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IL GRUPPO NEL CONTESTO ECONOMICO ITALIANO

3. I GRUPPI DI IMPRESE COME MODELLO DI ASSETTO

3.2 IL GRUPPO NEL CONTESTO ECONOMICO ITALIANO

Trattando degli assetti proprietari delle imprese italiane, emerge come la forma organizzativa del gruppo di imprese stia diffondendosi soprattutto quando le imprese crescono di dimensione.

Negli studi sui differenti modelli capitalistici l’Italia è considerata, insieme a Francia, Spagna, Grecia e Portogallo, all’interno di quel gruppo di Paesi che compone il cosiddetto “modello latino”71. Tale modello è caratterizzato dalla

presenza di un azionista di controllo, tipicamente riconducibile ad una persona fisica o ad una famiglia. L’impresa che più rappresenta il modello capitalistico italiano, come abbiamo più volte detto, è la piccola-media impresa familiare, caratterizzata da forme societarie semplici e da una diffusa sovrapposizione tra il ruolo di imprenditore, conferente il capitale di rischio, ed il ruolo di manager. Ma il fenomeno della concentrazione proprietaria, fortemente caratterizzante le piccole imprese italiane, è presente anche nelle imprese di medie dimensioni proprio perché il cosiddetto azionista di controllo continua a detenere la maggioranza del capitale attraverso la costituzione di un gruppo societario con a capo una holding.

La letteratura annovera il gruppo d’imprese come uno strumento adottato dall’azionista di controllo per separare la proprietà dal controllo dell’impresa. Infatti, attraverso le catene di controllo societario un soggetto economico può detenere il controllo di un gruppo d’imprese anche non possedendo la maggioranza del capitale di ciascuna di esse.

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In altre parole, viene separato il controllo di un proprietario-controllante dalla proprietà di azionisti non controllanti, presenti ad ogni livello del gruppo; solo al vertice della piramide il capitale è concentrato nelle mani di pochi o di un unico azionista a cui spetta il controllo del gruppo72.

Tale separazione, in contrapposizione con il modello d’impresa anglosassone, determina un potenziale conflitto d’interessi tra l’azionista di controllo e gli azionisti di minoranza derivante dalla possibilità per l'azionista di controllo di espropriare una parte dei diritti degli azionisti di minoranza a proprio vantaggio. Bisogna infatti tener conto del fatto che nel gruppo aziendale il soggetto economico cerca di creare adeguate sinergie affinché il valore creato dal gruppo nel suo insieme sia maggiore di quello creato dalla somma delle parti singolarmente considerate. Visto che è la capacità del soggetto economico controllante a fare in modo che ciò si realizzi, è facile aspettarsi che quest'ultimo distribuisca il valore creato dal gruppo in modo tale da soddisfare le attese degli stakeholder delle singole controllate, appropriandosi dell'effetto delle sinergie, attraverso operazioni che inevitabilmente siano pregiudizievoli per le minoranze.

Diviene importante in tal senso, la nuova disciplina sui gruppi introdotta dalla Riforma del diritto societario (art. 2497 e segg.), che definendo la responsabilità della capogruppo nei confronti delle minoranze e dei creditori sociali delle società controllate, in ipotesi di danno da attività di direzione e coordinamento, e, garantendo una maggiore trasparenza nelle operazioni infragruppo, va ad accrescere la tutela delle minoranze.

In Italia, in particolare, la diffusione della forma organizzativa di gruppo è ben documentata soprattutto riguardo alle grandi imprese quotate; è molto meno documentato, al contrario, il fatto che il fenomeno del gruppo interessi anche imprese non quotate e di dimensioni più ridotte. La letteratura è piuttosto carente sotto questo profilo, in particolare a causa della difficoltà e dell’onerosità di reperire dati sulla struttura di proprietà e sulle partecipazioni delle imprese di dimensioni minori.

In ogni caso l’ipotesi principale desunta dalla letteratura, è che dietro alla forma organizzativa del gruppo d’imprese si “nasconda” spesso una forma di controllo

72 Berle e Means consideravano "la piramide" come il "più diffuso espediente giuridico elaborato

allo scopo di avere il controllo di una società senza possedere la maggioranza delle sue azioni"; A.A. Berle, G.C. Means, the modern corporation and private property, Macmillan, New York, 1932, pag.72.

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personale o familiare. Pertanto l’azionista di controllo esercita il proprio potere attraverso:

− un controllo pressoché totalitario dell’organo amministrativo della società controllante

(Holding);

− l’assunzione di cariche negli organi amministrativi delle partecipate;

− la nomina dei membri della famiglia negli organi amministrativi delle società del gruppo;

− la nomina di consiglieri o manager "di fiducia" nelle diverse società del gruppo.

Una dettagliata rappresentazione dell'assetto proprietario delle imprese italiane è rintracciabile in una serie di ricerche condotte dalla Banca d’Italia. In particolare Giacomelli e Trento (2005)73utilizzano i risultati di due indagini svolte dalla Banca

d’Italia nel 2003 rispettivamente su circa 1.900 (INVID) e 500 (ESETRA)74 imprese

italiane, e le confrontano con analoghe ricerche compiute dallo stesso istituto, sugli assetti proprietari, sul controllo e sui trasferimenti delle imprese non quotate nel 1993.

Già dalle indagini condotte nel biennio 1992-1994 erano emerse alcune peculiarità degli assetti proprietari e di controllo delle imprese italiane. Innanzitutto queste erano caratterizzate da una proprietà estremamente concentrata e non anonima, da una prevalenza del modello di controllo di tipo familiare, dalla scarsa presenza nel mercato delle imprese di intermediari finanziari specializzati e dalla crescente diffusione della forma organizzativa del gruppo d’imprese.

Dall’analisi dei dati raccolti, emerge come la distribuzione della proprietà delle imprese italiane risulti estremamente concentrata. In media, infatti, il primo azionista detiene dal

52% al 64,7% del capitale, a seconda dei campioni analizzati. In entrambi i casi l’azionista principale possiede in media una quota di capitale che gli consente di avere il controllo di diritto della società.

73 S.Giacomelli, S.Trento, Proprietà, controllo e trasferimenti nelle imprese italiane. Cosa è

cambiato nel decennio 1993-2003?, Temi di discussione del Servizi Studi, n.550, 2005.

74 INVID sta per indagine sugli investimenti delle imprese industriali e considera un campione di

aziende con un numero di addetti maggiore di 50; ESETRA sta per esercizio-trasferimento del controllo e considera un campione in parte diverso perché considera anche aziende con un numero di addetti inferiore a 50.

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Ad ulteriore conferma dell’estrema concentrazione proprietaria, nei campioni considerati i primi tre azionisti detengono tra il 95% ed il 100% del capitale, mentre nessun azionista principale detiene una quota inferiore al 5% del capitale, a dimostrazione della scarsissima (o nulla) presenza di imprese a proprietà diffusa. Un’ulteriore caratteristica messa in luce dalla ricerca è la correlazione positiva tra il grado di concentrazione proprietaria e le dimensioni aziendali. Ciò significa che al crescere delle dimensioni di un’impresa, aumenta anche la quota di proprietà dell’azionista principale e si riduce l’ampiezza della compagine sociale. Tale correlazione viene spiegata dalla diffusione del modello organizzativo del gruppo d’imprese. Al crescere delle dimensioni di un’impresa, la stessa tenderà quindi ad essere posseduta attraverso strutture di gruppo. Ciò significa che la società controllante detiene una quota maggioritaria del capitale, determinando in tal modo l’elevato grado di concentrazione proprietaria anche nelle imprese di maggiori dimensioni.

Tali considerazioni in tema di gruppi d’imprese sono confermate dall’evidenza empirica. La percentuale di imprese facenti parte di gruppi societari aumenta con il crescere delle dimensioni: il 91% delle imprese con oltre 1.000 addetti nel 2003 faceva parte di un gruppo. La quota media detenuta dall’azionista principale di una società facente parte di un gruppo è molto elevata, pari al 81% nel 2003, denotando perciò un'accentuata concentrazione proprietaria.

Ulteriori risultati interessanti sono relativi alla tipologia dei soggetti proprietari. In generale vi è una netta predominanza del possesso da parte di persone fisiche, seguita dalle holding dei gruppi societari.

Al crescere delle dimensioni aziendali il peso delle persone fisiche si riduce notevolmente a favore delle holding dei gruppi societari e delle imprese estere. La distribuzione della proprietà in base alla tipologia dei soggetti, anche in relazione alle risultanze delle indagini del biennio 1992-1994, mostrano un livello di possesso da parte delle persone fisiche pressoché inalterato, mentre è in crescita la quota detenuta dalle holding di gruppo.

I risultati dell’indagine indicano che il modello di controllo predominante in Italia tra le piccole-medie imprese è quello familiare, riscontrabile nel 46% delle imprese del campione analizzato. Alla stessa conclusione giunge l'indagine istat in occasione del censimento dell'industria e dei servizi: a fine 2011 la struttura di tipo familiare (cioè quella in cui il controllo è direttamente o indirettamente esercitato

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da una persona fisica o da una famiglia) è riscontrabile in oltre il 70% delle imprese industriali e dei servizi. I primi tre azionisti delle imprese italiane (a controllo familiare o meno) detengono mediamente oltre il 90% del capitale sociale dell'impresa, con una quota mediamente superiore al 55% attribuibile al primo socio. All'interno delle sole imprese a controllo familiare, i primi tre azionisti detengono mediamente il 94% delle quote sociali, il primo socio circa il 70% (vedi figura). In quasi il 90% delle imprese, il primo socio è una persona fisica o una famiglia; nell'8% dei casi è un'altra azienda (holding), mentre è marginale la presenza al vertice del controllo azionario delle banche e degli enti pubblici75 (vedi

figura 3.1).

Individuando quindi i modelli di controllo si scopre che il controllo di gruppo “nasconde” nella maggior parte dei casi un modello di controllo familiare.

Per controllo familiare si intende il controllo esercitato congiuntamente da più soggetti legati da vincoli di parentela. Al crescere della dimensione delle imprese, tali risultati si modificano, ed emerge una riduzione del controllo familiare ed assoluto, mentre aumenta l’incidenza del controllo di gruppo.

È per questo che, possiamo concludere che risultati dell’indagine empirica mostrano l’assoluta prevalenza del carattere personalistico e familiare degli assetti di controllo delle piccole imprese, accentuato dal crescente utilizzo di clausole statutarie e patti parasociali che limitano la trasferibilità delle partecipazioni sociali.

75 Ricordiamo che l'universo di riferimento nell'ambito del Censimento dell'industria e dei servizi è

composto dal totale delle aziende con almeno 3 addetti (circa 1,1 milioni di imprese) e, per la fascia di dimensione più piccola (1-2 addetti), dalle sole imprese dotate di reale rilevanza economica.

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Figura 3.1: Caratteristiche, assetti proprietari, e gestione delle imprese a controllo familiare e non – anno 2011

Se l’impresa ha dimensioni limitate prevalgono modalità di controllo familiare o assoluto, mentre al crescere delle dimensioni aziendali “le famiglie modificano le modalità di esercizio del controllo passando da forme dirette a forme mediate da strutture di gruppo”, in cui la presenza di una holding al vertice diventa una costante di cui non si può fare a meno, ma di questo ultimo aspetto ci occuperemo nel capitolo successivo.

3.3 LE MANIFESTAZIONI DEL CONTROLLO ALL'INTERNO

DEL GRUPPO

Il legame tra gruppo e controllo consiste nel fatto che il gruppo si realizza principalmente anche se non esclusivamente, tramite l'assunzione di partecipazioni. Il controllo può essere, infatti, una manifestazione del fenomeno economico del gruppo ed è possibile identificarlo nel rapporto, in senso verticale, che lega le

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società all’interno di un gruppo. Tuttavia, dal punto di vista giuridico, il controllo, pur essendo condizione necessaria, non è di per sé anche condizione sufficiente per la ricorrenza di un gruppo, di modo che le due nozioni nel nostro ordinamento non coincidono.

Per determinare la nozione di controllo bisogna anzitutto far riferimento alla norma di cui all'art. 2359 c.c. secondo la quale:

Sono considerate società controllate:

1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;

Tale forma di controllo prende il nome di "controllo interno di diritto", interno perché si fonda sulla partecipazione azionaria e di diritto in quanto la partecipazione riguarda più del 50% del capitale sociale, tale da attribuire la maggioranza dei voti in assemblea ordinaria. In definitiva la società che la possiede può, senza preventivamente coordinarsi con altri soci, approvare qualsiasi proposta dell'assemblea ordinaria salvo la richiesta di maggioranze specifiche.

2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria;

Corrisponde al "controllo interno di fatto", di fatto perché una partecipazione pur minoritaria è resa di controllo dall'assenteismo assembleare degli altri azionisti. Tale fenomeno è molto sviluppato nelle realtà in cui vi sono maggioranze disgregate e quindi soprattutto nelle public companies.

3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.

Quest'ultimo è il così detto "controllo contrattuale" ed è un tipo di controllo esterno poiché prescinde da qualsiasi partecipazione azionaria, e fa capo ad un contratto (di agenzia, di licenza, di affiliazione commerciale) che grazie alla presenza di determinate condizioni determina la subordinazione della società satellite rispetto alla dominante.

Si deve tuttavia ricordare come nell’ultimo decennio circa si sono succedute numerose direttive relative alle società quotate e al settore dei mercati mobiliari (in particolare, in materia di OPA, abusi di mercato, diritti degli azionisti e trasparenza dell’informativa societaria) che hanno affrontato il tema del controllo societario. Una definizione puntuale di controllo nell’ambito della disciplina comunitaria sugli emittenti quotati è tuttavia rinvenibile solo nella direttiva sulla trasparenza

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dell’informativa societaria (direttiva 2004/109/CE o cosiddetta direttiva Transparency) e nei principi contabili internazionali IAS/IFRS.

In particolare, la direttiva Transparency, all’art. 2 definisce come impresa controllata, alternativamente, l’impresa:

- nella quale una persona fisica o giuridica ha la maggioranza dei diritti di voto; - della quale una persona fisica o giuridica ha il diritto di nominare o rimuovere la maggioranza dei membri dell'organo di amministrazione, di direzione o di controllo e, nello stesso tempo, è azionista o socio dell'impresa in questione;

- della quale una persona fisica o giuridica è azionista o socio e nella quale esercita da sola, in virtù di un accordo concluso con altri azionisti o soci dell'impresa in questione, il controllo sulla maggioranza dei diritti di voto degli azionisti o rispettivamente dei soci;

- sulla quale una persona fisica o giuridica ha il potere di esercitare o esercita effettivamente un'influenza dominante o un controllo.

In definitiva, ritornando all’ordinamento nazionale, l’attuale versione dell’art. 2359 c.c., dopo i rilevanti interventi del 1974 e del 1991, non ha più subito alcuna rivisitazione (neanche in occasione della riforma del diritto societario del 2003) e dunque non riflette, se non marginalmente, l’ampia e profonda evoluzione del quadro normativo che invece si è registrata a livello comunitario nell’ultimo decennio, soprattutto in materia di diritto dei mercati mobiliari e delle società quotate.76

Si è giunti ad affermare come il controllo comporti sempre una presunzione di influenza dominante, presunzione non suscettibile di prova contraria.

Il controllo sarebbe di per sé strumento necessario e sufficiente per l'esercizio della "direzione unitaria" e quindi per la creazione di un gruppo. Così sulla base del controllo si dovrebbe presumere che la controllante orienti fino a dominare la gestione della controllata. Si presumerebbe dunque che:

- la società controllante si avvalga della propria posizione di supremazia per determinare la condotta degli affari delle società controllate, imponendo agli organi di queste la propria direzione;

-gli amministratori della capogruppo siedano nei consigli delle controllate;

76 www.consob.it/documents/11973/201676/qg8.pdf/228bc96a-b225-4c54-b1db-00b3f40da4fc (il

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-gli amministratori della capogruppo impartiscano direttive agli amministratori delle controllate e che costoro siano di fatto tenuti a eseguirle.77

Allo stesso tempo alcuni esponenti della dottrina giuridica hanno invece ritenuto che i due fenomeni (controllo e gruppo) non siano necessariamente assimilabili, in quanto empiricamente le aggregazioni societarie possono assumere differenti gradi di integrazione. L'invadenza della società controllante, infatti, può arrestarsi al livello delle decisioni assembleari o può estendersi ed investire, in forme più o meno ampie la gestione della controllata.

Per questo motivo si rende necessario verificare a quale livello e con quale grado di profondità si esplichi l'influenza della società dominante. Cioè a dire che quest'ultima per quanto possa determinare la risultante delle delibere assembleari della controllata grazie all'esercizio del diritto di voto relativo alla quota azionaria posseduta, di contro, non è automatico si ingerisca sistematicamente nell'attività dell'organo amministrativo della partecipata, definendone gestione ed obiettivi strategici.

Se è vero allora che dal controllo possa presumersi l'esercizio della direzione unitaria, in quanto in tale situazione è assai probabile che gli amministratori della capogruppo impartiscano direttive agli amministratori delle controllate, è altrettanto vero però che, trattandosi di presunzione relativa per legge, possa offrirsi prova contraria.

Perciò per quanto il legislatore abbia dettato un sistema di presunzioni, la sussistenza dell'attività di direzione deve essere accertata in fatto, alla luce di alcuni indici rilevatori quali, i verbali assembleari, i patti parasociali, i budgets periodici, i business plans delle controllate e così via.

Quindi se il controllo è certezza giuridica o, quantomeno, elevata probabilità che la società controllante abbia il potere di determinare la volontà della controllata, l'attività di direzione e coordinamento deve essere più intensa e manifestarsi come esercizio effettivo del potere decisionale sulle scelte della società controllata. Per bene precisare, direzione unitaria significa, dunque, esercizio costante e sistematico di atti di indirizzo volti a incidere in variabile grado sulla gestione delle singole società affiliate. Con ciò non si vuole affermare totale subordinazione delle controllate anzi l'attività di direzione deve sempre tener conto di alcuni punti:

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-del principio di esclusività del potere gestorio degli amministratori (art. 2380bis c.c.);

-dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale (art.2497, 1co. c.c.) -del canone dei vantaggi compensativi, ove si cagionino pregiudizi alle società subordinate (art 2497, 1co. c.c.)78.

Con il termine coordinamento, invece, si vuole giuridicamente indicare l'attività volta a realizzare la sistemicità dell'intero aggregato e la complementarità che, in variabile grado, viene a costituirsi e dunque opera fra le diverse affiliate appartenenti al gruppo. Si può quindi affermare come il termine direzione operi in senso verticale mentre il termine coordinamento operi in senso orizzontale.

La realtà rivela due situazioni opposte, ad un estremo amministratori di controllate pronti ad ogni ordine imposto dal gruppo di comando della holding, all' altro amministratori variamente autonomi rispetto alle direttive superiori. Seppur il primo estremo sia forse uno fra i più diffusi potrebbe allo stesso tempo risultare meno convenzionale per motivi di competenza personale, di ambiente locale, di autonomia organizzativa minima, di localizzazione delle controllate ecc.

In conclusione il variabile grado di integrazione - gestionale e decisionale - dell'aggregato consente pertanto di introdurre la distinzione tra gruppi accentrati e decentrati che approfondiremo nel prossimo paragrafo.

Ma come si fa a definire la quota minima di azioni che si devono possedere se si vuole controllare un'impresa? Per avere una risposta bisogna tener conto delle seguenti variabili79:

- la normativa in vigore riguardante i quorum per le deliberazioni delle assemblee sociali. Come ben sappiamo le attribuzioni dell'assemblea riunita in veste ordinaria o straordinaria differiscono tra di loro80 così come differiscono anche i quorum

costitutivi e deliberativi attribuitigli dalla legge. Nel caso dell'assemblea ordinaria, questa risulta essere regolarmente costituita in prima convocazione con la presenza di tanti soci che rappresentano almeno la metà del capitale sociale, escluse dal computo le azioni prive del diritto di voto ed in seconda convocazione qualunque

78 M. Bergamaschi, I gruppi aziendali, CEDAM, 2011, pag.53.

79 La discussione verterà principalmente le società per azioni (nonostante i gruppi di imprese

possono essere costituiti da società aventi diversi profili giuridici) perché questa forma è quella più diffusa dalle imprese medio-grandi del nostro Paese.

80 Nell'assemblea ordinaria si determinano le decisioni principali che riguardano l'impresa come

l'approvazione del bilancio, la nomina e la revoca degli amministratori e del collegio sindacale, la destinazione degli utili etc.; l'assemblea straordinaria delibera invece sulle modificazioni dell'atto costitutivo, sull'emissione di obbligazioni e sulla nomina e sui poteri dei liquidatori.

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sia la parte di capitale rappresentata dai soci intervenuti (art.2369, co.3, c.c). In entrambi i casi, l'assemblea delibera a maggioranza assoluta, ovvero con il voto favorevole della metà più una delle azioni con diritto di voto intervenute in assemblea (art.2368, co. 1, c.c.). Per quanto riguarda invece l'assemblea straordinaria, questa delibera in prima convocazione con il voto favorevole di tanti soci che rappresentino più della metà del capitale sociale ed in seconda convocazione con il voto favorevole di almeno due terzi del capitale rappresentato in assemblea e per determinate deliberazioni con il voto favorevole di soci che

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