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Una soluzione d’emergenza: l’auto-organizzazione del Sé

Corpo e mente: il continuum dell’esistenza

4. Una soluzione d’emergenza: l’auto-organizzazione del Sé

Nietzsche e Artaud, come visto, superano ogni forma possibile di dualismo metafisico e gnoseologico, anche se salvano una nozione di “doppio”. Il loro merito è quello di aver ricondotto, in una sorta di iperrealtà, sia il possibile che l’attuale, cancellando, così, la presenza di due piani di realtà differenti. Non si tratta, quindi, semplicemente, di un rovesciamento di prospettiva, per cui, dove comandava la coscienza, adesso, comanda il corpo, ma di un “riassorbimento” della mente all’interno dei processi fisiologici. Posto ciò, resta da capire come si effettui questo “riassorbimento”, che nulla ha a che vedere con una prospettiva riduzionista. In quest’ultima parte del capitolo proporremo una lettura particolare di Nietzsche e

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Artaud, non intendendo dare alcuna risposta definitiva, ma limitandoci a suggerire una possibile ipotesi di studio. Dopo aver accertato la struttura plurale della coscienza, esplorato i processi fisiologici che portano alla sua ri-costruzione, mostrato come un Sé sia contemplabile solo come simulacro che si rigenera di continuo, adesso dobbiamo interrogarci, più analiticamente, sul rapporto effettivo che mente e corpo intrattengono. Non siamo tanto alla ricerca di definizioni, che in Nietzsche e Artaud non abbiamo e non possiamo trovare, ma di un’ipotesi argomentativa seria che ci aiuti a capire l’importanza del carattere rivoluzionario e pionieristico delle loro filosofie, anche per i successivi studi di filosofia della mente e della cognizione. Come detto, non abbiamo alcuna pretesa di esaustività, e, di conseguenza, prenderemo in esame solo determinati aspetti del discorso. Tuttavia, operiamo una precisa scelta metodologica: leggere Nietzsche e Artaud con la lente d’ingrandimento dell’emergentismo152

, tentando di rispondere ad alcune domande: cosa intendiamo per fenomeno emergente? possono esistere fenomeni del genere? gli stati mentali sono emergenti rispetto a quelli fisici, cerebrali? come comunicano la mente e il cervello?

Il concetto di “emergenza” nasce molto presto all’interno della storia del pensiero, anticipando, di gran lunga, l’avvento degli studi di filosofia della mente e della cognizione. Il termine compare, per la prima volta, nel testo Problems of Life and

Mind153 del filosofo positivista George Lewes, il quale pare riprenderlo, a sua volta, addirittura da John Stuart Mill, che nel suo System of Logic154 aveva distinto tra “effetti omopatici” ed “effetti eteropatici”. I primi sarebbero quelli risultanti da una combinazione (secondo il cosiddetto Principio di Composizione) di cause che è esattamente identica alla somma dei loro effetti; i secondi, invece, riguardano quei fenomeni non riducibili alla somma delle loro parti, e che, quindi, ci dicono qualcosa in più rispetto alle semplici relazioni tra i singoli elementi. Lewes, sulla scorta di questa ripartizione proposta da Mill, sostituisce a “effetto omopatico” il termine

152

Per una ricognizione generale sulla teoria, cfr., A. Paternoster, Introduzione alla filosofia della

mente, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 75-101.

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G. H. Lewes, Problems of Life and Mind, Turbner & co., Londra 1875.

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“risultante” e a “effetto eteropatico” proprio “emergente”. Un fenomeno emergente, tuttavia, non disconosce affatto il terreno da cui proviene, l’humus che lo alimenta, vale a dire il sistema nervoso, l’insieme delle proprietà fisiologiche cosiddette inferiori; più semplicemente, non si riduce, per banale composizione, alla pletora di impulsi provenienti dal corpo, organizzati sotto forma di istinti, ma ci fornisce qualche informazione in più. In altri termini, il mondo degli affetti, nel suo infinito gioco di incontro-scontro tra forze contrapposte, così come quello biologico, con quello che abbiamo chiamato “circuito cooperante” tra unità minime senzienti, danno origine ai fenomeni più schiettamente mentali, ma non possono prevederne in anticipo la natura. In questo senso, si potrebbe subito incappare in un malfunzionamento dell’ingranaggio emergentista: se i fenomeni emergenti, infatti, non risultano prevedibili sin dal livello corporeo, allora cosa hanno a che fare con la vita, risiedono forse in una realtà ultra-fisica? Tale obiezione non fa altro che ricordarci che esiste sempre il rischio di una ricaduta nell’antico dualismo, nell’atavica contrapposizione tra una prospettiva eminentemente vitalista e una spiritualista, determinista, nel senso tradizionale del termine. La soluzione al problema non sta certo nell’eliminativismo155

, per cui gli stati mentali emergenti altro non sarebbero che meri epifenomeni, quindi superficiali e superflui, assolutamente prevedibili sin dal loro stadio fisiologico. Una via per superare quest’apparente impasse potrebbe essere la seguente: concepire, tanto gli stati corporei, quanto quelli mentali, non alla stregua di strutture assolutamente indipendenti, univoche, auto-referenziali, ma come fenomeni, più o meno maturi, associati al susseguirsi e combinarsi di diverse fasi organizzative, sia a livello inferiore che superiore. La parola-chiave, qui, è “organizzazione”. L’emergentismo, infatti, si propone come una sorta di teoria “aperta”, capace di accogliere le frequenti trasformazioni cui si accompagnano i livelli “imprevedibili” di organizzazione, nonché di fornire una visione allargata della realtà, che ricomprenda tanto il mondo inorganico, quanto quello organico. Una visione olistica, quindi, in cui, appunto, non vi è riduzione né alla dimensione fisica né a quella puramente mentale, ma una

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continuità, una processualità, dove tutte le attività, siano esse di natura corporea che di natura spirituale, cooperano tra loro per “creare” livelli di complessità sempre crescenti all’interno dell’organismo.

Come si interseca questo discorso con le posizioni di Nietzsche e Artaud sul tema della coscienza e sul suo relativo rapporto con la sfera corporea? Per quanto riguarda Nietzsche, come suggerisce Abel156, l’organismo si presenta come Leib, ma, allo stesso tempo, anche come Interpretation. Ciò vuol dire che le attività intellettuali sono strettamente collegate a quelle corporee, in un circuito di cooperazione che non cessa un attimo di smembrare le parti dell’organismo, cestinare alcune “cattive” interpretazioni, per poi riorganizzarne velocemente il sistema relazionale. Si tratta di una co-evoluzione di livelli inferiori e superiori che, quando giunge a una certa complessità, fa “emergere” fenomeni nuovi, come i sentimenti, i pensieri, la mente stessa. Quando Nietzsche ci mette in guardia dal pericolo di una concettualizzazione, di un irrigidimento delle parole in pensieri fissi, in realtà, sta predicando la necessità di non spezzare questo movimento co-evolutivo157 tra corporeo e mentale, che fluidifica ciò che rischia di cristallizzarsi. Tuttavia, la nozione chiave, all’interno dei testi di Nietzsche, che ci fa propendere per una lettura emergentista del suo pensiero, è quella di Selbstregulirung158, per cui si dà un’auto-regolazione, un’auto-disciplina dell’organismo, che coinvolge sia la sfera mentale che quella corporea.

«L’uomo come essere organico (qui mirando soltanto al mondo interno!), ha istinti di nutrizione (avidità), istinti di espulsione (amore), a cui appartiene anche la rigenerazione, e al servizio degli istinti un apparato di autocontrollo (intelletto); rientrano in ciò l’assimilazione del nutrimento, degli avvenimenti, l’odio, e così via»159

.

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Cfr., G. Abel, Nietzsche. Die Dynamik der Willen zur Macht und die ewigw Wiederkehr, New York- Berlin, Walter der Gruyter 1998.

157 Sul rapporto tra evoluzione e fenomeni emergenti, cfr., C. L. Morgan, Emergent Evolution,

Williams and Norgate, Londra 1923.

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Il termine compare 10 volte nell’opera nietzscheana, in un lasso di tempo che va dal 1881 al 1886. Di seguito i riferimenti di tutte le occorrenze: Frammenti postumi 1881, fr. 11 [130], 11 [182], 11 [200], 11 [243]; Frammenti postumi 1883, fr. 24 [36], Frammenti postumi 1884, fr. 25 [179], 25 [426], 26 [272]; Frammenti postumi 1885, fr. 40 [37]; Al di là del bene e del male, § 36.

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L’apparato di autocontrollo, citato da Nietzsche, incarna quel livello di auto- organizzazione dell’essere vivente, che sottende alla formazione di fenomeni emergenti. Non è di secondaria importanza notare, qui, che la rigenerazione (Regeneration) viene citata quale istinto di espulsione, quindi come fase precisa di un processo di auto-organizzazione interna. Più in generale, da una parte, abbiamo gli istinti, sia quelli attivi (come l’avidità), sia quelli reattivi, resistenti, che prevedono il rigetto (come l’amore, da intendersi nel senso del dispendio, della gratuità della perdita), mentre, dall’altra, abbiamo l’intelletto, il Selbstregulirung, che, dice Nietzsche, è “posto al servizio” degli istinti (im Dienste der Triebe). Così, l’avidità si trasforma in assimilazione del nutrimento solo grazie all’azione dell’intelletto, il quale, però, è un sistema di autocontrollo che, in assenza degli istinti, girerebbe assolutamente “a vuoto”. Subiamo l’impulso dall’esterno, ma, successivamente, lo rielaboriamo internamente, dando luogo a fenomeni imprevedibili, perché generati da un sistema di auto-regolazione che è, allo stesso tempo, un motore creativo.

Sentiamo, a tal proposito, ancora Nietzsche:

«ogni essere organico che giudica, agisce come l’artista: da singoli stimoli ed eccitazioni crea una totalità, tralascia molte cose singole e crea una semplificazione, eguaglia e afferma la sua creatura come esistente. Ciò che è logico è l’istinto stesso, il quale fa sì che il mondo scorra logicamente, conformemente al nostro giudicare. L’elemento creativo (assimilante, selezionante, trasformante), l’elemento che si autoregola e che espelle»160.

Il fatto che Nietzsche rimarchi la logicità dell’istinto stesso, altro non vuol dire, che esiste, già sul piano degli affetti, delle reazioni fisiologiche, un’organizzazione autonoma e coerente che “fa sì” che il mondo stesso, nel suo sviluppo, risponda a criteri di coerenza. Qui, la co-evoluzione tra ambiente esterno e la dimensione auto- regolatrice dell’organismo stesso, nonché tra pensiero (il nostro giudicare) e l’insieme delle piccole eccitazioni, risulta assolutamente palese. Siamo sistemi biologici aperti161 che, dati i continui scambi energetici con l’ambiente, non possono

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Ivi., fr. 25 [333].

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La definizione è di Ilya Prigogine, per cui gli esseri viventi, in quanto sistemi aperti, possono raggiungere livelli indefiniti di complessità, alla quale si accompagna, però, una richiesta sempre crescente di energia, necessaria all’organismo per riadattarsi a nuove situazioni. Questo ci rende dei “sistemi dissipativi” perché un essere vivente reagisce alle perturbazioni esterne, mutando il proprio grado d’entropia, ovvero la propria organizzazione interna creativa (cfr., I. Prigogine, G. Nicolis, La

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raggiungere l’equilibrio termodinamico, pena l’indebolimento, fino alla cancellazione totale, del principio vitale. Il Selbstregulirung, come si arguisce dal passo, agisce come elemento creativo che seleziona cosa far entrare nell’organismo e cosa disperdere nell’ambiente. Il nostro intelletto, quindi, lungi dall’essere una facoltà statica e asettica, assume le fattezze di una sorta di organo creativo che, plasmando gli stimoli ricevuti, crea forme nuove di organizzazione interna, facendo raggiungere all’organismo livelli di complessità sempre più alti. In una battuta, il pensiero si fa tanto più sottile e profondo, così come il sentimento, tanto più la capacità creativa dell’intelletto ha fatto un buon lavoro sugli elementi estranei provenienti dall’ambiente esterno, dosando con cura (per sé e per l’elemento altro)162

assimilazione e dispersione. L’intelletto, il Selbstregulirung, quindi, è quella Gestalt cui si associano fenomeni emergenti (come il pensiero, il sentimento, e così via), il cui carattere innovativo dipende dalla composizione e scomposizione dei molteplici centri di forza che animano l’organismo, movimento duplice basato, a sua volta, sul contatto con l’ambiente circostante. Si daranno fenomeni emergenti nuovi solo fintanto che l’individuo scambierà energia con l’esterno. E, a una maggiore circolazione di flussi energetici, corrisponderà una crescente complessità, la quale, tuttavia, è segno di fragilità. Siamo organismi instabili, aperti alle novità, che si auto- organizzano senza finalità, senza l’assillo di giungere all’equilibrio tra le forze.

In Artaud, invece, il rapporto tra stati corporei e stati mentali si configura come una co-evoluzione di Materia e Spirito. Non troveremo in lui, come in Nietzsche, dichiarazioni chiare sulla capacità auto-organizzativa degli esseri viventi, Tuttavia, a una lettura attenta, non sfuggirà che, anche in Artaud, i livelli superiori (dove si formano pensieri e sentimenti) traggono la loro linfa in quelli inferiori, ma, allo stesso tempo, pretendono di esercitare una forma di “comando” su di essi, poiché l’autocontrollo è sempre anche un tentativo di auto-disciplinamento e selezione. Abbiamo visto come, in Nietzsche, un istinto (quello della nutrizione, ad esempio) si trasformi in assimilazione, solo grazie a un lavoro combinato di affetti e intelletto. Lo stesso avviene in Artaud:

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Sul concetto dell’aver cura di sé, in Nietzsche, cfr., F. Semerari, Il predone, il barbaro, il

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«ciò che nel corpo umano rappresenta la realtà di questo soffio, non è la respirazione polmonare […] ma quella specie di fame vitale, mutevole, opaca, che percorre in nervi colle sue scariche, ed entra in lotta coi principi intelligenti della testa. E questi principi, a loro volta, ricaricano il soffio polmonare e gli conferiscono tutti i suoi poteri. Nessuno potrà pretendere che i polmoni che ridanno la vita non siano sotto il comando di un soffio venuto dalla testa»163.

Il soffio cui fa riferimento Artaud corrisponde al principio vitale, all’energia indistinta che attraversa il nostro corpo dal basso. Tale soffio non coincide semplicemente con l’attività respiratoria volgarmente intesa (quella polmonare), ma, piuttosto, allude a una “fame vitale”, che indica il perenne stato d’indigenza dell’essere vivente, che ha bisogno dell’apporto di stimoli esterni, provenienti dall’ambiente, e di eccitazioni interne funzionali, per continuare a vivere. La lotta di cui parla Artaud, tra gli impulsi nervosi e i “principi intelligenti della testa”, ovvero l’intelletto, non assume i connotati di una guerra sanguinosa e fratricida: si tratta, di contro, di un processo di continuo interscambio, una co-evoluzione emergente, appunto, dove allo stimolo primario viene associata una rielaborazione intellettuale, che si svolge sempre rigorosamente all’interno dell’organismo stesso. Per questo, Artaud può affermare che l’intelletto, il Selbstregulirung nietzscheano, a sua volta, “ricarica” l’istinto della respirazione, trasformandolo in qualcosa di più, ovvero in quel Soffio, che è principio vitale. È l’intelletto a conferire tutta la sua potenza all’istinto, dice Artaud, ma tale “investitura” non sarebbe stata possibile senza una previa eccitazione nervosa primaria, senza una lotta tra corporeo e spirituale. I polmoni, simboli dell’auto-organizzazione fisiologica del corpo, ridanno la vita, solo grazie all’azione selettiva dell’intelletto (il soffio venuto dalla testa, dall’alto). Il corpo ha bisogno di una regolazione interna, di un’auto-disciplina, che sfrutti gli stimoli esterni, per produrre sempre nuove trasformazioni, cui si accompagna l’avvento di fenomeni emergenti, e, quindi, l’aumento della complessità del vivente. In Artaud, tutto questo si manifesta con estrema chiarezza, quando viene chiamata in causa la figura dell’attore (di cui parleremo diffusamente nel prossimo capitolo), nel suo rapporto con una forma inedita di teatralità. L’attore immaginato da Artaud, proprio come “l’artista del giudizio” nietzscheano, non si deve lasciare sommergere

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dalla violenza delle sorgenti vitali, ma controllarle, plasmarle, modificarle “creativamente” secondo una serie di regole e principi tutti interni allo sviluppo dell’organismo stesso. L’attore-tipo è colui il quale, in una battuta, riesce a dominare le passioni, a cavalcarne l’onda, senza rimanerne travolto. Con Artaud, scopriamo un aspetto ulteriore del Selbsteregulirung nietzscheano: l’intelletto non è solo auto- regolazione e selezione, ma, anche, auto-disciplina, cura di sé. Che tale regimentazione della spinta pulsionale sia tutta interna all’organismo e si origini a partire da un processo perenne di trasformazione dei diversi centri di forza, emerge molto bene da quest’immagine che Artaud evoca in uno dei suoi “messaggi rivoluzionari”: «imparare a tenersi diritto nel movimento incessante delle forme che si distruggono successivamente»164. Detto diversamente, venire a conoscenza delle “regole” che scandiscono il ritmo della vita, ovvero sapersi auto-organizzare.

In Artaud s’avanza prepotentemente una terza ipotesi, per spiegare la relazione intercorrente tra corpo e mente, un’ipotesi che, come già visto in Nietzsche, oltrepassa entrambe le forme di riduzionismo, sia quello fisicalista che quello spirituale, determinista:

«non sarò certo io a sostenere la dualità Spirito-Materia; ma tra la tesi che dà tutto allo spirito e quella che dà tutto alla materia, dico che non vi è conciliazione possibile, finché si rimane in un mondo in cui lo spirito non potrà divenire qualcosa se non consentendo a materializzarsi. La materia non esiste che attraverso lo spirito, e lo spirito che dentro la materia. Ma, in fin dei conti, è sempre lo spirito che mantiene la supremazia»165.

Il passo è di capitale importanza, ai fini del nostro discorso. Non si eluderà il problema del dualismo corpo-mente, dice Artaud, finché lo spirito, da astratto principio, non si “decida” a calarsi nella plasticità della materia, diventando, così, “qualcosa” di realmente maneggiabile e sottoponibile a mutamenti d’aspetto. Vi è, in altri termini, una “materia della mente”, nel senso in cui l’intende Gerald Edelman, che fuga benissimo, tuttavia, ogni rischio di ricreare, a parti invertite, una “coscienza materiale”. Ancora una volta, quello che ci colpisce è la capacità organizzativa di questa materia, come Edelman sottolinea:

164 A. Artaud, Messages révolutionnaires, in Ouevres, cit., VIII, p. 202 (traduzione mia). 165

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«dato il carattere unico della coscienza e l’incapacità da parte del pensiero di “guardare dentro” i propri meccanismi, non sorprende di certo che alcuni filosofi abbiano proposto il concetto si sostanza pensante, o persino una sorta di panpsichismo, per il quale la coscienza è condivisa da tutta la materia. I risultati delle indagini moderne lasciano intendere, tuttavia, che la materia fisica sottostante la mente non è affatto straordinaria. È materia del tutto normale – costituita cioè da elementi chimici quali il carbonio, l’idrogeno, l’ossigeno, l’azoto, lo zolfo, il fosforo e da alcuni metalli presenti in tracce. Quindi non c’è nulla, nella composizione essenziale del cervello, che possa offrirci un indizio sulla natura delle proprietà mentali. Quel che c’è di speciale è la sua organizzazione. Quegli elementi chimici del tutto comuni formano parti di molecole straordinariamente complicate, che a loro volta costituiscono strutture complesse nelle cellule dei tessuti viventi»166.

Materializzare lo spirito, allora, non significa, di certo, costringerlo ad assumere una composizione chimica (operazione impossibile), ma rilevare il fatto che l’organizzazione complessa delle proprietà mentali, dei fenomeni emergenti di livello superiore, “imita” quella della sua “materia”, ovvero dei processi fisiologici di livello inferiori, la cui organizzazione molecolare risulta essere incredibilmente complessa. In ultima istanza, l’auto-organizzazione del vivente parte dai tessuti cellulari per giungere ai piani più alti dello spirito, senza mutare affatto la sua struttura. Ecco che esiste un perfetto parallelismo tra mente e corpo, laddove, però, sottolinea Artaud, alla fine, è sempre lo spirito che mantiene il dominio. Non si tratta, però, della risoluzione della “partita” a favore della mente, quanto del riconoscimento, sulla scia del pensiero nietzscheano, che l’auto-regolazione, in fondo, è volontà di dominio, di imporre e creare nuove forme. Se non ci fosse questa supremazia del mentale, questa sua autonomia rispetto al corporeo, non potremmo neanche renderci conto degli infiniti mutamenti che il nostro organismo subisce. Saremmo degli esseri in perenne trasformazione, ma inconsapevoli.

La prospettiva emergentista, più in generale, a un impulso nervoso non connette mai un unico stato mentale, sconfessando, di fatto, la teoria identitaria tipo-tipo167, per cui vi sarebbe una corrispondenza perfetta tra attività corporea e risposta intellettuale. Parlare di fenomeni emergenti, invece, ci fa capire che a uno stimolo, possono potenzialmente corrispondere infiniti stati mentali (o, perlomeno, tanti

166 G. M. Edelman, Sulla materia della mente, trad. it. a cura di S. Frediani, Adelphi, Milano 1993, p.

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quanti ne può sostenere il nostro corredo genetico). Facciamo un esempio concreto: se un amico pone la sua mano sulla mia spalla, a livello strettamente nervoso, non percepirò nulla di più che una semplice pressione, ma, a livello mentale (ecco il legame profondo tra Leib e Interpretation), potrà rielaborare questa minima informazione fisiologica, almeno in due modi differenti: il mio amico voleva trasmettermi un sentimento d’amicizia, o, piuttosto, di compassione? La soluzione al quesito potrà essere trovata, analizzando meglio una serie di altre condizioni, quali il contesto in cui il gesto è stato effettuato, la personalità dell’amico, e così via. Vi sono, in altri termini, fasi differenti di rielaborazione intellettuale di un dato primario corporeo, senza il quale, tuttavia, il processo non avrebbe avuto neanche inizio. È il gesto, la pressione che avverto, che scatena in me una reazione. Questo significa che

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