali possono trovare oggi, proprio nel background sociale legato al loro passato industriale, le conoscenze ed i valori necessari allo sforzo di trasformazione e riqualificazione.

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