• Non ci sono risultati.

IL CONCETTO DI RISERVATEZZA

2.2 Il diritto alla privacy nel nostro ordinamento

A differenza dei Paesi anglosassoni, nel nostro Paese il confronto accademico e giuridico intorno al concetto di riservatezza e all’esigenza di una specifica protezione della stessa, in quanto diritto autonomo della personalità, si instaura soltanto negli anni Cinquanta del secolo scorso125.

In Italia, prima dell’approvazione della legge n. 675/96, l’ampio dibattito dottrinale e gli orientamenti oscillanti della giurisprudenza si sono sviluppati

--- 122

G. TIBERI, Riservatezza e protezione dei dati personali, in I diritti in azione, Universalità e

pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, a cura di M. Cartabia, Bologna, 2007, pag.

351.

123 La formula è stata coniata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca, nella sentenza

del 15 dicembre 1983, in cui si costituzionalizzava appunto il diritto all’autodeterminazione informativa.

124 S. RODOTÀ, Intervista su privacy e libertà, cit., pagg. 66 s. 125

Il nostro Paese si è dotato di una normativa per il trattamento dei dati personali con notevole ritardo rispetto agli altri Paesi europei, che, già a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, avevano in gran parte provveduto in tal senso. In Europa le prime leggi a tutela della riservatezza vengono adottate in Svezia (1973), nella Germania Federale (1977), in Austria, Danimarca, Francia e Norvegia (1978).

63

copiosamente proprio per la mancanza di una norma espressa che riconoscesse tutela, in via generale, al diritto alla riservatezza, che aveva così trovato riconoscimento e tutela dell’ordinamento italiano in via interpretativa, grazie all’approdo di orientamenti che rinvenivano “un generale diritto alla riservatezza” nel novero dei diritti della personalità.

Il dibattito si era incardinato intorno alla tutela della riservatezza per il rilievo assunto, a metà del secolo scorso, dalle vicende giudiziarie di personaggi celebri126

--- 126 Il riferimento è alle note vicende che coinvolsero Enrico Caruso e Clara Petacci.

Nel “caso Caruso”, determinato dalla realizzazione del film “Leggenda di una voce” sulla vita del celebre tenore, i familiari ritenevano contenesse alcune scene lesive della memoria, dell’onore e della riservatezza del defunto cantante; la Corte di Cassazione, con sentenza 22 dicembre 1956, n. 4487 (in Giust. Civ., 1957, pag. 5), ribaltando il giudizio di merito, che affermava l’esistenza nel nostro ordinamento di un diritto alla riservatezza, che consiste “nel divieto di qualsiasi ingerenza estranea nella sfera della vita privata della persona, e di qualsiasi indiscrezione da parte di terzi, su quei fatti o comportamenti personali che, non pubblici per loro natura, non sono destinati alla pubblicità delle persone che essi riguardano” , dichiarò che “il semplice desiderio di riserbo non è

stato ritenuto dal legislatore un interesse tutelabile” e che, pertanto, nell’ordinamento italiano non

esiste “un generale diritto alla “riservatezza”, o “privatezza”.

Nella sentenza 20 aprile 1963 n. 990 (in Foro It., 1963, I, c. 879.), relativa al caso di Clara Petacci, i Supremi giudici, pur negando l’esistenza di un vero e proprio diritto alla riservatezza, affermarono però che: “deve ammettersi la tutela nel caso di violazione del diritto assoluto di personalità inteso quale diritto erga omnes alla libertà di autodeterminazione nello svolgimento della personalità dell’uomo come singolo. Tale diritto è violato se si divulgano notizie della vita privata le quali, per tale loro natura, debbono ritenersi riservate” e trovano tutela nell’art. 2 Cost., che ammette “un

diritto di libera autodeterminazione nello svolgimento della personalità”. Anche in questa

occasione la Suprema Corte ribalta la sentenza della Corte d’Appello di Milano 26 agosto 1960 (in

Foro It., 1961, I, c. 654), in cui i giudici di merito riconoscono l’esistenza di un “diritto alla

riservatezza”, che riconducono all’art. 8 della Convenzione del Consiglio d’Europa per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ai sensi del quale “ogni persona ha

diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”.

64

che avevano appassionato l’opinione pubblica, imponendo anche alle aule di tribunale di addivenire ad una soluzione giurisprudenziale compatibile con le norme positive.

Di conseguenza, il suo fondamento giuridico si è ricercato inizialmente nel Codice civile del 1942 – in cui, tuttavia, manca una disciplina specifica del diritto alla riservatezza127, anche nelle disposizioni dedicate alle persone e alla famiglia –

poi nei testi internazionali e nella Carta costituzionale.

La Cassazione muta orientamento soltanto nel 1975, in occasione della pronuncia sul “caso Soraya” (sentenza 27 maggio 1975, n. 2129, in Foro It., 1976, I, c. 2895), con la quale viene affermata l’esistenza nel nostro ordinamento del diritto alla privacy, che trova fondamento negli artt. 2 e 3 della Cost., nell’art. 8 dello Statuto dei lavoratori, nonché negli artt. 8 e 10 della Convenzione del Consiglio d’Europa per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Si tratta di un diritto volto alla: “tutela di quelle vicende strettamente personali e familiari le quali, anche se verificatesi fuori dal domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l’onore, la reputazione o il decoro, non siano giustificate da interessi pubblici preminenti”.

Nel senso della Corte di Cassazione si esprimeva già da tempo anche parte autorevole della dottrina: v. in particolare G. PUGLIESE, Il preteso diritto alla riservatezza e le indiscrezioni

cinematografiche, in Foro It., 1954, c. 116, nota a Trib. Roma, 14 settembre 1953. 127

L’espressione diritto alla riservatezza è entrata nel linguaggio giuridico italiano per opera soprattutto degli studiosi Ravà e De Cupis. In particolare, quest’ultimo l’ha definita come “quel modo di essere della persona il quale consiste nell’esclusione dell’altrui conoscenza di quanto ha riferimento alla persona medesima” e ne ha individuato il fondamento positivo nel diritto all’immagine, di cui all’art 10 del Codice civile, suggerendone l’estensione in via d’analogia ad interessi della persona accumunati da una eadem ratio. Tale ricostruzione si inserisce, com’è noto, nel quadro complessivo operato dall’Autore di una struttura pluralistica dei diritti della personalità, risultante da una molteplicità di aspetti della persona, ognuno con caratteristiche peculiari e dotato di propria autonomia. Tale impostazione si contrappone alla dottrina tedesca che preferisce, invece, delineare un unico diritto alla personalità, aderendo alla cd. teoria monista (A. DE CUPIS, I diritti

65