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Quel che resta del trascendente e della coscienza

Nel documento I nomi della violenza (pagine 39-66)

Il rimedio curativo alla violenza rappresentato dal sistema giudiziario a cui si rivolge la modernità ruota, come si è visto, intorno al colpevole e al principio di colpevolezza. Si Si tratta, però, come mette in luce R. Girard in La violenza e il sacro (2011, ed or. 1972) ponendosi in senso critico nei confronti del contrattualismo, di un rimedio che ruota sempre intorno al concetto di retribuzione (che si accompagna alla vendetta), ma elevato ad astratto principio di giustizia che gli uomini sono tenuti a rispettare.

Lo spostamento del punto focale del sistema dalla prevenzione religiosa verso i meccanismi della retribuzione giudiziaria implica, infatti, che il misconoscimento, che ha sempre protetto l'istituzione sacrificale, si sposta su tali meccanismi tendendo a ricoprirli.

A partire dal momento in cui è solo a regnare, il sistema giudiziario sottrae agli sguardi la propria funzione. Al pari del sacrificio, dissimula – anche se al tempo stesso rivela – ciò che lo rende identico alla vendetta, una vendetta simile a tutte le altre, diversa soltanto per il fatto che non avrà seguito, che non sarà vendicata anch'essa. (R. Girard, 2011, p. 40)

Il sistema giudiziario, invece di sforzarsi di impedire la vendetta o di deviarla su di uno scopo secondario, come accade in tutti i procedimenti religiosi, la razionalizza, ne fa una tecnica estremamente efficace di guarigione e di prevenzione della violenza.

Il meccanismo preventivo del sacrificio, infatti, è distante dalla identificazione del colpevole e dal principio di colpevolezza per evitare di alimentare la vendetta, mentre il sistema giudiziario è più strettamente conforme al principio di vendetta10 e l'insistenza !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

10 Tali riflessioni di R. Girard, rendono evidente, come più avanti si approfondirà, l'influenza che sullo stesso ha avuto la costruzione sociologica di E.DURKHEIM, il quale ne La divisione del lavoro sociale, Milano, 1971 (ed. or. 1893), p. 108, ritiene che «la pena è rimasta almeno in parte un atto di vendetta; si dice che non facciamo soffrire il colpevole per farlo soffrire- ma è pur sempre vero che troviamo giusto che soffra»

moderna per la punizione del colpevole ne è testimonianza. Ed è proprio tale rispondenza al principio di vendetta che, ad avviso di Girard, ci fa apparire il sistema giudiziario più razionale degli altri.

Questa razionalizzazione della vendetta, come si è posto in rilevo, si basa sul presupposto che l'autorità giudiziaria ha ricevuto l'incarico, una volta per tutte, di prendere le decisioni in merito all'utilizzo della violenza, decisioni che non possono essere messe in discussione dalla comunità. Il sistema giudiziario, dunque, possiede il monopolio sulla vendetta e grazie ad esso riesce a soffocarla, liberando gli uomini dal «tremendo dovere» di esercitarla (R. Girard, 2011, p.39).

Il sistema giudiziario ed il sacrificio, quindi, hanno in base all'analisi svolta da R. Girad, il medesimo compito di frenare la violenza e il suo infinito replicarsi tramite la vendetta, ciò che però li differenzia risiede nella percezione da parte della comunità della loro funzione, della necessità ed urgenza dell'intervento di tali meccanismi per eliminare la violenza dalle relazioni sociali. Se il sacrificio si manifesta in tutta la sua terribile urgenza come strumento necessario ad arginare la vendetta, nel sistema giudiziario tale urgenza viene meno, fino a far offuscare del tutto il significato dello stesso. Ed è proprio questa caratteristica a renderlo la tecnica più efficace di neutralizzazione della violenza dalla società. Il sistema giudiziario, del resto, è al pari del sacrificio, un'istituzione sociale ed in quanto tale è destinato a funzionare tanto meglio, quanto meno si avrà coscienza della sua funzione11. L'istituzione sociale, come insegna il pensiero sociologico12, ha una funzione integrativa che risiede proprio nel rendere possibile e nel garantire l'ordine sociale, mantenendo coesa una società che evolve verso la differenziazione e la complessità. Le istituzioni, dunque, rappresentano un fattore di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

11 In questo senso anche R.GIRARD in La violenza e il sacro, Milano, 2011, p. 39. (ed. or. 1972)

12 Per la disamina del concetto di istituzione nella sociologia del diritto si veda F.BELVISI, Diritto e

integrazione sociale: la teoria delle istituzioni. Materiali per una ricostruzione storica, in E.

coesione della società che altrimenti sarebbe composta da individui che si atteggiano hobbesianamente a lupi l'uno nei confronti dell'altro. E lo svolgimento di tale funzione di coesione dipende dalla loro stabilità e durata nel tempo, nonché dal consenso di cui devono godere per poter durare. Le istituzioni, in ultima analisi, rappresentano «quel complesso di comportamenti stabilizzati e generalizzati in modelli normativi comunemente condivisi» (F. Belvisi, 2010, p. 3).

Dall'analisi svolta da R. Girard si evince che il sistema giuridico, scelto dal contrattualismo per arginare la violenza dalla società, non condivide con il sacrificio solo la sua natura di istituzione sociale, seppur più efficace perché meno spettacolare, ma anche la trascendenza. I meccanismi che permettono agli uomini di moderare la loro violenza, infatti, presentano tutti delle analogie, posto che, come si è avuto modo di evidenziare, nessuno è estraneo alla violenza. Si tratta di sistemi che si basano, in modo differente, sul misconoscimento e sull'inganno; di procedimenti che si fondano tutti sul religioso, in senso lato inteso. Il momento religioso propriamente detto è certamente intimamente legato al meccanismo preventivo e rudimentale del sacrificio, ma non viene meno quando questo è sostituito dal sistema razionale giudiziario. Se, infatti, nel sacrificio la vittima è offerta alla divinità, il sistema giudiziario si rifà ad una teologia che garantisce la verità della sua giustizia, della sua decisione ed in questa verità risiede la trascendenza del sistema curativo moderno.

Senza una qualche forma di trascendenza, sia essa religiosa o umanistica, non è possibile definire la violenza legittima e, quindi, definirne la specificità rispetto alla violenza illegittima, con la conseguenza che ciò che è violenza legittima e ciò che non lo è sono lasciati all'opinione del singolo individuo, all'eterna oscillazione e, in definitiva, sono destinati a scomparire.

Solo una trascendenza qualunque, facendo credere ad una differenza fra il sacrificio e la vendetta o fra il sistema giudiziario e la vendetta, può ingannare durevolmente la violenza. (R. Girard, 2011, p. 43)

La differenza tra la vendetta e il sistema giudiziario, così come accade nel sacrificio, è solo un mito, dovendosi, al contrario, affermare l'identità positiva della vendetta, del sacrificio e della penalità giudiziaria.

Ed è proprio in questa identità, ossia nella mitica differenza tra vendetta e diritto, che risiede il punto debole della costruzione teorica propria del contrattualismo. Una costruzione che vuole porsi come razionale, che ricerca un fondamento dell'ordine sociale slegato dal trascendente, ma che dello stesso non può fare a meno. Solo un elemento fondatore unico a cui, secondo R. Girard, va dato il nome di religioso, seppur in senso diverso e più profondo di quello teologico, permette di interpretare l'ignoranza moderna a proposito della violenza e del momento religioso: quest'ultimo, infatti ci protegge della violenza, ma allo stesso tempo vi si nasconde dietro come dietro di esso si nascondono violenza e vendetta. Perciò,

Se non sempre comprendiamo il religioso non è quindi perché ne siamo fuori, ma perché, almeno per l'essenziale, ci siamo ancora dentro (R. Girard, 2011, p. 43)

Il pensiero di R. Girard, per vero, è è debitore della tradizione sociologica francese, in particolare delle riflessioni di Emile Durkheim, considerato il fondatore della sociologia moderna, il quale ha avuto il pregio, come ricorda R. Treves (1996, p.60), di svolgere parallelamente la costruzione delle proprie teorie di sociologia generale e quelle relative alla sociologia sociologia del diritto.

E. Durkheim, esattamente come prima di lui aveva fatto A. Comte13, sostiene il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

fondamento positivistico delle scienze sociali, e ne Le regole del metodo sociologico (1963; ed or. 1895) definisce la sociologia come «la scienza delle istituzioni, della loro genesi e del loro funzionamento».

L'aspetto decisamente e più originale della teoria sociale di Durkheim consiste nel metodo, egli infatti ritiene che i fenomeni rilevanti che accadono nella società sono fatti sociali i quali, pur essendo immateriali, devono essere conosciuti e analizzati come i fatti naturali e le cose (Durkheim, 1963, p. 35), ossia dall'esterno, prescindendo da qualsiasi introspezione psicologica.

Durkheim definisce i fatti sociali come modi di agire, di pensare e di sentire che esistono al di fuori della coscienza del singolo individuo, sono fatti collettivi, obiettivi, non soggettivi, né mentali; sono fatti che costituiscono una realtà a se stante, che non dipende dalla volontà umana, che esercitano una forza coercitiva tale per cui se ci si attiene volontariamente ad essi non si avverte la loro coercizione, ma nel momento in cui sono violati la riaffermazione della coercizione è evidente.

Quando assolvo il compito di fratello, di marito o di cittadino, quando soddisfo agli impegni che ho contratto, io adempio doveri che sono definiti - al di fuori di me e dei miei atti - nel diritto e nei costumi. Anche quando sono d'accordo con i miei sentimenti ed io ne sento interiormente la realtà, questa non è perciò meno oggettiva: non li ho fatti io, ma li ho ricevuti mediante l'educazione […] Ecco dunque un ordine di fatti che presentano caratteri molto specifici: essi consistono in modi di agire, di pensare e di sentire esterni all'individuo, e dotati di un potere si coercizione in virtù del quale si impongono ad esso […] Essi costituiscono quindi una nuova specie, ead essi soltanto deve essere data la qualifica di sociali (Durkheim, 1963, pp. 26-27).

Dunque, secondo Durkheim le caratteristiche che permettono il riconoscimento di un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Torino, 1967, che definisce la fisica sociale la scienza più recente ed importante del sistema positivo che si propone di individuare le leggi necessarie ed immodificabili della sussistenza e della dell'evoluzione dei singoli fenomeni sociali e della società nel suo complesso.

fatto sociale sono due: l’esteriorità e la coercizione.

Per esteriorità egli intende la caratteristica del fatto sociale di porsi al di fuori della coscienza individuale; mentre la coercizione dimostra come queste strutture si impongono all'individuo senza che lo stesso possa evitarle, pena una sanzione (contrainte) di tipo giuridico o sociale. Se si cerca di ignorare un fatto sociale, infatti, interverrà sempre una sanzione, non necessariamente giuridica, a ricordarci della sua esistenza: posso decidere di camminare per strada con le scarpe appese al collo, ma mi scoraggerà dal farlo non tanto il fatto in sé, quanto la riprovazione collettiva.

Trattandosi di fatti coercitivi ed esterni all'individuo, tali fatti non possono trovare altro fondamento che nella società. L'insieme di essi, cioè, forma quelle che si sono definite istituzioni, da intendersi come l'insieme di tutte le credenze e le forme di comportamento istituite dalla collettività, che, seppur inizialmente prodotte dagli uomini, si sono oggettivate e rese autonome, divenendo esse stesse elementi costituivi della società.

La società, per Durkheim (1971, ed. or. 1893) dunque, è qualcosa di superiore all'individuo e si manifesta come un tutto, di cui il singolo è solo un elemento attivo. In tale prospettiva, la società non è il risultato della somma di individui o di gruppi, ma è un luogo in cui le norme sono funzione dell’interdipendenza delle sue componenti. In ciò si manifesta la visione olistica, caratteristica del pensiero durkheimiano, strettamente collegata alla pensiero funzionalista14 che concepisce la società come un organismo vivente, ossia come un’insieme di parti, interconnesse tra loro, dove le relazioni tra i singoli componenti sono di tipo funzionale, in quanto ogni elemento svolge un particolare compito che, unito a tutti gli altri, concorre a creare e a mantenere funzionante quell'apparato chiamato società.

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14 Per quanto riguarda la concezione funzionalista della società si veda H. SPENCER, Principi di

Per Durkheim, che sviluppa il suo pensiero all’indomani dello choc provocato dal fallimento della Comune di Parigi, in un momento in cui l’Europa attraversa la prima grande crisi economica, la società non è riducibile solo ed esclusivamente ad un aggregato di contratti stipulati fra gli individui. Egli sottolinea l’esistenza di un’impalcatura di tradizioni e pratiche, i fatti sociali, appunto, che, pur essendo opera dell’azione umana, precedono l’esistenza di ogni singolo individuo, del quale forgiano la personalità e conseguentemente la natura stessa. In questo senso, dunque, si pone in senso critico rispetto al contrattualismo e, mentre gli economisti teorizzano un ordine prodotto dalle spontanee dinamiche del mercato, come libero scambio degli individui legati tra loro da una serie contratti, cerca altri elementi di coesione sociale, anche in quelle società nelle quali vengono privilegiati l’individualismo e la sua espressione per eccellenza nel diritto, ossia il contratto.

Partendo da queste considerazioni, l’impegno sociologico di Durkheim consiste, quindi, nel cercare di comprendere come può rimanere integrata, senza sfaldarsi nel conflitto perenne, una società sottoposta a continue forme di differenziazione e a crescenti processi di individualizzazione e, esaminando le forme d’organizzazione sociale in cui gli individui sono nati e le istituzioni dove essi operano, riconosce quali fattori di coesione la solidarietà sociale e la coscienza collettiva. Si tratta, per vero, di fattori di ordine sociale che possono definirsi di tipo morale. Infatti, la solidarietà sociale è il legame che unisce tra loro i membri di una determinata società, rappresenta cioè, il motore della vita sociale e la coscienza collettiva costituisce quel nucleo di valori, atteggiamenti, sentimenti e norme sociali condivisi all’interno di una società, ossia

l'insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri della stessa società […] un sistema determinato che ha vita propria [...] essa è, per definizione, diffusa in tutta l'estensione della società, ma non per questo manca di caratteri specifici che ne fanno una realtà distinta. Infatti essa è indipendente dalle

condizioni particolari nelle quali gli individui si trovano; questi passano e quella resta. […] Essa non muta ad ogni generazione, ma al contrario vincola le une alle altre le generazioni successive. È dunque altra cosa dalle coscienze particolari, per quanto non si realizzi che negli individui; è il tipo psichico della società, dotato di proprietà, di condizioni di esistenza e di un modo di sviluppo che gli sono propri.(Durkheim, 1971, p. 101)

Per Durkheim, in ultima analisi, la coscienza collettiva ha un ruolo determinante in qualsiasi comunità di individui, di cui è fondamento reale, contrariamente all'artificio del contratto sociale, e in cui condiziona i meccanismi per la realizzazione della pacifica convivenza.

Ne La divisione del lavoro sociale (1971, ed. or. 1893) Durkheim mette in evidenza una tendenza di fondo della società verso una sempre maggiore complessità e differenziazione del lavoro, cui corrispondono due diverse forme di solidarietà sociale: una solidarietà di tipo meccanico, tipica delle società semplici, poco differenziate, per dirla in altri termini, delle comunità che si basano sullo status, dove il legame sociale è assicurato dall’empatia, dall’affettività e dove non vi è distinzione tra morale e diritto; e una solidarietà di tipo organico, caratteristica delle società complesse e differenziate, basate sul contratto, dove vi è il primato dell’individuo e il legame è assicurato dall’interesse ( è il così detto utilitarismo). In questo tipo di società ciascuno si trova a dipendere da tutti gli altri e l’ordine sociale è, almeno in parte, assicurato dalla interdipendenza delle funzioni e dalla complementarietà dei ruoli sociali. È opportuno precisare che entrambi i modelli sono ideali, ma nell'idea del loro autore trovano riscontro e fondamento nella realtà storica.

Ciò posto e in considerazione del fatto che la solidarietà rappresenta un fenomeno morale e quindi un fatto interno, il diritto rappresenta il fatto esterno e visibile che la riproduce (Durkheim, 1971, p. 89-91). Il diritto, dunque, altro non è che la conseguenza

sociale di una causa non visibile, la solidarietà, e ciò che vale a distinguerlo dalle regole propriamente morali risiede nella sanzione, più nello specifico nel modo in cui essa è irrogata. Le regole morali, infatti, si accompagnano ad una sanzione diffusa in tutta la società, come l'opinione pubblica, mentre la sanzione per la violazione della norma giuridica è irrogata da istituzioni particolari, ossia dal sistema giudiziario.

Durkheim osserva come la società si organizza attorno a diverse forme di diritto a seconda del tipo di solidarietà che caratterizza una determinata società. Le società che prima si sono definite primitive, in cui il fattore di coesione sociale è rappresentato da una solidarietà meccanica, sono basate essenzialmente sul diritto penale-punitivo che ha la capacità di collegare senza intermediari la coscienza del singolo con la coscienza collettiva, ossia l'individuo e la società (Durkheim, 1971,p. 100). In tale contesto quello che offende gli stati forti e definiti della coscienza collettiva , ponendosi in contrasto con i sentimenti saldamente radicati in tutte le coscienze sane della società è un atto criminale, ossia un'offesa sferrata contro un'autorità in qualche modo trascendente, la coscienza collettiva, appunto. Per vero questa trascendenza spesso, osserva Durkheim nelle società primitive è riferita alla divinità da cui promanano comandamenti da rispettare, del resto, come egli stesso mette in luce in Le forme elementari della vita religiosa (2005, ed or. 1912), i fenomeni religiosi altro non sono se non la trasfigurazione simbolica dei valori idealizzati della società, la quale è essa stessa, in definitiva, un fatto religioso. Durkheim (1971, p.112) osserva come ogni diritto penale ha delle origini di stampo religioso posto che la sua essenza è costituita da un sentimento di rispetto per una forza superiore al singolo individuo e tale sentimento è alla base di ogni forma di religiosità. Ed è questo il punto di contatto più evidente tra la ricerca sociologica di Durkheim e le riflessioni successive di R. Girard, entrambe caratterizzate, seppur in modo diverso, da una lettura critica del contrattualismo. La

trascendenza, infatti, rappresenta il punto debole della costruzione teorica che fonda sulla razionalità del contratto l'ordine sociale. Una trascendenza che, anche nella prospettiva delineata da Durkheim, non viene meno nelle società differenziate, il cui legame sociale è rappresentato da una solidarietà di tipo organico. Certo, come lo stesso mette in rilievo, le società moderne e differenziate sono caratterizzate dalla preminenza non tanto del diritto penale-repressivo, ma del diritto civile e commerciale, ossia da un diritto cooperativo di tipo contrattuale, caratterizzato da sanzioni restitutive- risarcitorie, posto che la sempre crescente differenziazione e la conseguente divisione del lavoro sociale impongono relazioni basate sullo scambio e quindi di tipo negoziale. Ma la coscienza collettiva e il diritto penale non scompaiono dalle società, assumono solo un ruolo meno centrale nell'integrazione sociale. Sicuramente nelle società basate sulla solidarietà organica, il diritto penale è slegato dal religioso propriamente detto, dall'idea di peccato, ma non per questo, come osserva più tardi anche R. Girard, perde il suo legame il trascendente : esso rappresenta pur sempre la capacità reattiva degli stati forti e definiti della coscienza collettiva, di una forza, dunque, superiore all'individuo. Si tratta di quella che potremo definire una religione laica, che nell'analisi di Girard ha come punto focale la verità della giustizia e della decisione relativa ad essa, in nome della quale opera il sistema giudiziario, mentre nella ricerca di Durkheim nella coscienza collettiva che fonda e orienta i comportamenti umani e che nelle società moderne è basata sulla centralità dell'uomo, piuttosto che del divino, quello stesso uomo che fonda le proprie decisioni relative alla sanzione sull'autorità della giustizia positivizzata e quindi su un'entità al di fuori e al di sopra di esso. Non dobbiamo dimenticare che lo stesso Hobbes, nell'affidare per primo al razionale la costruzione dell'ordine sociale, definisce lo Stato Leviatano come un «Dio mortale» lo raffigura, come ci fa notare G. Agamben in Stasis (2015, p. 45), al di sopra e al di fuori della città.

Che il trascendente non abbandoni il meccanismo moderno di neutralizzazione della violenza lo si può constatare ponendo l'attenzione al mezzo attraverso cui opera il sistema giudiziario, ossia quello che ancora oggi è definito rito giudiziario, utilizzando cioè una locuzione connessa al sacro. Il rito, come suggerisce E. Resta (2008, p.137), è una pratica sociale che tra le sue funzioni ha quella di attenuare l'impatto con il non conosciuto, l'inconsueto, cioè con ciò che genera angoscia e incertezza, esattamente come il disordine e la violenza, rendendo prevedibile l'imprevedibile. E ciò grazie al

Nel documento I nomi della violenza (pagine 39-66)