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Nei testi stampati, tutta l’enunciazione è a carico di una persona che è solita porre il suo

nome sulla copertina del libro e sul risguardo, sopra o sotto il titolo del volume […] In

molti casi, la presenza dell’autore si riduce al solo nome. Ma lo spazio riservato a questo nome è capitale: è legato, per convenzione sociale, all’impegno di responsabilità di una

persona reale.1

La constatazione di Lejeune palesa la ragione della presenza in questa trattazione di uno spazio dedicato al nome proprio dell’autore: esso non si riferisce ad una persona qualsiasi, ma ad una «persona che scrive e pubblica»2, autodefinendosi allo stesso tempo «persona reale e socialmente responsabile»3 e «produttore di un discorso»4.

Nel capitolo dedicato all’autobiografia si è stabilita l’importanza del nome proprio dell’autore nella classificazione di Lejeune. Nell’occuparmi dei processi agli scrittori, invece, ho rilevato come il nome proprio si riferisca tanto all’individuo “sotto accusa” presente a titolo legislativo nei fascicoli, quanto all’autore dei testi incriminati o censurati, recanti sulla copertina, in brossura e negli spazi appositi, l’indicazione onomastica relativa alla paternità dell’opera.

Lungi dall’essere una mera indicazione, il nome proprio è uno snodo importante nella trattazione, infatti, dopo una panoramica generale, verrà introdotto un nuovo nucleo tematico e il nome proprio fungerà da fulcro per il passaggio dai “luoghi di convergenza” tra autore-creatore e autore-uomo ai “modi di relazione” tra autore e opera.

1 P.LEJEUNE, Il patto autobiografico, cit., p. 22. 2 Ivi, p. 23,

3 Ibidem. 4 Ibidem.

108  Indicazione peritestuale necessaria o accessoria?

Nella complessa trama terminologica proposta da Genette, il nome dell’autore fa parte del cosiddetto peritesto, costituente, accanto all’epitesto, il complesso dell’apparato paratestuale, ossia l’insieme delle produzioni verbali o non verbali che «contornano» o «prolungano» il testo non solo per presentarlo, ma anche e soprattutto per «renderlo presente»5, ossia assicurarne la presenza nel mondo e la “ricezione” in

forma di libro.

Genette presenta il peritesto come uno spazio intermedio fra il testo e ciò che sta al di fuori, dunque zona non solo di transizione ma di vera e propria «transazione»6,

in cui ha luogo il primo e più esterno approccio tra testo e lettore, e che è utile a fornire non soltanto indicazioni superficiali sull’opera ma anche, in molti casi, modalità di fruizione specifiche.

Nel corso della storia, l’apparato peritestuale non ha sempre avuto la medesima importanza. La necessità di specificare il complesso di indicazioni relative al testo - e il nome dell’autore in particolare - è variata nel tempo, tanto che Foucault nel 1969 poté scrivere:

Vi fu un tempo in cui quei testi che oggi chiamiamo “letterari” (narrazioni, racconti, epopee, tragedie, commedie) erano ricevuti, messi in circolazione, valorizzati senza che fosse posta la questione del loro autore.7

Fino ad un preciso momento storico, infatti, l’anonimato non costituiva una difficoltà per il lettore, la cui frequentazione con il testo letterario era indipendente dalla conoscenza dell’identità dello scrivente.

Prima di entrare a far parte del peritesto, l’indicazione relativa all’autore era solitamente inscritta nel testo stesso, in incipit o in explicit - in questo modo sono pervenuti, ad esempio, i nomi di Esiodo (al verso ventiduesimo della Teogonia8),

5 G.GENETTE, Soglie, cit., p. 3. 6 Ivi, p. 4.

7 M.FOUCAULT, Che cos’è un autore?, cit., p. 10.

8 «Son esse, le Muse, che ad Esiodo un giorno insegnarono uno splendido canto, mentre pascolava gli

agnelli ai piedi del sacro Elicona». (ESIODO, Teogonia in ID., Opere, a cura di A. Colonna, Torino, UTET, 1977, p. 61).

109 Erodoto (nell’incipit delle Storie9), Plauto (negli unici due versi conservati del prologo

di Pseudolus10) - ma la sua eventuale assenza non scatenava necessariamente una

ricerca per stabilire la paternità dell’opera. Era anzi praticato, senza intento mistificatorio, quello che Genette definisce «anonimato di fatto»11, indipendente da decisioni specifiche e determinato perlopiù da carenza di informazione «permessa e perpetuata dall’uso»12.

Il fatto che non fosse determinante specificare informazioni accessorie fa pensare che, a differenza di oggi, le caratteristiche che garantivano il valore dell’opera fossero altre. Foucault ha alluso all’antichità come consueta e sicura garanzia di pregio, stabilendo, in riferimento ai testi, che «l’antichità li garantiva a sufficienza»13.

In realtà va considerato un altro aspetto, connaturato alla pratica scrittoria da un lato e all’attività di selezione e lettura dall’altro, almeno fino al Romanticismo. L’anonimato non disturbava il lettore perché non era l’identità dell’autore a stabilire il valore del testo bensì la sua possibilità di essere ascritto ad una categoria tipologica che ne indicava implicitamente qualità e caratteristiche, orientandone la fruizione: il genere letterario.

Prima che l’estetica crociana delegittimasse i generi letterari in nome della «singolarità di ogni opera»14 portando al culmine un processo inaugurato nel

9 «Erodoto di Alicarnasso espone qui il risultato delle sue ricerche storiche». (ERODOTO, Le storie.

Libri I-II. Lidi, Persiani, Egizi, a cura di F. Barberis, Milano, Garzanti, 2006, p. 11).

10 «Exporgi meliust lumbos atque exsurgier: / Plautina longa fabula in scaenam venit»; «Sarà meglio

che si drizzi su la schiena e pianti la baracca, perché sta andando in scena una lunga commedia di Plauto». (PLAUTO, Pseudolus, in ID., Le commedie, a cura di G. Augello, vol. II, Torino, UTET, 1975, pp. 750-751).

11 G.GENETTE, Soglie, cit., p. 41. Oltre all’anonimato di fatto, Genette rintraccia un anonimato di

convenienza, caratterizzante tutta l’epoca classica e riguardante personaggi di rilievo, come Mme de

Lafayette o La Rouchefoucauld, che preferivano non firmarsi per non degradarsi «firmando un’opera così plebea come un libro in prosa». (Ivi, p. 42). «Ma più in generale», continua Genette, «il nome dell’autore non appariva al di fuori del teatro e della poesia eroica, e molti autori, nobili o plebei, non si consideravano tenuti a dichiararlo, o avrebbero giudicato presuntuoso o inopportuno farlo» (Ibidem). Inoltre, Genette ricorda i casi di Diderot e Voltaire, che non firmavano i propri testi per timore di essere perseguitati dalla Chiesa.

12 Ivi, p. 42.

13 M.FOUCAULT, Che cos’è un autore?, cit., p. 10.

14 C.BENEDETTI, L’ombra lunga dell’autore, cit., p. 156. Croce rivendicava la libertà dell’artista, a

dispetto delle codificazioni. Rientrano in questo processo anche la ribellione illuminista e romantica, in ogni caso un’insofferenza nei confronti delle pretese normative. Con Croce si è giunti però a una effettiva teorizzazione del problema. In La critica letteraria. Questioni teoriche, egli si schierò

110 Settecento (ma di cui erano attive spie consistenti già dal Cinquecento, come nota Segre15), il genere letterario rivestiva funzioni precise rispetto alla scrittura e alla

lettura, selezionando, da un lato, ciò che poteva essere scritto e, dall’altro, ciò che ci si poteva aspettare di leggere16.

Come scrive Maria Corti,

il testo, salvo casi eccezionali, non vive isolato nella letteratura ma proprio per la sua funzione segnica appartiene con altri segni a un insieme, cioè a un genere, il quale si configura come il luogo in cui l’opera entra in una complessa rete di relazioni con altre opere.17

apertamente contro i generi letterari e il “filologismo”; successivamente giunse a considerare l’arte come “intuizione pura” in grado di rappresentare stati d’animo individuali e il genere letterario come categoria di valore conoscitivo, “pseudo-concetto” con valore puramente pratico-empirico ma non teorico o, come ha scritto Gnisci nel sintetizzare il punto di vista crociano: «puro nome avente una mera funzione nomenclativa e storiografica, inutile tuttavia a comprendere o a generare la creazione artistica» (A.GNISCI, Letteratura comparata, Milano, Mondadori, 2002, p. 88). Croce insomma critica l’idea che il genere possa essere utile a determinare il giudizio sull’opera, reputando il sistema dei generi utile alla classificazione ma nocivo al giudizio. Cfr. B. CROCE, Estetica come scienza

dell’espressione e linguistica generale. Teoria e Storia, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990; L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte, consultabile all’archivio di “Le Riviste di Benedetto

Croce” al sito www.bibliotecafilosofia.uniroma1.it.

15 Cfr. C.SEGRE, Avviamento all’analisi del testo letterario, cit., pp. 234-263. Scrive Segre: «Le

reazioni più radicali alla teoria dei generi son quelle che rivendicano la libertà creativa degli scrittori, per i quali i generi sarebbero assiemi di regole artatamente imposte dai critici. Già Giordano Bruno (Degli eroici furori, 1585) esclamava che “tanti sono geni [=generi] e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti”; e il Gravina si esprime con altrettanta energia nel Discorso sopra

l’”Endimione” (1692)» (Ivi, p. 255). In generale, dal dominio pressoché totale dei generi

nell’Umanesimo e il corrispondente irrigidirsi delle esigenze - da cui la “legge delle tre unità” - e la genesi di specie e sottospecie all’interno delle singole categorie, si è passati alla svalutazione totale dei generi a causa della loro fissità e rigidità, in nome di una visione che poneva l’accento sull’anima del poeta come sorgente unica. Così Herder poté considerare la poesia “voce dell’anima”, “voce della natura” o “voce dei popoli” e Goethe poté eludere la complessità della classificazione dei generi stabilendo che "Si dànno soltanto tre pure forme naturali di poesia: quella che racconta chiaramente, la entusiasticamente agitata e quella che agisce personalmente: lirica, epopea e dramma"; Schiller stabilì invece che il dramma fosse "poesia dell'uomo che ha una volontà", l'epica “poesia dell'uomo che contempla” e la lirica come “poesia dell'uomo che sente", in una differenziazione definitivamente ricondotta unicamente ai diversi stati d’animo del poeta, la cui fluidità e indefinitezza è impossibili da arginare. Cfr. A. ROSTAGNI, G. GABETTI, Genere letterario, in “Enciclopedia Italiana Treccani” (http://www.treccani.it/enciclopedia/genere-letterario_%28Enciclopedia_Italiana%29/).

16 Cfr. C.BENEDETTI, L’ombra lunga dell’autore, cit., p. 93. Segre riconosce al genere letterario una

«funzione nomenclativa», una «funzione progettuale» e una «funzione normativa». Cfr. C. SEGRE,

Avviamento all’analisi del testo letterario, cit., p. 234.

111 All’impostazione diacronica di Corti, va aggiunta quella atemporale di Genette, per il quale il genere letterario è un tipo di «trascendenza testuale» o «transtestualità»18, una combinatoria di tratti tematici, modali (modi d’enunciazione) e formali relativamente costanti e transitori che determinano la riserva di virtualità generiche in cui l’evoluzione del campo letterario compie la propria scelta.

In entrambi i casi, si riconosce al sistema dei generi letterari la funzione di ordinare i testi entro una cornice classificatoria che ne stabilisce qualità, caratteristiche e modalità di fruizione. Inoltre, dal momento che l’appartenenza ad un genere letterario non è determinata soltanto dalla presenza entro un’opera di determinati temi o motivi, ma anche dal rapporto tra l’organizzazione di questi temi e il piano formale, si delinea l’idea per cui il genere sia un vero e proprio “codice” o, come afferma Carla Benedetti, «un programma costruito su leggi molto generali che riguardano il rapporto dinamico fra temi e forme»19.

Il genere letterario permette in qualche modo di andare al di là del singolo testo: crea collegamenti con altri testi, genera o influenza scelte e aspettative e rappresenta una mediazione necessaria, orientando sia la produzione sia la ricezione; permette di ascrivere il testo ad una categoria più ampia che indica allo scrittore «possibili nessi tematico-formali» e «sentieri già tracciati da seguire, o, da cui deviare»20 (anche la

smentita del modello è una deviazione da un orientamento stabilito); suggerisce al lettore una corretta (o auspicabile) modalità di accostamento al testo, influenzando anche l’orizzonte di attese.

Per i contemporanei di Boiardo, l’Orlando innamorato era un’opera letteraria dotata di valore artistico non perché fosse scritta da lui ma perché recante le caratteristiche del poema cavalleresco. La letterarietà dell’Orlando innamorato, così come di ogni altro testo di natura artistica, era assicurata non dall’identità dell’autore ma dalla riconoscibilità in esso di tratti generici imposti dal genere letterario di riferimento, che ne garantivano in primo luogo la distinzione da altre pratiche verbali non artistiche e in secondo luogo l’appartenenza al genere, dunque la modalità con la

18 G.GENETTE, Introduzione all’architesto, trad.it. di A. Marchi, Parma, Pratiche, 1981, p. 69. 19 C.BENEDETTI, L’ombra lunga dell’autore, cit., p. 92.

112 quale doveva essere accostato: come testo letterario e non, ad esempio, come trattato filosofico o scientifico.

Si tratta della funzione metacomunicativa dei generi letterari, ossia la loro capacità di segnalare immediatamente l’appartenenza dell’opera ad una «regione ristretta»21 che implica un determinato tipo di approccio.

Finché vigente, il sistema dei generi prevedeva che ogni nuovo testo venisse incluso nel reticolo classificatorio e reso automaticamente riconoscibile al pubblico, al quale era così permessa una «ricezione apprezzativa»22.

Sapere che cos’era un genere letterario equivaleva, secondo Benedetti, a sapere che cosa fosse la letteratura. Si trattava di un «fatto di competenza del fruitore»23, in grado di riconoscere tratti comuni a più testi e, nondimeno, nell’adesione a determinati modelli, di un fatto di competenza dello scrittore.

L’inversione avvenuta dall’inizio del Novecento ha capovolto il paradigma vigente da secoli sovvertendone i termini. Le funzioni normalmente rivestite dai generi sono state a quel punto trasferite su un altro versante della produzione letteraria: la funzione-autore. Con Benedetti «si può sospettare che la funzione-autore abbia preso su di sé un compito che un tempo spettava al genere»24.

La conseguenza di una simile inversione è stata l’impossibilità di separare il valore artistico di un prodotto dal fatto di saperlo “d’autore”, delineando quello che Benedetti ha definito «rapporto condizionale tra la possibilità di attribuire valore d’arte a un oggetto e il fatto di supporlo prodotto da un’intenzione artistica»25.

Prima della svalutazione moderna dei generi letterari, specificare il nome dell’autore non era necessario perché non costituiva un criterio di giudizio, né la misura della letterarietà dell’opera, garantita invece da marche intrinseche e oggettive presenti nel testo, «somiglianze esterne»26 vincolate alla normativa e contrassegno dello statuto artistico.

21 Ivi, p. 94. 22 Ivi, p. 91. 23 Ivi, p. 96. 24 Ivi, p. 87. 25 Ivi, p. 97.

113 Diversamente, nella modernità, «il discrimine tra arte e non arte passa prevalentemente […] per la valorizzazione dell’intenzione autoriale supposta all’origine dell’opera»27, tanto che «non si dà opera d’arte in sé»28: essa viene costruita

dalla comunicazione artistica attraverso processi che richiedono un’attribuzione a un autore, ossia la supposizione dell’esistenza di un’intenzione artistica all’origine dell’opera.

Secondo Costanzo di Girolamo, non esistono connotatori di letterarietà e l’attribuzione di un testo alla categoria degli oggetti letterari è possibile soltanto con il ricorso alla materia e alla realtà extralinguistica:

La nozione di letterarietà non è una proprietà intrinseca al testo, ma va valutata nella sua relatività storico-sociale. Non esiste nessun connotatore specificamente letterario, né alcuna combinazione fissa di connotatori di vario tipo che si presenti come specificamente letteraria. E’ dunque sempre il pubblico che decide se un testo è letterario, e si prepara a percepirlo come tale, e quindi a valutarlo dal punto di vista del valore estetico. Il giudizio di valore, infatti, può scattare soltanto nel momento in cui, per una ragione qualsiasi, si assuma che un certo prodotto appartenga alla sfera degli oggetti artistici.29

Lo scarto sarebbe avvenuto, si è detto, all’inizio del Novecento, quando, con Croce, la delegittimazione delle normative avvertite come limitanti la libertà creativa comportò una svalutazione dei generi letterari. Va da sé che il valore artistico fosse, allora, inteso come «valore differenziale»30, ossia non più adesione ad un genere, quanto piuttosto deviazione da una norma predeterminata o da un canone in uso. Allo stesso modo, oggi, di fronte ad un’opera ci si chiede di volta in volta da quale intenzione artistica sia sorretta e in che cosa si differenzi dalle altre.

Se il “valore differenziale” costituisce motivo di pregio, di contro, la letteratura “di genere” ha assunto una connotazione negativa e il criterio di genere ha smesso di essere un marchio di letterarietà, cedendo il passo all’essere “d’autore”.

27 C.BENEDETTI, L’ombra lunga dell’autore, cit., p. 18. 28 Ivi, p. 19.

29 C. DI GIROLAMO, Critica della letterarietà, Milano, Il Saggiatore, 1978, p. 88. 30 Ibidem.

114 Per questo motivo, essendo l’autore «l’impalcatura a cui si appoggia [il] valore differenziale»31 di un’opera, è diventato necessario conoscerne il nome e quella che

un tempo era un’indicazione ritenuta superflua ha assunto una funzione più profonda, venendo a costituire un dato fondamentale e necessario poiché dotato di un ruolo specifico:

Sulla grande scacchiera della letteratura gli autori (isolati o in gruppo) segnano delle ‘posizioni’, incarnano delle scelte formali e di contenuto che hanno delle ‘motivazioni’, e che sono dotate di un valore differenziale entro al storia delle forme e l’avvicendarsi delle poetiche. Sono appunto tali motivazioni e tali differenze a creare collegamenti e aspettative, e in definitiva a generare strutture che orientano la fruizione.32

Tutto questo rende chiaro il motivo per il quale, un tempo tollerato come consuetudine o comunque ritenuto un fattore non disturbante, l’anonimato sia oggi percepito come un inconveniente cui riparare. Se, per un incidente o per volontà dell’autore, un testo giunge anonimo, il lettore (o lo studioso) si sentirà in dovere di impegnarsi in una ricerca dell’autore, poiché, come affermò Foucault: «L’anonimato letterario non ci è sopportabile; noi lo accettiamo solo come enigma»33.

L’intollerabilità dell’anonimato: Il giocatore invisibile di Giuseppe Pontiggia.

L’avversione per l’anonimato è un fatto singolare soprattutto se posto in relazione alla possibilità crescente di celare la propria identità dietro nickname e soprannomi virtuali scelti arbitrariamente e, in genere, esenti da qualsiasi legame con la realtà anagrafica.

31 Ibidem.

32 C. BENEDETTI, L’ombra lunga dell’autore, cit., p. 88. 33 M.FOUCAULT, Che cos’è un autore?, cit., p. 11.

115 Eppure oggi, in letteratura, il nome dell’autore è, si è detto, una sorta di “marchio” in grado di attribuire implicitamente una valenza al testo cui è riferito e la cui scelta da parte del lettore avviene sempre più in base all’identità dello scrivente.

Non stupisce dunque l’atteggiamento del protagonista del romanzo di Pontiggia, un professore universitario che, minato nell’orgoglio dalle parole durissime riservategli da uno scrivente anonimo in una lettera fatta pervenire alla redazione della rivista letteraria “Parola agli Antichi”, si impegna in una ricerca tormentata dell’autore della lettera, celatosi dietro un anonimato insopportabile.

Tutto sommato importa poco che, nel caso specifico, esista la possibilità che il professore sia motivato a rintracciare l’autore della lettera non tanto per l’intollerabilità intrinseca dell’anonimato, ma perché, come giustiziere di se stesso, egli miri a difendersi personalmente di fronte a colui che pubblicamente lo ha criticato screditandolo agli occhi di colleghi e studenti. Importa poco perché il fulcro della questione rimane l’incapacità di accettare l’anonimato, quali che siano le sfaccettature del caso contingente.

La necessità di stabilire un legame tra parole ed emittente, ascrivendo una qualsiasi emissione linguistica ad un principio causale imprescindibile è ciò che anima tanto il professore di Pontiggia quanto il lettore di opere letterarie e, in qualche caso, il filologo nell’attribuzione di un testo anonimo34.

Il professore del Giocatore invisibile sospetta dei colleghi e finanche degli studenti. La sua indagine procede per esclusione e lo mette in situazioni imbarazzanti che rischiano di comprometterne la reputazione più di quanto la lettera anonima non sia già riuscita a fare. Ad un certo punto, ad esempio, intrufolatosi nella redazione della rivista alla ricerca della versione cartacea della lettera recante presumibilmente una firma o, quantomeno, l’indirizzo di un mittente, viene scoperto dal custode, alla cui pietà fa appello per salvarsi da una denuncia. In seguito, impossibilitato definitivamente a stabilire l’identità del mittente attraverso indagini private tra i conoscenti, il professore tenta la strada della filologia: nella speranza che l’oggettività

34 Forse per il filologo sarebbe più corretto parlare di intenzione di giungere il più vicino possibile non

116 del mezzo gli permetta di giungere ad una conclusione soddisfacente, esamina attentamente lo stile dell’autore della lettera proiettandone il testo su una tela:

C’era qualcosa di frivolo e di vacuo nella domanda “E’ possibile?”. […] E anche l’aggettivo “incredibili” era eccessivo. Incredibile era un aggettivo da lasciare alla pubblicità. Oppure ai giovani. Da giovane, anche lui trovava quasi tutto “incredibile”. […] Che fosse un giovane poteva anche confermarlo l’avverbio “più” messo davanti a “incredibili”, come per introdurvi una graduatoria. Questo linguaggio inesperto, che

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