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Amartja K. Sen, nella raccolta di saggi che compongono La ric-

chezza della ragione e precisamente in quello dedicato a «Codici

morali e successo economico», osserva, fra l’altro, che il ruolo rico- perto dalla mafia nella corruzione, negli omicidi e in altri crimini, la rendono uno dei piú grandi flagelli in Italia ed altrove.

Dobbiamo, tuttavia, capire – egli aggiunge – le basi economiche dell’influenza della mafia, affiancando al riconoscimento delle bombe e delle pistole una comprensione di alcune delle attività economiche che rendono la mafia una parte funzionalmente rile- vante dell’economia.

Questa importanza funzionale verrebbe meno nel momento in cui l’influenza congiunta della garanzia legale del rispetto dei con- tratti e di una conformità di comportamenti basati sulla fiducia reciproca rendessero ridondante, sotto questo profilo, il ruolo della mafia.

Anni dopo i rappresentanti dei Paesi piú industrializzati, nel sum-

mit che si svolse a Birmingham, rilevavano che la globalizzazione è

stata accompagnata da uno spiccato aumento della criminalità trans- nazionale che si manifesta in sempre piú molteplici forme e che poi- * Testo presentato alla Prima Giornata del Mezzogiorno organizzata dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (Napoli 11 giugno 2007) [N.d.C.].

ché la società vive nella paura del crimine organizzato, quei delitti costituiscono una minaccia non solo per i cittadini e la comunità stessa, ma sono anche una minaccia globale che mina alle fonda- menta la democrazia e l’economia della società tramite gli investi- menti di denaro illecito da parte dei cartelli internazionali e la cor- ruzione delle istituzioni, con la caduta della fiducia nello Stato di diritto.

Le riflessioni che ho appena ricordato si incentrano, entrambe, sulla fiducia, compromessa dalle mafie, sia nei rapporti economici intersoggettivi che nei riguardi delle istituzioni e del loro assetto democratico.

La fiducia, intesa come il sentimento di sicurezza che si prova nei confronti degli altri componenti di una comunità e verso chi la rappresenta, in quanto ritenuti capaci di esaudire le nostre aspet- tative, è il collante della vita collettiva, un vero e proprio capitale sociale.

Questo ha compreso, ormai da decenni, la mafia, che ha attuato una strategia ben piú complessa e vantaggiosa, per i suoi fini, di quella cui miravano omicidi e stragi che, pure, in taluni casi, ne fungevano da supporto: sradicare la fiducia di un’ampia quota della società nei confronti delle istituzioni per orientarla verso le proprie strutture, offrendo, nel contempo, “sostituti assicurativi” come quello di consentire, ovviamente con il ricorso a mezzi ille- citi, all’imprenditore legale la possibilità di svolgere la propria atti- vità.

La mafia, dunque, ha eretto la sfiducia a proprio “capitale sim- bolico”, la cui circolazione le consente di esprimere al meglio le proprie potenzialità, inducendo anche una minor disapprovazione rispetto alle pratiche illecite e devianti come, ad esempio, quella della raccomandazione, vera chiave di ingresso in molte porte in territori mafiosi.

Non a caso taluni economisti si sono interrogati sulle cause del non sempre deciso contrasto dell’economia illegale da parte di quella legale, prospettando ipotesi alternative che vanno dall’in- treccio di interessi al timore che le norme anticriminalità intralcino la normale conduzione degli affari.

Lo Stato medesimo, in certe epoche, ha tollerato l’affermarsi di attività illegali – penso al contrabbando di sigarette a Napoli – considerate una sorta di “ammortizzatore sociale”, una compen- sazione al mancato o incerto sviluppo dell’economia legale. Quando poi si è corsi ai ripari perché quelle condotte produce- vano danni sul piano sociale e morale ed anche sotto il profilo dello sviluppo economico, non si sono potuti cancellare i processi di adattamento delle due facce – legale ed illegale – dell’economia che, nel frattempo, erano entrati in gioco.

Quanto ho descritto produce, come è stato notato, “sregola- zione”, fenomeno caratterizzato dalla prevalenza dell’incertezza del diritto (dovuta anche alla lentezza delle procedure, a dispetto della loro «ragionevole durata» evocata dall’art. 111 della Costitu- zione), dell’opportunismo, dell’infiltrazione delle organizzazioni mafiose nella pubblica amministrazione, negli apparati politici (specie, ora, in quelli degli enti locali), della mancanza di fiducia istituzionale con effetti ampiamente distorsivi anche dei mercati.

Tutto ciò non si sarebbe potuto verificare se i gruppi mafiosi avessero potuto contare solo sulle persone “formalmente” inserite, attraverso le varie forme di affiliazione, nei loro ranghi.

La sfiducia cui si è fatto cenno – e che, come evidenziano anche gli studi sociali dell’ OCSE, si esprime nei confronti delle istitu- zioni ed in particolare della burocrazia – ha creato, invece, nel rap- porto mafia-società, un “blocco sociale mafioso”, la c.d. “zona gri- gia” o “borghesia mafiosa” che pur non essendo parte organica del gruppo criminale, ne è talvolta complice, talaltra connivente o, nel migliore dei casi, portatrice di una indifferente neutralità che sem-

bra riecheggiare il detto che, alle prime manifestazioni brigatiste, era sulla bocca di molti:«Nè con lo Stato, nè con le B.R.».

Varia, come anche le indagini dimostrano, è la composizione di quella “zona grigia”: ne fanno parte burocrati, tecnici, professio- nisti, imprenditori e politici, operatori bancari ed intermediari finanziari.

È proprio qui, in questa “zona”, in queste “strutture interme- die” o “di servizio”, che si radica la potenza della mafia: esse le consentono, infatti, di fruire di consulenze, di appoggi e di leve di manovra del potenziale economico che le deriva dai traffici total- mente illeciti e da quelli solo”apparentemente” legali.

È per questa ragione che gli analisti del CENSIS (Rapporto

sulla situazione sociale del Paese 2006, 438) rilevano, bene a

ragione, che «Resta abissale la qualità ed il tenore dello sviluppo economico tra il Mezzogiorno ed il resto del Paese, pur con gli sforzi compiuti negli ultimi anni. Gli elementi di eccellenza, nel Sud Italia, faticano ad emergere nel sociale come nel tessuto pro- duttivo e, quando emergono, hanno vita difficile: troppi veti incrociati della politica, troppe attività fuori delle regole, troppi condizionamenti al libero mercato e all’attività imprenditoriale a causa di molti fattori a cominciare dalla criminalità», la cui pre- senza connota, in negativo, anche gli investimenti di capitali stra- nieri.

Per quanto ho esposto penso che si possa porre rimedio alla situazione solo riacquisendo il “capitale fiducia”, scalzando quello della sua antagonista che si manifesta platealmente anche nello scarso numero di denunce per fenomeni criminali ampiamente diffusi come l’estorsione e l’usura e, ancor piú simbolicamente, nel numero inconsistente, prova della perdita dei diritti di cittadi- nanza, dei “testimoni di giustizia”, fermo negli anni ad una cifra che si aggira sui sessantacinque/settanta, laddove i “criminali pen- titi” hanno raggiunto la quota di millecinquecento.

Sicuramente sono importanti azioni politiche che si traducano in leggi positive (anche se la questione mafia non ha voce, salvo rare eccezioni, nel linguaggio dei politici), come sono importanti i protocolli di intesa con ministeri e prefetture, quelli di legalità ed i patti territoriali, ma ciò che si richiede è un richiamo all’etica della responsabilità, non solo da parte degli imprenditori e dei commercianti, ma anche degli agricoltori, che subiscono anch’essi l’invasività dei gruppi criminali organizzati che impongono i prezzi, falsificano la pesatura delle merci, pretendono il “pizzo” su ogni chilogrammo di prodotto trasportato, indicano i grossisti di loro gradimento.

L’etica della responsabilità, categoria fondata da Max Weber e ripresa da Hans Jonas, richiede che bisogna rispondere delle con- seguenze prevedibili delle proprie azioni: nel nostro caso, se que- ste sono incoerenti, della compromissione della gestione libera e concorrenziale del mercato.

Ciò comporta che, per tutti, ed anche per le categorie produt- tive o che erogano servizi, non è ammissibile non dico la collusione o la sopportazione, ma neppure l’etica della neutralità.

Questo è il forte richiamo, contenuto nella raccomandazione n.11 del 19 settembre 2001 elaborata dal Comitato dei Ministri del Consiglio di Europa, relativa ai principi guida nella lotta contro la criminalità organizzata, che suona: «Gli Stati membri dovrebbero favorire una cultura di impresa fondata sulla responsabilità e sul- l’intolleranza assoluta per le pratiche illegali».

Nella stessa direzione si muove il Trattato che adotta una Costi- tuzione per l’Europa quando, nell’articolo I-3, afferma che l’U- nione offre ai suoi cittadini «… un mercato interno nel quale la concorrenza è libera e non falsata» e quando introduce nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (art. II-76) quello della libertà di impresa.

A ciò impegna, infine, il 41° articolo della Carta che dopo aver affermato il principio della libertà dell’iniziativa economica pri- vata, lo circoscrive, disegnando cosí l’ordine economico costitu- zionale, nei vincolanti parametri della utilità sociale, della sicu- rezza, della libertà e della dignità umana, parametri tutti negati da un’economia gestita dalle mafie quali protagoniste dei mercati.

Occorre, insomma, ritornare all’etica del viaggiatore, che ha una meta, abbandonando, come in molti casi avviene, quella del viandante che, come nota Umberto Galimberti (La casa di psiche), non disponendo di mappe affronta le difficoltà del percorso a seconda di come volta a volta esse si presentano e con i mezzi al momento a sua disposizione.