Charles Taylor e ‘la politica del riconoscimento’.
2.3. Identità e riconoscimento
64 Cfr. C. TAYLOR (2004) Modern Social Imaginaries; trad. it. Gli immaginari sociali moderni, Meltemi, Roma, cit, p. 16.
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La sensibilità alla diversità viene acquisita da Taylor fin dall’infanzia: cresciuto in Québec da padre anglicano anglofono e madre cattolica francofona, non ha mai visto il mondo sotto l’aspetto dell’uniformità.
«Nella mia famiglia c’erano sempre spiegazioni in corso - ricorda con un sorriso - La diversità era considerata normale, proprio mentre la società del Québec viveva in un’uniformità religiosa opprimente. Di conseguenza, ho sempre accettato di scaldarmi a differenti legni…».65
La sua vicenda biografica ha dato vita a uno stile filosofico che è anche un modo d’essere: un gusto per il dialogo che Taylor condivideva con il filosofo francese Paul Ricoeur, di cui fu grande amico: «ci siamo riconosciuti, lui protestante e io cattolico: l’ho stimato enormemente». 66
Per Taylor, l’arte della filosofia consiste nel trovare “linguaggi più sottili” per suscitare conversazioni: «è un imperativo morale cercare di comprendersi».
Perciò non sorprende la sua visione secondo cui la politica deve fondarsi essenzialmente sulla differenza dei valori.
Accanto ai diritti giuridici del modello liberale67, esistono, secondo la sua visione, diritti culturali collettivi da negoziare e rivendicare in sede politica (il riconoscimento delle minoranze; le politiche scolastiche da adottare e promuovere in una società
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Intervista rilasciata da Charles Taylor a Élodie Maurot per il quotidiano cattolico «La Croix» (26 luglio 2012); trad. it.: Anna Maria Brogi.
66Taylor ha intrattenuto nel corso della sua vita un dialogo costante, uno scambio di idee, con Gadamer e Ricoeur, nella ricerca di quella razionalità aperta alle attese umane e all’indeterminazione dell’agire umano.
67 Ricordo qui brevemente che secondo il paradigma liberale la politica si fonda sull’universalismo delle norme giuridiche, e deve rimanere neutrale fra le varie concezioni della vita buona.
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multiculturale; la concreta garanzia di pari opportunità per tutti, a prescindere dall’orientamento politico, religioso, sessuale).
La società canadese (parlo per esperienza diretta) rifiuta il monismo religioso, politico e culturale, a beneficio di un modello pluralista -che ingloba, senza assimilarle, le culture minoritarie-, fondato sul riconoscimento delle differenze culturali.
In nome di un complesso di valori universali (solidarietà, libertà, rispetto della diversità) e di diritti umani, che costituiscono un patrimonio irrinunciabile di civiltà, viene assicurata la pacifica convivenza fra culture, etnie, religioni differenti.
Il modello multiculturale rifugge lo scontro, l’indifferenza e la mera tolleranza, per realizzare una sorta di composizione e interazione tra diversi, secondo l’efficace metafora dello stato- mosaico.
D’altronde, se da un lato la globalizzazione allenta i vincoli con lo stato nazionale e promuove l’omogeneizzazione e il livellamento fra le diverse culture mondiali, dall’altro alimenta il sorgere di sentimenti nazionalistici locali e, più in generale, di istanze di riconoscimento da parte delle culture minoritarie.
L’importanza del riconoscimento è tale, secondo Taylor, che la nostra stessa identità è plasmata in parte dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento o dal misconoscimento da parte di altre persone.
Un individuo o un gruppo -egli sostiene- può subire un danno reale, una distorsione nella costruzione della propria identità, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un’immagine di sé che lo limita o lo sminuisce o lo umilia. Il non riconoscimento, o misconoscimento, può essere una forma di
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oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto e impoverito.68
Taylor definisce l’identità (‘chi siamo’, ‘da dove veniamo’) «lo sfondo sul quale acquistano un senso i nostri gusti, desideri, opinioni e aspirazioni».69
Il fatto che secondo l’ideale moderno di “autenticità” 70, e l’idea ad esso correlata di identità generata interiormente, sia l’individuo a scoprire la propria identità, non significa che la costruisca stando isolato: come si è mostrato nel paragrafo precedente, egli la ‘negozia’ attraverso un dialogo, in parte esterno in parte interiore, con altre persone. Per questa ragione, nella visione del filosofo canadese,
68 Cfr. C.TAYLOR (1998), Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento. Fra tutte, l’analisi più influente del riconoscimento, è secondo Taylor quella fornita da Hegel nella Fenomenologia dello spirito (l’argomento verrà approfondito in un paragrafo del capitolo successivo, nel quale si esaminerà l’influenza esercitata da Hegel su Taylor).
69Cfr. C.TAYLOR, Ibidem, cit., p. 19.
70 Quando Taylor parla di “autenticità” si riferisce all’ideale moderno di individuo che mira all’autocompimento e all’autorealizzazione. Questa concezione venne articolata da Rousseau (Cfr. J.- J.ROUSSEAU, Les révieres du promeneur solitaire, “Cinquème promenade”, in Euvres complètes, Gallimard, Paris, 1959, I; trad. it.,: Le passeggiate solitarie, in Opere, Sansoni, Firenze, 1972), ma diventò di importanza cruciale con Herder (Cfr. J.G.HERDER, Ideen, cap. 7, par. 1, in Herders Sämtliche Werke (a cura di) B. Suphan, Weidmann, Berlin 1877-1913; trad. it.: Idee per la filosofia della storia dell’umanità (a cura di) V. Verra, Laterza, Roma-Bari, 1992). In un certo senso può essere considerata una continuazione e intensificazione della strada aperta da Sant’Agostino, per il quale il cammino verso Dio passava per la nostra autocoscienza: «[…] si tratta dell’idea che ognuno di noi ha un modo originale di essere uomo/donna: ogni persona ha una sua “misura”. Prima del tardo Settecento nessuno riteneva che le differenze tra individui potessero assumere una simile significato morale. «C’è un certo modo di essere uomo che è il mio, e io sono chiamato a vivere la mia vita in quel modo, non a imitazione della vita di un altro. Ora, questo concetto dà un’importanza tutta nuova alla fedeltà a se stessi: se non sono fedele a me stesso perdo la ragion d’essere della mia vita, perdo ciò che essere uomo per me. Ed è questo il potente ideale morale che è giunto fino a noi, e che riconosce l’importanza morale di una sorta di contatto con me stesso, con la mia natura più intima, la quale è sempre in pericolo di smarrirsi, in parte per le pressioni verso un conformismo esteriore, ma anche perché assumendo un atteggiamento strumentale verso me stesso io posso perdere la capacità di ascoltare questa voce interiore. L’importanza di questo contatto con se stessi viene poi esaltata dall’introduzione di un principio di originalità: ognuna delle nostre voci ha qualcosa di unico da dire. Posso trovare il modello secondo cui vivere […] solo in me stesso. Essere fedele a me stesso significa essere fedele alla mia originalità, cioè a una cosa che solo io posso articolare e scoprire; e articolandola definisco me stesso, realizzo una potenzialità che è mia in senso proprio» (Cfr. C.TAYLOR (1998), Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, cit., pp. 15-16). Herder -sostiene Taylor- applica il suo concetto di originalità a due livelli: non solo alla persona fra le persone, ma anche al popolo (portatore di cultura) fra i popoli: un Volk, come un individuo, dovrebbe essere fedele a se stesso, alla propria cultura.
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l’identità del singolo dipende in modo decisivo dalle sue relazioni dialogiche con gli altri. Dipende dal riconoscimento che chiediamo e/o accordiamo agli altri.
Questa dipendenza dagli altri non è nata con l’era dell’autenticità e con la sua concezione di identità prodotta interiormente: l’individuo dell’epoca premoderna (con la sua visione di identità derivata socialmente) dipendeva per natura dalla società, ma il riconoscimento non costituiva un problema: «c’era un riconoscimento generale, connaturato all’identità derivata socialmente per il semplice fatto che quest’ultima si basava su categorie sociali che tutti davano per scontate».71 Un’identità prodotta interiormente non dispone di questo riconoscimento a priori: deve conquistarselo attraverso uno scambio, e può fallire nell’impresa.
In sintesi, con l’età moderna si assiste alla problematizzazione del riconoscimento, e si delineano le condizioni per le quali il tentativo di farsi riconoscere dall’altro, dalla società, può fallire.72
È evidente che la nostra identità si forma e/o si deforma, nel corso della vita, a contatto con gli altri, in una sorta di dialogo aperto, e non certo sotto forma di un copione sociale predefinito. Nella nostra cultura le relazioni sono considerate i luoghi decisivi della scoperta e dell’affermazione di sé.
71 Cfr. C.TAYLOR, Ibidem, cit., p. 20.
72 A proposito del bisogno di riconoscimento, Rousseau, criticando l’onore gerarchico, les préférences, descrive in questo modo, in un passo del Discorso sulla disuguaglianza il momento in cui la società intraprende “la via della corruzione e dell’ingiustizia”, che egli identifica col momento in cui gli uomini cominciano a desiderare una stima preferenziale: «Ciascuno cominciò a guardare gli altri e a volersi far guardare, e la pubblica stima acquistò pregio. Chi cantava o danzava meglio; il più bello, il più forte, il più abile e il più eloquente divenne anche il più considerato, e fu il primo passo verso la disuguaglianza e al tempo stesso verso il vizio.» (Cfr. J.-J.ROUSSEAU, trad. it., Discorso sull’origine e i
fondamenti della disuguaglianza, in Scritti politici, (a cura di) Garin M., Laterza, Roma-Bari, 1994, vol. I, cit., p. 184).
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