Un figlio che non mi chiama papà, che non piangerà per poco latte dato, che non crescerà perché finito. Ma che, in un certo senso, mi somiglia privo com’è dell’ombra sua che adesso è tra le braccia della mia. Figlio mio, rampollo bello, moccioso di Dio, quel Dio approssimativo che mi ti ha messo in braccio morto (Antonio Rezza)
§ 1. Una “pantomima non pervertita”: critica allo statuto rappresentativo dell’opus
Fare arte, per Nietzsche e Artaud, non equivale semplicemente a dare vita a un “prodotto” compiuto e ben fatto, che susciti approvazione e meraviglia nel fruitore. Paradossalmente, quello dell’arte non è tanto un paradigma, imperniato su una serie di principi estetici, di criteri fissi pre-stabiliti, quanto un movimento creativo, poietico che, lungi dal riguardare solo pochi settori dell’umano (il teatro piuttosto che la pittura, il cinema piuttosto che la scultura), è capace di rivoluzionare la vita, offrendo una visione globale dell’ente nella sua totalità. In questo senso, l’arte ha strettamente a che fare con la metafisica1, poiché si propone quale viatico per
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Sulla lettura di un Nietzsche metafisico o non metafisico, a seconda del senso attribuito a questa nozione chiave della filosofia, cfr., W. Müller Lauter, Volontà di potenza e nichilismo. Nietzsche e
Heidegger, trad. it. a cura di C. La Rocca, Edizioni Parnaso, Trieste 1998, p. 31, dove leggiamo:
«mettere in luce la concezione nietzschiana della metafisica è per me importante anche per confrontarmi con altre interpretazioni di Nietzsche. Non si potrà rendere giustizia a Nietzsche
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giungere a un’interpretazione generale della realtà, concepita nella sua totalità. In qualsiasi “fare artistico” ne va, quindi, di un rapporto tra un insieme nutrito di parti, inizialmente scollegate tra loro, e un’ipotetica visione integrale, ricompositiva, in perenne costruzione. In altri termini, parlare di arte in un’ottica metafisica significa, al contempo, chiarire in che senso questa possa essere definita un fenomeno squisitamente estetico2, ovvero analizzare il collegamento esistente tra la materia sensibile e la capacità rappresentativa dell’intelletto3. Ora, Nietzsche e Artaud mostrano di voler coltivare un’idea “altra” di arte, che si richiami e renda giustizia al significato greco del termine aistehesis. L’arte non è una branca “speciale” del sapere né, tantomeno, una modalità di conoscenza depauperata d’importanza rispetto a quella esclusivamente intellettuale, ma la chiave d’accesso a una visione superiore che palesa tutta l’insensatezza e i limiti del concetto tradizionale di verità. Questo vuol dire, forse, che l’apporto cognitivo che ci proviene dai sensi, in alcun modo, può servirci per aumentare il nostro bagaglio conoscitivo? Ciò che sentiamo ci inganna irrimediabilmente e va, di conseguenza, relegato nell’oscuro ambito del non- chiaro, del puramente illusorio? In realtà, quando Nietzsche afferma che alla “conoscenza” pertiene solo il misurare, il quantificare , mentre, di contro, tutte le nostre sensazioni ineriscono all’aspetto qualitativo delle cose, non vuole destituite di senso l’impresa gnoseologica, ma criticarne, più semplicemente, la versione classica, per cui si
insinuando che egli stesso ricade nella figura della metafisica da lui vista e criticata […] Parlo del pensiero non-metafisico di Nietzsche soltanto quando, nello svolgere una esposizione immanente, pongo a fondamento la sua concezione della metafisica. Se però si intende per metafisica in senso molto più ampio l’interrogazione sull’ente nella sua totalità ed in quanto tale, allora a mio modo di vedere Nietzsche va definito un metafisico».
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Laddove, con “estetico”, intendiamo richiamarci al concetto (cui seguiva, altresì, una pratica) greco di aisthesis. È solo a posteriori che all’originario “fare artistico” di Platone e seguaci, venne attribuito un nome, estetica, e un campo d’azione assolutamente delimitato, il bello. Per l’evoluzione del concetto, cfr., W. Tatarkiewicz, L’esperienza estetica: storia del concetto, in Storia dell’estetica, vol. I, trad. it. a cura di G. Fubini, Einaudi, Torino 1979, pp 339-364.
3 Cfr., a tal proposito, A. G. Baumgarten, Aesthetica, Frankfurt, Ioannis Christiani Kleyb 1750-1758,
trad. It. a cura di B. Croce, Bari 1936, § 424, p. 152, dove si distingue nettamente tra facoltà conoscitive superiori e inferiori (discrasia inaccettabile per l’estetica sia nietzscheana che artaudiana): «credo infatti che sia già chiaro che la verità metafisica, o se si preferisce oggettiva […] possa stare innanzi principalmente all’intelletto, in uno spirito, sino a far parte di ciò che esso percepisce in modo distinto, dando luogo alla verità logica in senso stretto, oppure possa stare unicamente o principalmente innanzi all’analogo della ragione e alle facoltà conoscitive inferiori, dando luogo alla verità estetica».
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conosce solamente per accumulo e riduzione del particolare all’universale4
. In definitiva, la verità dell’arte è prospettica, e, in quanto tale, non può essere conosciuta secondo il paradigma dell’adaequatio rei et intellectus5
, per cui vi sarebbe esatta corrispondenza tra la cosa e la sua rappresentazione. Ogni individuo può essere identificato all’altro, solo sul piano meramente quantitativo (per cui, ad esempio, una verità matematica possiede la stessa cogenza sia per il soggetto A che per quello B), ma, inversamente, non si dà verità qualitativa che non possa essere revocata in dubbio, trasformata, miscreduta, e così via. Le qualità altro non sono che interpretazioni, mediante le quali ciascun essere vivente cerca di “far presa” sul mondo, creando, così, una serie infinita di visioni (e mondi) possibili. L’arte è quel sentire cui segue, immediatamente, un fare, che ci rende diversi gli uni dagli altri. Tornando al rapporto, precedentemente evocato, tra insieme delle parti sconnesse (materia sensibile) e idea ipotetica di una visione totalizzante (conoscenza universale), possiamo dire che il quantificare sta dalla parte di quest’ultima, mentre il discriminare “per qualità” riguarda esclusivamente i nostri sentimenti. In una battuta, quando mi accingo a realizzare un’opera d’arte, è come se la scienza occupasse una posizione derivata, laddove la nostra capacità senziente “seleziona” (per sua conformazione, e non secondo un atto cieco di dominio6) gli elementi “utili” e quelli “superflui”, secondo quel movimento di assimilazione-rigetto di cui, nel precedente capitolo, abbiamo sufficientemente parlato. Allora, il discorso biologico-fisiologico, per cui si danno unità minime di coscienza che cooperano o si smembrano, può essere, senza alcuna difficoltà, traslato sul piano estetico. Anzi, di più, possiamo
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Cfr., a tal proposito, F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, cit., fr. 6 [14], nel quale emerge con chiarezza l’idea di una verità prospettica, basata sulle nostre percezioni valoriali, contrapposta a una verità universale, di ordine puramente quantitativo: «tutto ciò per cui soltanto ha senso la parola “conoscenza” si riferisce al campo in cui si può contare, pesare, misurare, alla quantità; mentre, inversamente, tutti i nostri sentimenti di valore (ossia appunto tutti i nostri sentimenti) inseriscono precisamente alle qualità, vale a dire alle nostre “verità”, alle verità prospettivisti che appartengono esclusivamente a noi e che assolutamente non possono essere “conosciute”. È di palmare evidenza che ogni essere da noi diverso sente altre qualità e vive quindi in un mondo diverso dal nostro».
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Cfr., F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888, cit., fr. 11 [120], dove leggiamo: «che tra soggetto e oggetto si instauri una sorta di rapporto di adeguazione; che l’oggetto sia qualcosa che guardato dall’interno sarebbe soggetto è un’invenzione dabbene (getmütig) che, a mio parere, ha fatto il suo tempo».
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affermare che il processo di creazione artistico, è un poiein immediato, che presenta le stesse caratteristiche di quello che, a partire dal concetto di forza, genera nuove forme di interscambio tra le microscopiche parti degli esseri viventi. La nozione chiave, qui, è quella di immediatezza. Difatti, a un primo esame della faccenda, s’avanza subito lo spettro d’un obiezione: com’è possibile disfarsi di quel medium rappresentativo che, nell’arte, sembra essere l’unica forma contemplabile per “esprimere” le sensazioni di colui che produce? Nel momento in cui mi reco, ad esempio, a teatro, mi si para dinnanzi un’organizzazione spettacolare, una rappresentazione, che tenta, con una serie di artifici scenici e retorici, di veicolare un contenuto di natura culturale, sociale, morale e così via, “imitando” ciò che avviene nella vita di tutti i giorni. Lo spettatore, così, “crede” di assistere a una “parata sentimentale” già bella e pronta, che non esige alcuno sforzo interpretativo profondo. In altri termini, è come se il regista decidesse quanto (ma, anche, quando) e cosa dobbiamo sentire. Tuttavia, non tutto quello che percepiamo ci si presenta in forma eminentemente rappresentativa7. Ed è proprio a partire da questa considerazione, e nel tentativo di smentire la vulgata di un’arte puramente mimetica, che il nostro discorso sul “fare artistico”, in Nietzsche e Artaud, prende le mosse. Ci soffermeremo sul ruolo che il teatro ha giocato all’interno del loro pensiero filosofico. Difatti, se Artaud è noto ai più soprattutto come rivoluzionario della “forma teatro” tipicamente occidentale, Nietzsche, in particolare negli scritti giovanili, si interressa alla teatralità e tragicità dell’esistenza umana, non disdegnando di prendere in considerazione esperienze teatrali specifiche, come quelle legate alla figura di Richard Wagner. Più nello specifico, cercheremo di mostrare come una forma di rappresentatività “altra” sia praticabile, una forma che
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Sull’idea di una “estetica altra” in Nietzsche, cfr., T. Andina, Il problema della percezione nella
filosofia di Nietzsche, Albo Versorio, Milano 2005, e, nello specifico, il paragrafo 2.1.4, pp. 83-93,
dove si discute la specificità dell’estetica nietzscheana all’interno del più vasto panorama storico degli studi su tale “disciplina”, nonché il ruolo della percezione umana nell’ambito della ricezione artistica. «Le cose, viste nel complesso, sono secondo Nietzsche il risultato di aggregazioni e composizioni; in pratica, si tratta di una sorta di rapporto “tutto/parti” di cui, per ragioni differenti, noi percepiamo prima e appercepiamo poi, soltanto brandelli sparsi e scomposti. Il che però non deve portare a concludere che l’unico elemento realmente appercepito sia la rappresentazione. Tutto – o per lo meno molto – sta nell’intendere il modo in cui le parti entrano nella descrizione dell’intero, diventando loro stesse, assai spesso, qualcosa di completamente differente. Una buona estetica lavorerebbe perciò proprio a dispiegare l’infinito che si depone in questa materia sensibile».
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riesca ad abolire quella distanza (dall’opera, ma, anche, da se stessi), cui ogni mediazione, in quanto separazione che instaura una differenza, sembra accompagnarsi. Sia in Nietzsche che in Artaud, nel caso del dramma teatrale, questo movimento di ricomposizione dello iato tra “messa in scena” e pubblico, sembra dispiegarsi, dando vita a una rappresentazione che rifiuta la “logica adultera”8
della trasposizione, in particolar modo del testo a presunte leggi teatrali prestabilite. In La
messa in scena e la metafisica, Artaud presenta chiaramente la sua proposta
innovativa di un’arte anti-mimetica, totalmente svincolata dall’asfittica logica della trasposizione, e, quindi, della rappresentazione:
«per “pantomima non pervertita” intendo la Pantomima diretta, in cui i gesti – anziché rappresentare parole, gruppi di frasi, come nella nostra pantomima europea […] rappresentano idee, atteggiamenti dello spirito, aspetti della natura, e ciò in modo effettivo, concreto, vale a dire evocando sempre oggetti o particolari naturali, al modo di quell’alfabeto orientale che rappresenta la notte come un albero sul quale un uccello ha già chiuso un occhio e incomincia a chiudere anche l’altro»9.
Innanzitutto, facciamo notare come Artaud preferisca utilizzare il termine “pantomima” (pantomime), piuttosto che spettacolo o rappresentazione, per alludere alla “messa in scena”. La scelta non ci pare causale: difatti, “pantomima”, è parola che viene usata per la prima volta in epoca augustea a Roma, ma, il cui lemma denuncia chiare origini greche. “Pantomima” rimanda, letteralmente, a un’azione totale (vedi il genitivo pantòs, che sta per “tutto”), compiuta, senza ausili esterni, dall’attore, dal mimo. In questo senso, pantomima, non allude tanto a una rappresentazione basata sulla riproposizione di segni convenzionali, ma indica, meglio, la capacità peculiare dell’attore di “tenere la scena”. Vi è, in altri termini, un rapporto fisiologico, corporeo, tra ciò che viene rappresentato e il rappresentante, proprio grazie all’abbondante uso della gestualità. Una pantomima diretta, la chiama Artaud, perché non prevede differimenti, trasposizioni, traslazioni, una pantomima in cui i movimenti dell’attore, pregni di un certo grado di ostensività, evocano, in modo
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Cfr., a tal proposito, U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso, cit., p. 70. Artioli sottolinea come il teatro moderno sia sottoposto a una sorta di “devozione all’occhio” (p. 71), per cui, anziché seguire la fugacità e plasticità delle forme, nel loro nascere e perire ininterrotto, lo sguardo si auto-compiace, dando luogo a una fissità prospettica, che inibisce qualsiasi possibilità di trasformazione o apertura.
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concreto, quindi corporeo, oggetti che racchiudono in sé, simbolicamente, tutta una serie di riferimenti, che non è necessario esplicitare, sciorinando allo spettatore lunghi e pretenziosi dialoghi. Il gesto condensa e spezza, nell’impercettibilità di un attimo, con l’icasticità propria dell’ideografia10, la farraginosità del linguaggio verbale che, secondo Artaud, può essere sostituito da una “poesia dello spazio”11
. Tuttavia, occorre rilevare che Artaud, sia quando chiama in causa le parole, sia quando si riferisce all’espressione di “atteggiamenti dello spirito”, usa il verbo
représenter, senza, così, adottare alcuna distinzione di carattere terminologico per
evidenziare la discontinuità tra i due diversi tipi di forma rappresentativa. Anche in questo caso, non si tratta di una scelta casuale o di una distrazione. Il pervertimento della pantomima non è dovuto tanto al fatto che vi sia una rappresentazione, quindi una mediazione, in generale, quanto al fatto che a tale forma rappresentativa sia stato attribuito carattere assoluto e fisso. In altri termini, perversa è quella rappresentazione che pretende di identificare, senza possibilità di sviamento, una porzione di materia sensibile (quantificabile) con un atto normativo intellettuale (qualitativo). Piuttosto, più modestamente, si potrà parlare di una rappresentazione che, a mo’ di membrana semi-permeabile, di medium trasparente, lasci fluire il rappresentato nel rappresentante e viceversa, mantenendo viva la possibilità della trasformazione, evitando, così, il pericolo della cristallizzazione. Una rappresentazione che non evochi, come qualcosa di irrimediabilmente perduto e sepolto in un passato remoto, il proprio oggetto, ma che ne faccia rivivere, non rinunciando al suo carattere mediante, l’intensità dell’esperienza diretta. Un’idea, questa, che Günter Figal, nel suo Nietzsche. Un ritratto filosofico12, attribuisce
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Artaud, quando parla di “valore ideografico” (ibidem.) di segni, gesti, atteggiamenti, si riferisce alla necessità di recuperare un certo grado di simbolismo delle parole. Tale operazione non coincide, a tutti gli effetti, con l’adozione di una poetica tipicamente simbolista.
11 Cfr., ivi., dove leggiamo: «si può così sostituire alla poesia del linguaggio una poesia dello spazio,
che si sviluppa appunto nel campo che non appartiene rigorosamente alle parole […] Questa poesia assai difficile e complessa assume parecchi aspetti: anzitutto quelli di tutti i mezzi di espressione utilizzabili su un palcoscenico, come la musica, la danza, la plastica, la pantomima, la mimica, la gesticolazione, le intonazioni, l’architettura, l’illuminazione e la scenografia».
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G. Figal, Nietzsche. Un ritratto filosofico, trad. it. a cura di A. M. Lossi, Donzelli Editore, Roma 2002, e, nello specifico, il paragrafo Mediazione dell’artista umano, nel capitolo intitolato Tempo ed
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all’arte dionisiaca. Nietzsche, secondo Figal, ha cercato di ripresentificare, nelle sue descrizioni, con il maggior grado di pathos possibile, la vitalità di un’esperienza diretta. Tuttavia, risultando impossibile percorrere a ritroso le fasi della storia, non si parlerà tanto di un ritorno arcadico all’immediatezza, quanto di una sorta di “immediatezza mediata”, dove la distanza tra atto e sua riproposizione si assottiglia a tal punto, da divenire quasi intangibile. È come se la forza dell’evento rievocato, di colpo, si sprigionasse nuovamente, manifestando tutta la sua carica simbolica. Un altro modo per leggere la separatezza, al di là della “logica adultera” della trasposizione, c’è e si chiama “simbolo”. Nietzsche parla di simbolo (Gleichniß), associandolo al concetto d’immagine, per evitare il rischio di sostanzializzare processi che, invece, sfuggono a qualsiasi definizione essenziale, lasciandosi cogliere solo per via metaforica, in un eterno rinvio. Così, quando voglio rappresentarmi qualcosa, attivo sempre anche un circuito, potenzialmente infinito, di rimandi: ad esempio, ciò che al tempo di Nietzsche si era ormai trasformato in musica, all’epoca dell’antica Grecia si “esprimeva” sottoforma di coro ditirambico. Sentiamo Nietzsche, a tal proposito, in un passaggio tratto dalla Nascita della tragedia, testo che, come cercheremo di esplicitare da qui a breve, può essere considerato quasi “gemello” del Teatro e il suo doppio artaudiano:
«nel ditirambo dionisiaco l’uomo viene stimolato al massimo potenziamento di tutte le sue facoltà simboliche; qualcosa di mai sentito preme per manifestarsi, l’annientamento del velo di Maia, l’unificazione come genio della specie, anzi della natura. Ora l’essenza della natura deve esprimersi simbolicamente, è necessario un nuovo mondo di simboli, e anzitutto l’intero simbolismo del corpo, non soltanto il simbolismo della bocca, del volto, della parola, ma anche la totale mimica della danza, che muove ritmicamente tutte le membra. In seguito crescono all’improvviso e impetuosamente le altre capacità simboliche, quelle della musica, come ritmica, dinamica e armonia. Per comprendere questo scatenamento totale di tutte le capacità simboliche, l’uomo deve essere già giunto a quel vertice di alienazione di sé che in quelle capacità vuole esprimersi simbolicamente: il ditirambico seguace di Dioniso viene quindi compreso solo dai suoi simili!»13.
Quando Nietzsche, qui, parla di “facoltà simboliche”, in realtà, si riferisce alla capacità rappresentativa dell’intelletto interpretante dell’individuo che, nel momento
essere e arte, p. 48 e sgg., dove emerge un’idea di rappresentazione non più legata
all’incomunicabilità, derivata dalla distanza tra rappresentato e rappresentante.
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in cui si trova a vivere un’esperienza particolarmente intensa (proprio come quella del coro dionisiaco), giunge a un grado di potenza tale, ovvero di sottile ricettività, che non gli consente più di trattenersi. La rappresentazione non è una mediazione che appesantisce la relazione tra materia sensibile (sonora, in questo caso) e soggettività, ma, quasi, un’esigenza, un crogiuolo di forze, così esplosive, che scalpita per poter giungere a manifestazione. Una rappresentazione, anche quella di Nietzsche, non pervertita, non corrotta dall’azione artificiosa del linguaggio o da altri coefficienti normativi, una rappresentazione che non istituisce la relazione, ma ne incarna l’effetto, il risultato. La rappresentazione simbolica non ha natura puramente illusoria, e Nietzsche, quando parla di un “annientamento del velo di Maia”, si riferisce proprio alla funzione liberatrice del simbolo, che risana la frattura tra realtà e percezione individuale della stessa, poiché coinvolge, in ogni suo più piccolo riposto e movimento, la nostra anatomia. In altri termini, non c’è iato tra ciò che deve essere rappresentato e ciò che effettivamente si rappresenta14, poiché il protagonista assoluto di questa “mediazione immediata” è sempre e solo il corpo, con tutte le sue molteplici facoltà simboliche. Se, nell’atto rappresentativo, a essere coinvolto è il corpo, piuttosto che la nostra volontà soggettiva, possiamo ri-vivere simbolicamente sulla nostra pelle, e in tutta la sua dirompenza, la semplice e diretta esperienza fatta in precedenza. Tentiamo di capire meglio, ora, perché si danno, in generale, rappresentazioni, e come si struttura il passaggio da una rappresentazione all’altra, ovvero come si trasformano le nostre capacità simboliche. Vi è, dice Nietzsche, un generale simbolismo del corpo (die ganze leibliche Symbolik), una sorta di deposito d’immagini, sempre in divenire, cui l’uomo attinge per interpretare la realtà. Ogni stato corporeo è comunicabile solo grazie all’azione di una serie d’immagini, poiché, ad esempio, «non ci sono tipi diversi di piacere, ma solo gradi e un’infinità di rappresentazioni che l’accompagnano»15
. Se abbiamo necessità di rappresentarci
14
Cfr., G. Figal, Nietzsche. Un ritratto filosofico, cit., p. 54, dove leggiamo: «la rappresentazione è simbolica proprio nel modo in cui la differenza tra ciò che è da rappresentare e ciò che è rappresentato non è più rilevante in essa. E proprio in questo senso Nietzsche comprende l’arte dionisiaca, laddove parla di uno “scatenamento totale di tutte le capacità simboliche” e del “vertice di alienazione di sé”. Qui accade quello stesso lasciarsi trascinare che ha luogo nella semplice esperienza, ma adesso nel medio dell’arte, nella danza e nella musica, e non nella vertigine della vita intemperante».