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Il corpo come parola: per una ri-naturalizzazione del linguaggio

IL LUOGO DELL’AMORE

Paolo Uccello si dimena nel mezzo

di un vasto tessuto mentale dove egli ha perduto tutte le vie della sua anima e fino alla sospensione della sua real- tà2.

Abbandona la tua lingua, Paolo Uccello, abbandona la tua lingua,la mia lingua, la mia lingua, merda, chi è che parla, dove sei tu?

Oltre, oltre, Spirito, fuoco, lingue di fuoco, fuoco, fuoco,

mangia la tua lingua, vecchio cane, mangia la sua lingua, mangia, ecc. Io sradico la mia lingua3.

SI.

In quel mentre Brunelleschi e Donatello si lacerano

1 Il manoscritto di questo testo è posseduto dalla Biblioteca letteraria Jacques Doucet. Con altri due

manoscritti (quello di Jet du sang e quello di La vitre d’amour), questo è contenuto all’interno di una cartella improvvisata fatta di un foglio doppio di 19x30 cm circa, di carta adoperata per usi commerciali (registri, minute, ecc.). Sulla prima pagina di questa cartella troviamo alcune parole vergate dallo stesso Artaud: «Trois contes de Antonin Artaud», vale a dire tre racconti, tre storie di Antonin Artaud. Più in basso è riconoscibile anche la data del primo febbraio 1925. Il manoscritto stesso, privo di titolo, si compone di due fogli doppi della medesima carta commerciale. Solo le pagine del “recto” sono utilizzate. Ciascuna delle quattro pagine scritte è stata numerata da Artaud, in alto a sinistra. Essendo gli altri due manoscritti entrambi datati, la data del 1 febbraio 1925 si riferisce sicuramente alla redazione di Paul les Oiseaux ou la Place de l’amour. Sappiamo inoltre, da una lettera inviata il 13 aprile 1924 a Edmond Jaloux, che, dello scritto in esame, esistevano già prima della data indicata altre due versioni, una presumibilmente distrutta dallo stesso Aratud, e, l’altra, conservata da Jaloux. La versione presente nel manoscritto della Biblioteca Doucet, quindi, rappresenta una terza stesura, la quale, rispetto al testo definitivo, pubblicato nella raccolta l’Ombilic

des Limbes, presenta alcune differenze. La nostra traduzione si basa sulla versione definitiva, ma, ove

sarà necessario, indicheremo le divergenze rispetto al testo primitivo.

2 Nel manoscritto leggiamo: «[…] et à la suspension dure et stable de sa réalité». L’aggiunta degli

aggettivi “duro” e “stabile” dona al periodo una maggior forza, colorando d’un intensa drammaticità lo stato di spaesamento di Paolo Uccello.

3 La versione primitiva suona: «[…] qui est-ce qui parle, feu, outre, outre dans l’Esprit, feu, feu,

mange ta langue, mange ma langue, chien, mange sa langue. J’ARRACHE MA LANGUE». Qui, il momento decisivo dello sradicamento della lingua viene ancor di più accentuato con l’ausilio del carattere tipografico.

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come dei dannati4. Il punto fermo e soppesato del litigio è tuttavia Paolo Uccello, ma che è su un altro piano rispetto a loro.

C’è anche Antonin Artaud, ma un Antonin Artaud in

gestazione, e dall’altra parte di tutti gli occhiali mentali, e che fa tutti i suoi sforzi per pensarsi in un altro posto che là (da André Masson ad esempio che ha tutto il fisico di Paolo Uccello, un fisico stratificato d’insetto o d’idiota, e catturato come una mosca nella pittura, nella sua pittura che

è come per reazione stratificata).

E d’altronde è in lui (Antonin Artaud) che Uccello5

si pensa, ma quando si pensa egli non è realmente più

in lui, ecc., ecc. Il fuoco6 dove i suoi ghiacci macerano s’è tradotto in un bel tessuto.

E Paolo Uccello continua la titillante operazione di questo sradicamento disperato.

Si tratta d’un problema che si è posto allo spirito di Antonin Artaud, ma Antonin Artaud non ha bisogno di problemi, egli7 è già abbastanza immerdato dal suo proprio pensiero, e tra gli altri fatti di essersi rincontrato in lui stesso, e scoperto cattivo attore, per esempio, ieri, al cinema, durante Sur

couf8, senza ancora che questa larva del Piccolo Paolo venisse a mangiare

4

Nel manoscritto, l’espressione “se déchirent comme des damnés” viene sostituita con quella “s’engueulent comme des forcenés”. Il verbo “engueuler” dà una coloritura più popolaresca all’espressione, in quanto rimanda al reciproco scambio di insulti, volgarità.

5

Nella versione primitiva troviamo: «[…] ou d’idiot sublimé et très pensant et pris […]». Notiamo l’aggiunta degli aggettivi “sublimato” e “pensante” che servono meglio a caratterizzare il corpo stratificato di Paolo Uccello, immerso tout court nella sua arte.

6 Nel manoscritto originale, sotto le numerose cancellature e modifiche, è possibile intuire la presenza

di un finale più ampio della frase: «

97 la sua lingua in lui.

Il teatro è costruito e pensato per lui. Egli ha ficcato un po’ dapper- tutto delle arcate e dei piani sui quali tutti i suoi personaggi

si dimenano come dei cani.

C’è un piano per Paolo Uccello, e un piano per Brunel- leschi e Donatello, e un piccolo piano per Selvaggia, la donna di Paolo.

Due, tre, dieci problemi si sono incrociati tutti d’un colpo con gli zigzag delle loro lingue spirituali e tutti gli spostamenti planetari dei loro piani.

Nel momento in cui il sipario si alza, Selvaggia sta morendo.

Paolo Uccello entra e le domanda come sta. La

domanda ha la capacità d’esasperare Brunelleschi che lacera l’atmos- fera unicamente mentale del dramma con un pugno materiale

e teso.

BRUNELLESCHI. - Porco, pazzo.

PAOLO UCCELLO, starnutendo tre volte, - Imbecille.

Ma dapprima descriviamo i personaggi. Diamo loro una forma fisica, una voce, un vestito.

Paolo Uccello ha una voce impercettibile, un’andatura d’insetto, una veste troppo grande per lui.

Brunelleschi, lui, ha una vera voce da teatro, sonora e ben in carne. Assomiglia a Dante.

Donatello è tra i due: san Francesco d’Assisi prima delle Stimmate.

8 La presentazione alla stampa di Surcouf, film in otto episodi di Luitz-Morat, ebbe luogo il 14

gennaio 1925. Artaud ricopriva il ruolo del traditore Jacques Morel. Jean de Mirabel, su

Cinémagazine del 23 gennaio 1925 scrive: «Artaud è notevole in una composizione perfetta di

98 La scena si svolge su tre piani.

Inutile dirvi che Brunelleschi è innamorato della donna di Paolo Uccello. Egli gli rimprovera tra le altre cose di lasciarla morire di fame. Si muore di

fame nello Spirito?

Perché noi siamo unicamente nello Spirito.

Il dramma è su parecchi piani e ha parecchie facce, esso consiste tanto nella stupida questione di sapere se

Paolo Uccello finirà per acquisire abbastanza pietà umana per dare a Selvaggia da mangiare, quanto nel sapere quali tra i tre o quattro personaggi starà più a lungo nel suo

piano.

Perché Paolo Uccello rappresenta lo Spirito, non precisamente

puro, ma distaccato.

Donatello è lo Spirito sopraelevato. Egli non guarda già più la terra, ma vi è ancora legato per i piedi.

Brunelleschi, lui, è del tutto radicato alla terra, ed è

terrestremente e sessualmente che desidera Selvaggia. Egli non pensa che a coitare9.

Paolo Uccello non ignora tuttavia la sessualità, ma la vede vitrea e mercuriale, e fredda come l’etere. E in quanto a Donatello, egli ha finito per rimpiangerla.

Paolo Uccello non ha nulla sotto la sua veste. Non ha che un ponte al posto del cuore.

C’è ai piedi di Selvaggia un’erba che non dovrebbe essere là10.

9

La lezione del manoscritto è identica, ma sotto le cancellature, è possibile leggere la lezione primitiva: «[…] qu’il désire Selvaggia qui l’ignore totalement. Il ne pense qu’au coït». Brunelleschi è attratto sessualmente da Selvaggia, la quale, però, lo ignora totalmente. Nella lezione originaria, Selvaggia, per la prima volta, è rivestita di una qualche connotazione e dotata di un qualche potere, in questo caso, quello di poter eludere le avances di Brunelleschi.

99

Tutt’a un tratto Brunelleschi sente il suo strascico gonfiarsi, dive- nire enorme. Egli non riesce a trattenerlo e se ne invola un grande uccello bianco, come dello sperma che si avvita in cerchi

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§ 4.1 Dall’impossibilità della significazione alla significazione impossibile

Tradurre un abbozzo di testo teatrale di Artaud non è, di certo, operazione semplice, perché non ci troviamo di fronte ad una rappresentazione canonica, a una messa in scena classica, dove le parole evocano significati preesistenti, facilmente sviscerabili con un attento lavoro d’analisi. Nulla di tutto questo. Le parole, in Artaud, non comunicano un significato, ma lo creano, ex novo, in un tempo e uno spazio reale che, lungi dal voler imitare la vita, cerca, in ultima istanza, di rifarla.

Paul les Oiseaux ou la place de l’amour è il manifesto (giovanile) della

disseminazione prospettica, della sospensione della realtà, della fuga della parola al di sotto del significato, della comunicazione impossibile. Innumerevoli forme, interpretazioni, sono possibili e lacerano, da parte a parte, il nostro pensiero, catturato in questo tragico “tessuto”, dove l’oggetto sfugge irrimediabilmente al nostro controllo, dove la realtà vive in una distanza apparentemente incolmabile. Allora, quasi come in pittura, tutte le linee di fuga convergono verso un unico punto focale, dove tutte le specificità si annullano e si riducono a una sorta di evanescenza. Tutto si consuma lungo quel percorso che dalle infinite diramazioni prospettiche conduce in seno alla forma semplice, a quello sguardo che risucchia, nel vortice del suo raggio di visione, tutte le possibilità reali. La pluri-dimensionalità della prospettiva ricade su se stessa e carica “l’occhio” di una responsabilità troppo pesante: gestire l’infinito. Cosicché, lo sguardo, giunto a saturazione, esplode e ricaccia le linee di fuga nella loro singolarità, e, in questo rigurgito, lo stesso occhio (il soggetto) viene scagliato fuori di sé e costretto a mescolarsi tra gli oggetti. Così, la parola, da strumento di potere (significativo) nelle mani del soggetto, viene “delirata” (proprio come accade allo sguardo) e perde la sua funzione mediatrice, per aprirsi alla dimensione dell’immediatezza:

«il grido “aiuto” è un segno che significa convenzionalmente “richiesta di soccorso”. Si può puntare al significato, operando affinché la parola che lo supporta sia articolata nel modo più chiaro e comprensibile; oppure si può puntare sotto il significato, a vari livelli […] Si può lavorare a rendere efficace il segno, intervenendo- se se ne possiede la scienza- sulla forza magica del grido, in modo che esso produca il suo effetto senza mediazioni semantiche

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o emotive o poetiche, ma direttamente per forza di magia. Operativamente, magia vuol dire immediatezza»1.

Paul les Oiseaux ci mostra il conflitto tra il pensiero e il corpo, tra lo sguardo

mediatore e l’immediatezza della prospettiva, tra la parola già significativa e la parola che, il significato, deve inseguirlo, ritrovarlo, ricrearlo. Lo spazio teatrale, così, si trasforma nello spazio d’azione della parola, in quell’atmosfera più che reale, dove si gioca una partita privata, quella tra sanità e malattia mentale, possibilità di dire e condanna al silenzio (che investe, nello specifico, Artaud), e, una pubblica, ben più importante, tra Essere e Nulla. Si tratta di strappare lembi di articolazione al pensiero, per evitare la caduta nell’abisso, nell’impossibilità della significazione2

. Artaud è ossessionato dal mito di Paolo Uccello, nella misura in cui è ossessionato da se stesso e, in quest’abbozzo di testo teatrale, le parole, da rappresentative, si fanno carnali e diventano “drammatiche”, suturando la ferita tra pensiero e messa in scena di quest’ultimo. L’azione del pensiero prende corpo e si offre allo sguardo, ma, ogni azione è anche, sempre, una perdita, uno spaesamento, una sospensione della realtà, come emerge dalle prime battute del nostro testo.

I piani si confondono, testimoniando lo sperdimento in atto, le parole s’intrecciano, si mescolano, accorciando lo iato tra soggetto e oggetto, sovrapponendo i livelli sui quali i personaggi esistono. Artaud, rivolgendosi al se stesso travestito da Paolo Uccello, si “intima” di abbandonare la lingua3, la significazione ordinaria. Il delirio prospettico, qui, è già pienamente in atto: chi è che parla, si chiede nervosamente Artaud, a chi appartengono le parole?

1

F. Ruffini, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, il Mulino, Bologna 1996, p. 10.

2

Cfr., a tal proposito, C. Pasi, La comunicazione crudele. Da Baudelaire a Beckett, Bollati Boringhieri, Torino 1998, e, nello specifico, p. 93: «nello stato di panico che acuisce la minaccia di una perdita totale, tutto l’essere sembra tendersi a fissare anche un embrione di espressione, una volta strappato alla morsa del silenzio. Qui è in gioco la sopravvivenza stessa, l’unica possibilità di non scomparire del tutto. Quelle forme stentate, sfilacciate, lacunose che si osa rivelare nella cornice letteraria della poesia, diventano allora le uniche tracce, i segni di una sofferenza mentale che, ai bordi della catastrofe, non si rassegna alla cancellazione […] È un tentativo di guarigione attraverso il quale tutto il corpo è investito».

3

L’alternarsi violento e ritmato degli aggettivi possessivi (“la mia lingua”, “la tua lingua”, ecc.) suggerisce, non solo, l’idea dello spaesamento e della sospensione, ma, anche, quella della s- possessione. La lingua non è né mia, né tua, né sua, non è patrimonio neanche dell’umanità, ma è un fiume di significati che ci precedono e di cui non siamo gli inventori.

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Uno dei punti più alti del testo, lo troviamo, però, poche righe più avanti: “io sradico la mia lingua”, afferma risoluto Artaud. Il verbo francese arracher indica proprio il movimento dello svellere, dello strappare dalle radici. Il “oui” che suggella la precedente presa di posizione rinvia all’accettazione della perdita, alla consapevolezza della necessità del momento del “solve”, dove il punto di vista si diluisce in una serie infinita di rivoli di senso, dove l’io si destabilizza e il pensiero cozza contro il muro di gomma dell’assolutezza4

.

Artaud vive a stretto contatto con i personaggi che tenta di raccontare, è lì, in mezzo a Brunelleschi e Donatello, ma non come individuo già completamente formato, bensì come embrione, uomo in gestazione, spirito in perenne costruzione. Un Artaud in fieri, quindi, perché la sua lingua, i termini di cui dispone non sono in grado di soddisfare pienamente i suoi movimenti di pensiero:

«tutti i termini che scelgo per pensare sono per me T E R M I N I nel senso proprio della parola, vere terminazioni, risultati dei miei [parte mancante nel manoscritto] mentali, di tutti gli stati che ho fatto subire al mio pensiero. Sono davvero L O C A L I Z Z A T O dai miei termini […] Sono davvero paralizzato dai miei termini, da un susseguirsi di terminazioni. E per quanto in quei momenti il mio pensiero si A L T R O V E, posso solo farlo passare per quei termini, per quanto contraddittori, paralleli, equivoci possano essere, pena in quei momenti il cessare di pensare»5.

Le parole sono il precipitato del pensiero, le sue propaggini, ma, al contrario di quanto ci si possa aspettare, esse non rappresentano il risultato maturo e definitivo dei processi mentali, bensì l’unico escamotage, l’ultima ancora di salvezza per evitare il naufragio nel mare dell’indicibilità. Per quanto, come dice Artaud, il pensiero sia sempre altrove rispetto a ciò che l’individuo enuncia, sempre oltre le possibilità della lingua, sempre più profondo di tutto ciò che può essere detto, l’uomo non può far altro che servirsi delle parole a sua disposizione (nonostante il loro carico di imprecisione ed equivocità) per esprimerlo, per farne filtrare, seppur

4 Cfr. U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso. Saggio su Antonin Aratud, op. cit., p. 18,

dove leggiamo: «Il tema di Paolo Uccello […] fa precipitare nel vivo della conflittualità scenica il doppio statuto sotteso ai tòpoi del nulla e della sospensione, negativo, nel senso di lacerazione interiore, di frantumazione dell’io e di perdita della continuità del pensiero, positivo, nel senso di abbandono della prigione dell’individualità per un tuffo nella più vasta vertigine cosmica […] L’orrore della perdita, il dramma di un pensiero che non si possiede integralmente, è ciò che unisce Paolo Uccello ad Artaud».

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impalliditi, i contenuti. L’Artaud in gésine (in formazione, gestazione) si sforza, come visto nel testo, di pensarsi sempre in altro posto, ma, quando si pensa, non è già più lui, piuttosto il suo doppio, o, meglio, i suoi infiniti doppi. La proliferazione di piani, la moltiplicazione dei personaggi, l’intrecciarsi di più problemi (“due, tre, dieci problemi si sono incrociati tutti d’un colpo”), tutto rinvia all’immediatezza del farsi, alla performatività della messa in scena, o, forse, dovremmo dire, della scena in atto. È un dramma mentale, quello di Paolo Uccello, un dramma a più dimensioni, più facce, come sottolinea Artaud, dove il pensiero è continuamente sollecitato, “titillato” e chiamato ad uscire fuori di sé. È a questo punto che si pone il problema del linguaggio, che si solleva la questione della parola. Artaud non vuole rinunciare

tout court alla comunicazione, intimamente aspira a ricomporre i cocci di

un’originaria relazione perduta, segretamente sa di essere un “ponte”, poco strutturato e inaffidabile, ma, pur sempre, un passaggio, una via, un sentiero. Un ponte che, idealmente, si lancia dalla sponda del possibile per approdare a quella dell’impossibile. Non si tratterà, tuttavia, di decretare l’impossibilità assoluta della significazione, ma, piuttosto, di giungere a una “significazione impossibile”, laddove alla chiarezza razionale subentra la convulsione istintuale, alla spiegazione l’inconcepibilità dell’impensato:

«impossibile non nel senso di una rinuncia accettata, ma di una esasperazione dolorosa e insormontabile. Questa esasperazione, non posso in alcun modo definirla. Se posso parlarne è attraverso una deviazione che chiamo la deviazione poetica»6.

Nel momento in cui il fantasma dell’impossibilità della significazione si avvicina e ci conduce sull’orlo dell’abisso (silenzio), occorre gestire, domare l’impossibile, e, paradossalmente, percorrerne coraggiosamente tutta la drammaticità. Seguire il crinale dell’esasperazione fino al limite, laddove il dominio della chiarezza espositiva, il “giorno” della definizione, lascia il posto alla “notte” della poesia. Del labile confine che separa il dicibile dall’incomunicabile, se ne può parlare solo a patto di “cambiare strada”, deviare.

6

G. Bataille, Notes a L’Impossible, in Oeuvres completès, Gallimard, Paris 1971, III, p. 514 (traduzione mia).

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La poesia, allora, lungi dal rappresentare una modalità settaria e privilegiata di scrittura, un dolce e amabile rifugio per spiriti liberi, incarna, di contro, allo stesso tempo, lo stadio ultimo di un processo degenerativo del linguaggio e la sua unica ancora di salvezza. Tornando a Nietzsche, potremmo leggere la questione in termini di indebolimento-rafforzamento, malattia-salute. Non si dà progresso, evoluzione, nella vita così come nel linguaggio, senza degenerazione, dissoluzione.

La poesia, intesa come continuo poiein, perenne creazione, è il linguaggio degli stati estremi, quell’eccezione che, proprio come la metafora, si è normalizzata, sostituendosi alla significatività statica del linguaggio ordinario. Il movimento artaudiano del solve et coagula, in Nietzsche si risolve nella circolarità tra Entartung e Ausnahme, tra degenerazione ed eccezione. Per meglio dire, il momento della “caduta”, quando ci scontriamo con i limiti di un linguaggio che non riesce a soddisfare né le nostre dinamiche pensanti e desiderative né tantomeno le nostre infinite modificazioni istintuali, rappresenta quell’apparente eccezione che, in realtà, veste i panni della regola. Questo significa sradicare la propria lingua: leggere la degenerazione come possibilità di significazione, fonte di rigenerazione.

Così Artaud, nella sua scrittura teatrale, fa rivivere tutta la problematicità del rapporto tra pensiero e linguaggio, rappresentazione e azione, forzando la struttura stessa delle parole che, solo se liberate dal giogo della comune significazione e riportare alla loro origine poetica (creativa), possono, non tanto porre rimedio al problema, quanto reiterarlo, fino all’esasperazione, moltiplicando a dismisura la portata prospettica dell’azione e le identità dei personaggi. L’atto stesso dello scrivere, più che la parola in se stessa, diventa la condizione di possibilità dell’impossibile, ovvero la modalità d’apertura al fare poetico. Una scrittura che non è un ri-ferire, che non è una copia fedele della realtà.

Dall’impossibilità della significazione alla significazione impossibile, dai limiti del linguaggio ordinario alla libertà della poesia, dalla scrittura come trascrizione alla scrittura come escrizione, dal pensiero metafisico al pensiero del di sotto, dal monopolio del soggetto al deposito creativo insito nelle parole stesse.

Una parola che si fa carne, perché è proprio grazie al corpo, con tutto il suo carico istintuale e desiderativo, che la parola può persistere.

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CAPITOLO II

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