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Modi di relazione.

2. Il commiato impossibile.

Se in linea di principio non finire può essere considerato esito di incuria nei confronti dell’opera, in realtà si tratta, nella maggioranza dei casi, del risultato di un eccessivo attaccamento o, diversamente, del guasto di un’ambizione sconfinata che ha fatto del “troppo” un “nulla” impossibile da canalizzare.

La citazione di Papini sopra riportata è già di per sé un ottimo esempio di progetto ambizioso che non ha trovato piena realizzazione. Egli parla di “architettura, duomo universale, fabbrica che deve avere tutte le sue parti proporzionate ed equilibrate”, annoverando caratteristiche che in fondo connotano ogni opera letteraria; ma esprime anche la necessità di un impegno superiore non soltanto alle sue forze ma “a quelle dell’uomo in genere”, dichiarando un’ambizione smisurata che, evidentemente, non si è concretizzata.

62 Ibidem.

63 G.W.F.HEGEL, Estetica, trad.it. di N. Merker, N. Vaccaro, Torino, Einaudi, 1997, p. 196. 64 D.PENNAC, Come un romanzo, cit., p. 139.

190 Ad un’opera finita si richiede una perfezione che si configuri nella possibilità di contenere, se possibile, tutto il dicibile. Calvino parla a questo proposito di «ossessione divoratrice, distruggitrice»65:

Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei scrivere e m’accorgo che quello che m’interessa è un’altra cosa, ossia, non una cosa precisa ma tutto ciò che resta escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra quell’argomento determinato e tutte le sue possibili varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo spazio possono contenere.66

La ricerca dell’opera perfetta è costantemente minacciata non solo dall’errore, ma anche dalla precarietà dell’esistenza umana e dalla sua finitudine temporale. La morte potrebbe cogliere l’artista all’opera e vanificare gli sforzi di edificazione del monumento con pretese di perfezione.

Ferroni osserva che «quanto più siano ambiziose, quanto più forte sia l’impegno di costruzione che le regge, tanto più le opere sentono gravare su di sé il pericolo dell’interruzione, della perdita, del naufragio»67.

Si può ipotizzare che, quanto più un progetto sarà ambizioso, tanto più correrà il rischio di andare incontro all’incompiutezza.

Uscendo dall’ambito letterario italiano per accostarsi a quello europeo, si incontra un maestro dell’incompiutezza come Franz Kafka, definito da Magris «grande scrittore perché uomo monco e colpevole della sua perfezione letteraria che era anche mutilazione umana»68. La sua non era soltanto incapacità di finire, ma anche difficoltà di tenere insieme parti plurime di disegni complessi, dosare l’ispirazione e distribuirla uniformemente su più livelli, intervallando narrazioni poco sentite ma utili al complesso dell’opera a visioni ed iperboli.

65 I.CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio, cit., p. 77. 66 Ibidem.

67 G.FERRONI, Dopo la fine, cit., p. 17.

68 C.MAGRIS, Fuori i poeti dalla repubblica? (1996), in ID., Utopia e disincanto, cit., pp. 22-31. La

citazione è a p. 31. Secondo Magris, Kafka sarebbe la personificazione perfetta di come la scrittura sia, incontestabilmente, «un esercizio ascetico e totalizzante, che assorbe l’attenzione e l’energia dell’intera persona», tanto da comportare un «rischio di inumanità» derivante dal suo paradosso: essa ricerca la vita ma la nega perché tutta concentrata su se stesa e sulla propria ricerca. Kafka avrebbe dedicato tutta la sua energia a questa ricerca, ma avrebbe perso la meta «perché tutto preso dall’ansia di imboccare la strada giusta». (Ivi, pp. 30-31)

191 Un’incapacità di organizzare la materia psichica sembra muoverlo a riportare nel suo diario impressioni derivategli dall’incapacità di scrivere, ché ogni idea gli verrebbe «non già dalla radice»69, ma «soltanto da qualche punto verso la metà»70:

Provatevi allora a tenerle, provatevi a tenere e ad aggrapparvi a un filo d’erba che cominci a crescere soltanto a metà dello stelo. Qualcuno ne sarà magari capace, come ad esempio quei giocolieri giapponesi i quali s’arrampicano su una scala che non posa sul terreno ma sulle piante sollevate di uno che stia mezzo coricato, e non è appoggiata alla parete ma si leva nell’aria. Io non so farlo.71

Quella di Kafka è una dichiarazione d’impotenza i cui incompiuti potrebbero essere testimonianza tangibile. Non si tratta di mettere in discussione la capacità kafkiana di scrivere, ma la possibilità che progetti tanto “carichi” siano concepibili a livello formale e, qualora lo siano, che la loro realizzazione soddisfi le ipotesi ambiziose di coloro che li hanno pensati.

Molti autori partiti da queste basi sono giunti all’accettazione dell’insufficienza di ogni opera, facendo della frammentarietà e dell’incompiutezza non una limitazione ma una caratteristica essenziale e necessaria. È il caso di Gadda che nella rinuncia al finale della Cognizione afferma l’impossibilità di dare misura alla realtà e di chiudere definitivamente i sistemi. Ma lo sapeva anche Montaigne, che affermò «Non bisogna fare progetti di così lunga durata, o almeno con tale intensità da affliggersi se non se ne veda la fine»72.

I rigorosi piani di lavoro di Flaubert invece non erano mai sufficienti ad incanalare le idee nei tempi previsti. Per completare le sue opere, egli annunciava lunghi ritiri e silenzi, ipotizzava persino di far annunciare la sua morte per non essere interrotto e, nonostante apparisse seccato e angosciato dal compito autoimpostosi, prolungava il lavoro, in una «voluttà mai esausta di martirio, di olocausto: un calice

69 F.KAFKA, Confessioni e diari, a cura di E. Porcar, Milano, Mondadori, 1981, p. 120. 70 Ibidem.

71 Ibidem.

192 amaro che si vorrebbe allontanare e che pure si beve avidamente, con il gusto del sacrificio»73.

Dopo un progetto di decenni, partito con Dizionario dei luoghi comuni, egli lasciò incompiuto quello che Barthes ha definito «opera limite» di Flaubert74, il suo ultimo romanzo Bouvard et Pecuchét, e impiegò quasi trent’anni per congedare la Tentazione di Sant’Antonio.

Il rapporto dell’autore con la sua opera - e, prima, con la scrittura - sembra eternamente contraddistinto dall’ambivalenza. Si legga ad esempio la seguente citazione su Flaubert:

Le opere giovanili, e gli abbozzi, le brutte copie dei capolavori mostrano del resto quanto naturalmente Flaubert fosse portato, più di altri scrittori, a vivere in ‘simpatia’ con i suoi personaggi, e quanto dovesse costargli recidere caparbiamente i doppi e tripli fili che ad essi lo legavano. […] Flaubert scriverà a Taine, verso il 1868: “I miei personaggi immaginari mi coinvolgono, mi perseguitano, o piuttosto sono io a mettermi dentro di loro. Quando scrivevo l’avvelenamento d’Emma Bovary, sentivo così bene il sapore dell’arsenico nella bocca, mi sentivo talmente avvelenato io stesso, che mi sono procurato due indigestioni, l’una dopo l’altra”.75

Com’è ovvio, il prodotto finito implica un successivo accomiatarsi dell’autore. In un certo senso, l’opera compiuta è pronta per uscire dalla sua giurisdizione diventando ufficialmente un oggetto fruibile e, in quanto tale, passibile di infinite interpretazioni da parte del pubblico.

Nell’eterno dazio che ogni artista deve pagare per la notorietà che gli deriva dalla pubblicazione, alla sua opera potranno essere sovrapposte nel tempo molteplici interpretazioni, in un allontanamento progressivo e potenzialmente infinito dal senso originario.

73 M.COLESANTI, “Introduzione” a G.FLAUBERT, Tutti i romanzi, Roma, Newton Compton editori,

2011.

74 «Un’opera singolare, quasi imbarazzante, in cui essi ripropongono il segreto e insieme la caricatura

della loro creazione, e attraverso la quale suggeriscono l’opera aberrante che non hanno scritta e forse avrebbero voluto scrivere», R.BARTHES, Vouloir nous brûle…, in ID., Saggi critici, trad.it. di L. Lonzi, M. Di Leo, S. Volpe, Torino, Einaudi, 2002, pp. 77-81. La citazione è a p. 77.

75 M.COLESANTI, “Introduzione” a G.FLAUBERT, Tutti i romanzi, cit. Per la vicenda della Tentazione

di Sant’Antonio si veda anche M. FOUCAULT, Un ‘fantastico’ da biblioteca, in ID., Scritti letterari, cit., pp. 135-155.

193 Il meccanismo pigro che è il testo letterario vive nella necessità di essere attivato dal lettore, tuttavia il pericolo di uso del testo - che l’autore ha di certo in mente e che con ogni probabilità costituirà una delle tante modalità di fruizione della sua opera - è da considerarsi un deterrente efficace al completamento76.

Il celebre mito del Fedro sull’invenzione della scrittura fa riferimento in qualche modo proprio alla condizione di slittamento incontrollato del senso cui va incontro un testo nelle mani dei lettori:

una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo.77

Quest’immagine del testo «inerme e privo di ogni difesa»78 può risultare patetica

e retorica ma esemplifica la preoccupazione attribuibile allo scrittore.

Con le dovute proporzioni, le modalità di attaccamento dell’artista alla sua opera potrebbero essere paragonabili a quelle con le quali un genitore vive la crescita della propria creatura: l’artista osserva l’opera evolversi, conquistare spazi, ampiezza e contenuti, a partire da una fase iniziale in cui era soltanto embrione. Non solo: lungi dall’assistere passivamente all’evoluzione del testo, l’autore è colui che vi contribuisce in forma attiva, investendovi consistenti dosi di tempo ed energia sottratte eventualmente ad altre attività quotidiane. Moravia affermò che ogni suo libro nasceva «come un bambino»79, senza progetto, a partire da un «embrione»80 che

poteva essere costituito da «una frase, un ritmo, un’idea»81, destinate a crescere, ad

andare avanti e a modificarsi per strati successivi.

76 Cfr. U.ECO, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 2004. In particolare si veda il capitolo

intitolato “Interpretazione e uso dei testi”. Per quanto riguarda il testo come meccanismo pigro, si veda U.ECO, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1998, p. 52: «Un testo è un meccanismo pigro (o economico) che vive sul plusvalore di senso introdottovi dal destinatario […] vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare».

77 PLATONE, Fedro, trad.it. di G. Reale, Milano, Rusconi, 1993, pp. 162-63. 78 G.FERRONI, Dopo la fine, cit., p. 4.

79 L.R.CARBONE, Il silenzio la parola, Napoli, Guida, 2005, p. 13. 80 Ibidem.

194 L’immagine di autore come “padre” è assai efficace e significativa per i testi incompiuti, che vanno incontro molto spesso a pubblicazione postuma. Fa notare Ferroni che «in origine postumus venne usato quasi esclusivamente per indicare un “ultimo” figlio, nato dopo la morte del padre»82 creando alcuni problemi nel diritto

romano per ciò che riguardava la successione, cui i figli postumi erano esclusi. Un ulteriore determinante fattore alla base dell’attaccamento dell’autore all’opera può derivare dal fatto che, pur essendo scrittura e lettura i due aspetti speculari dell’esperienza letteraria, i tempi di concepimento e creazione dell’opera sono molto diversi dai tempi di lettura e fruizione della stessa. Per quanto il lettore possa apprezzare ed esperire un testo al punto da giungere a percepirlo come la scure kafkiana83, l’autore vive a contatto con la sua opera molto più a lungo. In maniera discontinua e talvolta controvoglia ma per mesi, spesso anni, egli frequenta determinati ambienti, finanche “persone” da lui create. Non solo: le sperimenta, le vede evolversi contribuendo alla loro evoluzione e, se dobbiamo dare credito a Tabucchi, egli diventa quelle persone:

Un libro, per uno scrittore (ma credo anche per il lettore), non finisce mai laddove finisce. Un libro è un piccolo universo in espansione. […] Io sono stato tutti i personaggi di queste lettere (ripeto: lo sono stato interamente e sinceramente, con tutto me stesso) senza mai esserlo davvero.84

L’identificazione dell’autore con il personaggio potrebbe comportare una difficoltà di distacco connessa all’automutilazione che il congedo comporterebbe; ma non è soltanto l’identità a caratterizzare il rapporto di uno scrittore con i suoi personaggi: essi possono essere percepiti come “persone”, come creature “vive”.

82 G.FERRONI, Dopo la fine, cit., p.12.

83 La famosissima e molto citata constatazione di Kafka si trova in una lettera a Oskar Pollack del 21

gennaio 1904: «Ma è bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in tal modo diventa più sensibile a ogni morso. Bisognerebbe leggere, credo, soltanto i libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente scriverli noi. Ma noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti dai boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi. Questo credo», F.KAFKA, Lettere, a cura di F. Masini, Milano, Mondadori, 1988, p. 27.

84 A.T

195 L’annotazione pirandelliana che segue palesa la percezione di personaggi come individui, talvolta invadenti e ossessivi ma pur sempre soggetti con i quali si crea un’interazione:

[c. 16* r] Ho affisso alla porta del mio studio un cartellino con questo: AVVISO

Sospese da oggi le udienze a tutti i personaggi, uomini e donne, d’ogni età, d’ogni condizione, che avevano fatto domanda e presentato titoli e documenti per essere ammessi in qualche novella o racconto. N.B. – Domande, titoli e documenti sono a disposizione di quei personaggi che, non vergognandosi di esporre in un momento

come questo la miseria dei loro casi particolari, volessero rivolgersi ad altri sciagurati scrittori, seppure ne troveranno.

__ __

M’è toccato di sostenere un’aspra discussione con uno dei più petulanti, che mi sta attorno da [c.16* v] parecchi mesi, per persuadermi che potrei trarre da lui e dai suoi casi un meraviglioso romanzo, che rifarebbe solide le fondamenta della mia fama seriamente compromessa dagli assalti della giovane critica contemporanea. Ho cacciato via dal mio studio a pedate, cinque o [100] sei volte, questo petulante, gridandogli che della fama, a me, non me ne importa un corno, che non sono mai andato appresso a nessuno né ho fatto mai nulla per procacciarmela, che anzi ho fatto di tutto, sempre, per alienare dall’opera mia le simpatie della maggioranza.85

Il pericolo della retorica è in agguato ma, se davvero esiste la possibilità che i personaggi possano essere avvertiti dal loro autore come “persone”86, allora è naturale

ipotizzare una difficoltà di recidere i legami instaurati, per fittizi che siano.

85 L. P

IRANDELLO, Taccuino segreto, a cura e con un saggio di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, 1997, p. 101.

86 Anche nel capitolo finale di L’universo del romanzo si legge che «Il romanziere si definisce volentieri

come un essere posseduto da personaggi che chiedono di essere messi al mondo e di cimentarsi in una storia» (R. BOURNEUF-R.OUELLET, L’universo del romanzo, cit., p. 199). Di seguito, vengono riportate alcune considerazioni di scrittori francesi pronunciatisi sull’argomento: «“Il personaggio diventa un essere ingombrante” (Bernard Clavel), a un dato momento “l’ossessione è troppo forte” (Robert Sabatier) […] “creo partendo da personaggi e li getto poi nel fuoco dell’avvenimento” (Emmanuel Roblès), “i miei personaggi entrano in me quanto io entro in loro” (A. Pieyre de Mandiargues)». (Ibidem).

196

I giganti della montagnadi Luigi Pirandello.

Pirandello cominciò a lavorare ai Giganti della montagna nel 19301, ma è presumibile che i personaggi del dramma gli avessero chiesto udienza molto prima se l’8 aprile 1929, in una lettera a Marta Abba, esprimeva il progetto di lavorare al suo “terzo e ultimo mito”, completando una trilogia cominciata con La nuova colonia e proseguita con Lazzaro:

La mia tentazione più forte sarebbe di mettermi a scrivere quest’altro ‘mito’, terzo ed ultimo. Ma bisogna che freni per ora questa tentazione, e vada al sodo. Ne vedo i quadri, uno più bello dell’altro; ne vedo i personaggi, tutti, a uno a uno; li carezzo con la fantasia: questa notte nell’insonnia il primo quadro era fatto da cima a fondo. Dio sa che sforzi ho fatto questa mattina, alzandomi, per lasciarlo lì e riaprire invece la cartella dove sono già 24 pagine dattilografate di O di uno o di nessuno.2

A partire da questa lettera, nell’epistolario, i riferimenti ai Giganti si fanno frequenti e ripetuti, costituendo una presenza costante che collide con lo stato incompiuto del testo così come lo si legge oggi.

È vero che il dramma potrebbe essere incluso nell’immaginaria categoria tipologica degli “incompiuti a causa della morte dell’autore”, ma è altrettanto vero che Pirandello licenziò e fece rappresentare molte opere dal 1930 in poi3, tenendo per

1 Cfr. M.G

UGLIELMINETTI, “Prefazione” a L.PIRANDELLO, La nuova colonia, Lazzaro, I

giganti della montagna, Milano, Garzanti, 2003, p. LXXIV. Da qui in poi il riferimento

bibliografico al volume sarà reso soltanto con il titolo del dramma ora in esame.

2 L. P

IRANDELLO, Lettere a Marta Abba, cit., p.122. Come informa, tra gli altri, Marco Manotta, un’anticipazione del dramma si trova poco meno di un anno prima su “La Stampa”, 11 settembre 1928: «…già nell’estate del 1928 abbozzava la trama di un nuovo dramma, che in un’intervista sulla “Stampa” dell’11 settembre ruotava per intero intorno allo sfortunato incontro della compagnia di attori con i Giganti». (M.MANOTTA, Luigi Pirandello, Milano, Mondadori, 1998, p. 115).

3 Oltre alla prima edizione completa delle Maschere nude pubblicata da Mondadori in 10 voll.

dal 1933 al 1938, tra le pubblicazioni in volume di questi anni si annoverano Questa sera si

recita a soggetto (Milano, Mondadori, 1930), Come tu mi vuoi (Milano, Mondadori, 1930), Trovarsi (Milano, Mondadori, 1930), La favola del figlio cambiato (Milano, Ricordi, 1933), Non si sa come (Milano, Mondadori, 1935). Cfr. Opere di Luigi Pirandello in Bibliografia a cura di Benito Ortolani, in Lettere a Marta Abba, cit., pp. 1516-1524. Si aggiungono la

197 sé i Giganti e non trovando il modo di completarlo. Questo rende difficile ipotizzare una carenza d’ispirazione, pertanto si dovrà piuttosto parlare di fissazione su quest’opera, la quale rappresenta un caso particolare per almeno due ragioni:

La prima: i toni con i quali Pirandello vi si riferiva erano entusiastici:

Ancora ho tanto da fare e da dire, da fare sbalordire il mondo; e tutti i bestioni saranno per l’eternità bollati dai miei “Giganti della Montagna”.4

Ho ripreso a lavorare con tanto fervore! ‘I giganti della Montagna’, Marta mia, saranno un lavoro veramente gigantesco. Ho pensato cose… cose… Ma non so come faranno a farsi rappresentare, non dico in Italia, ma anche qua… Cose grandi! prodigiose!5

Credo veramente ch’io stia componendo, con un gran fervore e una trepidazione che non riesco a esprimerti, il mio capolavoro, con questi “Giganti della Montagna”.6

La seconda: alcune rappresentazioni teatrali che del dramma sono state fatte nel tempo hanno tenuto in considerazione le indicazioni di Stefano Pirandello (a partire dalla prima rappresentazione in assoluto dei Giganti, il 5 giugno 1937 a Firenze, Giardino dei Boboli7), altre invece hanno considerato soltanto il materiale disponibile nell’autografo pirandelliano fermo al secondo atto.

È utile notare che, tanto in una circostanza quanto nell’altra, i Giganti sono stati trattati come un’opera compiuta: in un caso il rispetto del criterio filologico ha imposto di considerare l’autografo come non necessitante di integrazioni, nell’altra

pubblicazione nel 1931 di un’edizione riveduta del romanzo I vecchi e i giovani (Milano, Mondadori) e le seguenti pubblicazioni in rivista: primo atto de I giganti della montagna con titolo I fantasmi in “Nuova Antologia”, 16 dicembre 1931; Giuoca, Pietro in “Scenario”, II, 1 gennaio 1932; secondo atto del mito I giganti della montagna in “Quadrante”, novembre 1934; parte degli Appunti in “Nuova Antologia”, 1 gennaio 1936. Cfr. G.PULCE, Cronologia

delle opere e delle prime rappresentazioni, in L.PIRANDELLO, I giganti della montagna, cit.,

pp. XLVI-LV. Ho riportato soltanto le pubblicazioni in volume e in rivista, tralasciando le rappresentazioni teatrali. Non ho specificato i testi ai quali stava lavorando, di cui eventualmente si troverebbe notizia nella corrispondenza e nei taccuini.

4 L.P

IRANDELLO, Lettera a Marta Abba, cit., p. 390. Lettera 300415, 15 aprile 1930.

5 Ivi, p. 395. Lettera 300417, 17 aprile 1930. 6 Ivi, p. 640. Lettera 310210, 10 febbraio 1931. 7 M.G

UGLIELMINETTI, “Nota ai testi”, in L.PIRANDELLO, I giganti della montagna, cit., p.

198 l’indicazione di Stefano Pirandello è parsa necessaria e ha riempito un vuoto, completando l’opera dall’esterno.

In un’ottica che prevede la separazione delle funzioni “autore” e “opera”, la scelta di rappresentare i Giganti in due atti - così come di pubblicare il testo in volume senza la nota di Stefano, nell’edizione Oscar Mondadori - potrebbe coincidere con la volontà di far parlare l’opera, mentre la rappresentazione che include il terzo atto ricostruito - così come le edizioni in volume che aggiungono la “Nota” in appendice - farebbe parlare l’autore, nella persona del figlio8.

Questa osservazione sarebbe inappuntabile se non fosse che, nella sua

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