In una nota Intervista sull’identità alla domanda su quale sia il ruolo dell’identità nei legami sociali, Bauman (2005, ed. or. 2003) risponde che probabilmente essa è «qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto» (p. 139). Secondo la sua lettura l’identità, o meglio il bisogno di poter classificare e di conseguenza di identificarsi, è un problema recente, sorto in concomitanza alla nascita dello stato moderno. È da lì che è necessario partire se si vuole comprendere anche l’attuale ruolo che riveste il problema dell’identità che continua a generare violenza.
Il nascente Stato moderno, messo di fronte all’esigenza di creare un ordine che non veniva più automaticamente rigenerato all’interno delle ben radicate e strettamente intrecciate «società di familiarità reciproca», ha posto tale questione a fondamento delle sue nuove ed inusuali rivendicazioni di legittimità (Bauman, 2005, p. 17-18).
Lo stato moderno, infatti, ha tracciato monopolisticamente i confini tra «noi» e «loro», confini che non sono, non possono essere, solo territoriali. Come efficacemente osserva Bauman, l’idea che il semplice fatto di nascere entro un dato territorio significhi automaticamente e inequivocabilmente appartenenza ad una nazione è una convenzione laboriosamente costruita: la nazione è un’entità immaginata, totalmente differente da quella che si può definire una società semplice di familiarità reciproca, retta da quella
che Durkheim chiamava solidarietà meccanica63, ossia un luogo in cui le donne egli uomini pre-moderni si trovavano a vivere naturalmente per la loro vita intera, dalla nascita alla morte.
Lo stato-nazione, come spiega Agamben (1996, p. 25-25) fa della «natività della nascita» il fondamento della propria sovranità; l’idea di identità nazionale appare quindi come un elemento dato, una finzione che ha svolto un ruolo decisivo tra le formule messe in atto dallo stato moderno per legittimare la propria richiesta di subordinazione completa dei suoi sudditi.
Non fosse stato per il potere dello Stato di definire, classificare, segregare, separare e selezionare, difficilmente l’aggregato di tradizioni locali, dialetti, leggi consuetudinarie e modi di vita, si sarebbe spontaneamente riforgiato in qualcosa di simile alla necessaria unità e coesione, che è il presupposto di una comunità nazionale (Bauman, 2005, p. 20).
La sovrapposizione della comunità nazionale coesa con l’aggregato di sudditi dello Stato ha richiesto un grande sforzo, una vigilanza continua che si è potuta realizzare solo grazie alla coincidenza tra il territorio di residenza e l’indivisa sovranità dello stato che, come si è osservato nel capitolo precedente, consiste nel potere di esenzione (Agamben 2005, 2003), la cui ragione di essere è appunto quella di tracciare e sorvegliare i confini tra il dentro e il fuori, tra Noi e Loro.
Nel tempo il senso di appartenenza di cui necessitava lo stato moderno è stato duramente selettivo al fine di preservare la sua funzione di integrazione/disciplina grazie alla minaccia della pratica dell’esclusione.
L’apparenza di naturalezza e la credibilità dell’asserita appartenenza è stata il prodotto di lunghe battaglie, così come la sua perpetuazione.
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L’Italia, del resto, ne è l’esempio migliore: ad un secolo e mezzo dalla vittoria del Risorgimento a malapena può dirsi un paese con una lingua unica e una piena integrazione degli interessi locali, dove la priorità dell’identità nazionale è ancora, come prima dell’unificazione, una questione aperta che suscita vivi contrasti e dibattiti accesi (è sufficiente pensare ai consensi che ha ottenuto e continua ad ottenere un partito come la Lega Nord, nato con lo scopo di ottenere l’indipendenza dal governo di Roma). Come sostenuto dai maggiori teorici della politica, in maniera particolare da Hannah Arendt (2009b), l’idea di popolo nazionale è il tallone d’Achille delle moderne società liberali.
Nello specifico, Arendt mette in luce come lo stato-nazione contenga una logica contraddittoria che trova fondamento nella tensione tra i suoi due elementi costitutivi: lo stato come organizzazione razionale-legale e la nazione che si nutre dell'idea di una comunità sostanziale ed omogenea con riferimento all'ethos e all'ethnos. Quindi se lo stato, dal punto di vista teorico, è una struttura volta a garantire i diritti di tutti, la nazione, al contrario, si regge sul presupposto di una comunità escludente. Solo coloro che condividono il suolo, il sangue e la lingua di una nazione possono, paradossalmente, pretendere di godere della piena protezione dello stato.
In questo discorso la nascita del concetto di diritti umani svolge un ruolo fondamentale. A tal proposito Arendt (2009b, p. 402-403) spiega come la dichiarazione dei diritti dell'uomo alla fine del XVIII secolo abbia rappresentato una vera e propria svolta nella storia del bíos. Essa, infatti, ha sancito per la prima volta che l'uomo e non il precetto divino o gli usi imposti dalla tradizione, sarebbero stati la fonte del diritto. Ma, nello stesso tempo, ha avuto un'altra implicazione:
Essa intendeva essere una garanzia per gli individui che, con l'inizio della nuova epoca, non erano più sicuri della condizione acquistata con la nascita o
dell'eguaglianza di fronte a Dio come cristiani. (Arendt, 2009b, p. 403)
Detto in altri termini, quell'uguaglianza degli uomini di fronte alla divinità e quei diritti che da essa naturalmente derivavano, nella società secolarizzata entra a far parte dell'ordinamento politico ed è garantita, non più da forze spirituali o religiose, ma, appunto dal riconoscimento dei diritti umani.
Perciò, durante il XIX secolo, fu opinione concorde che i diritti umani dovessero essere invocati ogni qualvolta gli individui avevano bisogno di protezione contro la sovranità dello stato e l'arbitrio della società. (Arendt, 2009b, p. 403)
In questo contesto i diritti umani, considerati inalienabili e irriducibili, derivavano la loro validità non da altre leggi, ma dall'uomo stesso che, oltre ad esserne la fonte, ne era il fine ultimo. L'uomo era considerato sostanzialmente l'unico sovrano e la sovranità popolare era proclamata non come accadeva con quella del principe, ossia per grazia di Dio, ma in nome dell'uomo. Ciò rese naturale che gli inalienabili diritti umani trovassero la loro garanzia nel «diritto del popolo all'autogoverno» (ibid.). L'uomo, dunque, si era affermato come essere emancipato da qualsivoglia vincolo e la sua dignità non aveva bisogno di un ordine superiore: l'unico ordine a cui fare riferimento era l'essere membro di un popolo. Ed è proprio questa idea di appartenenza al popolo che lega il sorgere dei diritti umani alla questione dell'emancipazione nazionale: solo la sovranità del popolo, o meglio, del proprio popolo sembrava capace di garantire tali diritti. Ecco allora che si comprende il ruolo dello stato-nazione, ossia il suo presentarsi come garante di quei diritti individuali pensati come una continuazione dei diritti di natura e, al contempo, il suo riconoscere questi stessi diritti solo a coloro i quali si trovino in possesso dei requisiti richiesti per l'appartenenza nazionale. Saranno proprio le minoranze etniche e gli apolidi, che sono per così dire il prodotto degli
sconvolgimenti geo-politici che si ebbero tra la fine del XIX secolo e l'inizio XX secolo, a far riaffiorare questo paradosso insito nella costruzione dello stato-nazione. In particolare Arendt mette in rilievo come la disgregazione interna dello stato-nazione comincia a patire dalla fine della prima guerra mondiale, con la contestuale comparsa delle minoranze create dai trattati di pace e con il crescente afflusso di profughi a causa delle rivoluzioni. I trattati di pace, infatti, tentarono di risolvere il problema delle nazionalità nell'Europa orientale e meridionale attraverso la creazione di stati nazionali e la conclusione di trattati sulle minoranze.
Raggruppati i popoli in uno stato, i trattati affidarono il governo ad uno di essi, promosso al rango di «popolo statale», tacitamente presumendo che gli altri importanti (come gli slovacchi in Cecoslovacchia, i croati e gli sloveni in Jugoslavia) avessero una parte adeguata nell'amministrazione del paese, il che naturalmente non fu. Altrettanto arbitrariamente formarono poi col resto un terzo gruppo di nazionalità definite «minoranze», aggiungendo così alle molte gravose incombenze dei nuovi stati la briga di osservare speciali norme per parte della popolazione. (Arendt, 2009b, p. 376)
In un simile contesto era inevitabile che i popoli che avevano ottenuto la sovranità nazionale si trovassero ad interpretare il ruolo degli oppressori e che i gruppi che di tale privilegio non avevano goduto si trovassero frustrati, animati da ostilità nei confronti di un governo a loro imposto e convinti del fatto che la libertà non fosse possibile senza autodeterminazione e sovranità nazionale, senza la quale erano defraudati dei diritti umani (Arendt, 2009b, p. 379).
I trattati sulle minoranze che seguirono il primo conflitto mondiale rivestono, nel discorso sul rapporto tra violenza, bíos e identità, un ruolo di fondamentale importanza. Essi, infatti, si caratterizzavano in primo luogo per essere garantiti da un organismo internazionale, la Lega delle Nazioni, dato questo che ha sostanzialmente implicato il
riconoscimento delle minoranza come «istituzione permanente» (Arendt, 2009b, p. 382) composta da milioni di persone che vivevano costantemente al di fuori della normale protezione giuridica che lo stato accorda ai suoi membri e che necessitavano per il riconoscimento dei loro elementari diritti di una garanzia ulteriore fornita da un organismo esterno allo stato stesso. I trattati sulle minoranze, dunque,
dicevano a chiare lettere quel che fino ad allora era stato implicito nel sistema degli stati nazionali, cioè che soltanto l'appartenenza alla nazione dominante dava veramente diritto alla cittadinanza e alla protezione giuridica, che i gruppi allogeni dovevano accontentarsi delle leggi eccezionali finché non erano completamente assimilati e non avevano fatto dimenticare la loro origine etnica. (Arendt, 2009b, p. 382)
Si ammetteva così che la legge di uno stato non potesse essere estesa a persone che non potevano essere assimilate, perché fortemente legate ad una diversa nazionalità. E ciò testimonia la compiuta trasformazione dello stato da strumento giuridico a strumento nazionale. Scrive Arendt
«la nazione aveva conquistato lo stato», gli interessi nazionali avevano preso il sopravvento sul diritto molto prima che Hitler potesse proclamare: «Diritto è quel che giova al popolo tedesco». (Arendt, 2009b, p. 383)
L'evoluzione, o forse sarebbe meglio dire l'involuzione, dello stato-nazione sicuramente era già insita nella sua nascita, la cui struttura si basava, come si è visto, sull'autorità della legge volta ad impedire un potere arbitrario e dispotico. Dal momento in cui il precario equilibrio tra stato e nazione ha cominciato ad infrangersi, ossia da quando si è incrinato il rapporto tra interesse nazionale e istituzioni giuridiche, è iniziata quella che Arendt efficacemente denomina «disintegrazione dello stato nazionale» (ibid.).
L'esistenza di un vero e proprio stato nazionale non può essere predicata laddove è infranto il principio di eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Senza l'eguaglianza dinnanzi alle leggi impersonali, destinata a soppiantare l'irrazionalità degli ordinamenti premoderni, lo stato nazione, infatti,
si dissolve in una massa di privilegiati e di diseredati. Le leggi che non sono uguali per tutti danno luogo a privilegi, qualcosa che contrasta con la stessa natura dello stato nazionale. (Arendt, 2009b, p. 402)
Ciò è ancora più evidente se si guarda al fenomeno dell'apolidicità che, ad avviso di Arendt, è il fenomeno di massa più moderno e più caratteristico della società contemporanea: a partire dalla fine della prima guerra mondiale, infatti, ogni avvenimento politico, guerra o rivoluzione ha regolarmente aggiunto un nuovo gruppo a quelli (le minoranze) che già vivevano nell'eccezione alla legge. Si tratta di soggetti costretti da vicende rivoluzionarie a lasciare il loro paese d'origine di cui perdono la cittadinanza. Già dall'inizio della loro comparsa sulla scena dell'Europa della nazioni fu chiaro il problema della loro gestione. Le soluzioni che si prospettarono furono il rimpatrio e la naturalizzazione, entrambe impraticabili. Per ciò che attiene alla prima, ci si rese subito conto della difficoltà di trovare paesi disposti ad accogliere queste persone. Ecco perché tutte le discussioni sul problema dei profughi, come nota Arendt (2009b, p. 394), ruotano intorno ad un fondamentale interrogativo, ossia quello di come si possa rendere nuovamente esiliabile un profugo:
L'unico surrogato pratico del territorio di cui è privo sono sempre stati i campi di internamento. Già negli anni trenta questa era l'unica patria che il mondo aveva da offrire all'apolide. (Arendt, 2009b, p. 394)
Analogamente, la naturalizzazione si è rivelata impraticabile sin da subito, dato l'enorme numero di persone che avrebbe dovuto interessare: un'operazione che, anche dal punto di vista amministrativo, nessun apparato statale europeo era in grado di fronteggiare.
La storia degli apolidi del primo dopoguerra, in ultima analisi, rende evidente come un enorme numero di individui possa perdere non tanto specifici diritti, quanto una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto (Arendt, 2009b, p. 412). E la perdita della comunità politica esclude l'individuo dall'umanità. Ecco allora che i diritti umani in questo contesto si rivelano per il loro essere finzione e astrazione. Se «il diritto ad avere diritti» (Arendt, 2009b, p. 413) dovrebbe essere garantito dall'umanità stessa, l'esperienza ha mostrato che, in realtà, la perdita dei diritti nazionali porta con sé la perdita dei diritti umani. In questo senso, dunque, può dirsi che
La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana. Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell'astratta nudità dell'essere-uomo. (Arendt, 2009b, p. 415)
Gli individui che sono costretti a vivere al di fuori di ogni comunità sono confinati nella loro dimensione naturale e appaiono unicamente nella loro diversità. Una diversità che è lì costantemente a rimarcare la limitazione dell'attività e dell'organizzazione umana e quindi il limite intrinseco all'idea di eguaglianza su cui si fonda la vita e l'organizzazione politica dell'uomo. Un'idea che è essa stessa il risultato dell'ordine che hanno deciso di darsi gli uomini, è il frutto della loro stessa organizzazione, nella misura in cui questa si fa guidare dal principio di giustizia:
decisione di garantirsi reciprocamente eguali diritti. (Arendt, 2009b, p. 417)
Questo, ad avviso di Arendt, spiega perché le comunità politiche evolute (le antiche città-stato, così come i moderni stati-nazione), insistono sull'omogeneità etnica: solo così è possibile eliminare, per quanto è possibile, le sempre presenti differenze naturali che suscitano odio, diffidenza e discriminazione. La diversità e l'individualità sono quelle sfere in cui l'uomo non può agire e trasformare e in cui, quindi, ha la tendenza a distruggere. L'esistenza, di un'ampia categoria di persone escluse dalla comunità, estranee alla logica dell'eguaglianza, racchiude in sé, secondo Arendt, un duplice pericolo. In primo luogo, tali persone rappresentano un «invito all'omicidio» (Arendt, 2009b, p. 418), posto che l'uccisione di uomini esclusi da ogni rapporto di natura giuridica, sociale e politica, può logicamente rimanere priva di conseguenze. Ma sopratutto il numero crescente di persone che non hanno diritto ad avere diritti minaccia la «decomposizione interna» (Arendt, 2009b, p. . 419) del mondo politico, costringendo «milioni di persone a vivere in condizioni che, malgrado, le apparenze, sono quelle delle tribù selvagge» (ibid.)
L'analisi di Arendt mette in luce come la visione di Weber, secondo cui con l’avvento della modernità le forme sociali del passato caratterizzate dall’intimità sarebbero svanite per lasciare il posto ad ordinamenti burocratico-legali rigidamente strutturati, sottoposti ad un costante incremento delle attività normalizzate e, quindi, della prevedibilità, male si accorda con il nuovo tipo di incertezza e l’intensificarsi a livello planetario di violenza che ha accompagnato negli anni la storia dello stato-nazione. E l’avvento della globalizzazione ha amplificato tale fenomeno.
I principi e le pratiche del moderno stato nazionale, quali l’idea di un territorio sovrano e certo, di una popolazione contenibile e quantificabile e il desiderio di categorie di appartenenza stabili e trasparenti, nell’epoca della globalizzazione sono stati, infatti, del
tutto messi in discussione. Come afferma Bauman
Globalizzazione significa che lo Stato non ha più il potere o la volontà per mantenere inespugnabile il suo matrimonio con la società (Bauman, 2005, p.29).
Il significato di cittadinanza è stato in buona parte svuotato dei suoi reali o presunti contenuti con il progressivo smantellamento delle istituzioni gestite o autorizzate dallo stato; istituzioni sulle quali lo stesso fondava la sua credibilità. Le ragioni principali per cui le identità dovevano possedere contorni chiari e privi di ambiguità (come quelli che può garantire la sovranità di uno stato sul proprio territorio) si sono dissolte, hanno perso, il loro «potere di seduzione» (Bauman, 2005, p. 31).
I diritti economici sono ormai fuori dal controllo dello Stato, i diritti politici che gli Stati possono offrire sono strettamente limitati e compressi all’interno di quello che Pierre Bourdieu ha definito pensiero unico del neoliberismo e del libero mercato senza regola, mentre i diritti sociali vengono rimpiazzati uno per uno dal dovere individuale di provvedere a se stessi ed essere sempre un passo avanti agli altri (Bauman, 2005, p. 30)64.
Non più controllate, protette e rinvigorite da istituzioni che dovrebbero essere monopolistiche, le gerarchie di identità solide e durevoli sono non solo poco ricercate, ma anche difficili da costruire.
L'identità […], quella particolarità che distingue il sé dal non-io e il “noi” dal “loro”, non viene più “data” dalla struttura prestabilita dal mondo, né decretata dall'alto. Bisogna costruirla e ricostruirla sempre daccapo da tutte e due le parti del confine nello stesso tempo, poiché nessuna può vantare una o anche solo un'evidenza maggiore dell'altra.(Bauman, 2007, p. 31, ed. or. 1997)
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64 Riguardo al dovere individuale di provvedere a se stessi è interessante la lettura di T.PTCH ,La società
In breve, con la globalizzazione lo stato-nazione cessa interpretare il ruolo di depositario della fiducia del popolo. E la messa al bando della fiducia dal luogo dove ha risieduto per la maggior parte della storia moderna genera incertezza. In un mondo di flussi globali di ricchezza e potere la ricerca dell’identità è diventata l’unica fonte di significato. Detto in altri termini, La «voglia di identità nasce dal desiderio di sicurezza, esso stesso un sentimento ambiguo» (Bauman, 2003, p. 31)
Come osserva A. Appadurai (2005) nella sua analisi dei rapporti tra globalizzazione e violenza, sicuramente nel corso della storia dell’umanità la linea di demarcazione tra noi e loro è sempre stata sfumata e confusa, sopratutto nel caso di vasti territori e grandi numeri, ma la globalizzazione ha esasperato questa incertezza e la perdita da parte di un crescente numero di nazioni dell’illusione della sovranità economica nazionale, ha provocato un nuovo impulso alla purificazione culturale.
Le frontiere finanziarie permeabili, le identità mobili e le tecnologie rapide di transazione e comunicazione, producono una serie di dibattiti, dentro e attraverso i confini nazionali, che costituiscono un nuovo potenziale di violenza.
La violenza su larga scala, quindi, non è la semplice contrapposizione tra identità diverse, ma diventa essa stessa uno dei modi attraverso cui viene prodotta l’«illusione di identità univocamente definitive ed emotivamente coinvolgenti» (Appadurai, 2005, p. 12), per attenuare le incertezze che i flussi globali producono continuamente.
Come mette in evidenza Appadurai, valutate in questa prospettiva le varie forme di fondamentalismo religioso e culturale possono essere considerati come tentativi di produrre nuovi livelli di certezza, di cui prima non si sentiva l’esigenza, su temi quali l’identità sociale, la dignità, la sopravvivenza. In particolar modo, la violenza, soprattutto quella spettacolare, diventa un modo per produrre quella che l’antropologo indiano definisce «adesione totale» (Appadurai, 2005, p. 12) quando le ragioni
dell’incertezza sociale si aggiungono ad altre paure sulla crescita dell’ineguaglianza o sulla perdita della sovranità nazionale, a minacce alla sicurezza nazionale, alla vita stessa. Come ha acutamente sottolineato il giornalista de “The New Yorker” Philip Gourevitch (1998, p. 95) a proposito del massacro dei tutsi da parte degli huto avvenuto in Ruanda all’inizio degli anni Novanta, «il genocidio, dopo tutto, è una pratica di costituzione della comunità».
L’aumento della macro-violenza intrastatale rispetto a quella interstatale, a cui si è assistito negli ultimi due decenni, ne sono la testimonianza maggiore.
In linea con quanto sostenuto da H. Arendt, Appadurai fonda le sue riflessioni sul dato che l’idea di stato nazionale nasconde un concetto essenziale quanto pericoloso: quello di ethnos nazionale. Dove per ethnos si deve intendere quella forma identitaria che