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Il magistero della vita

Nel documento Don Paolo Albera maestro di vita spirituale (pagine 133-136)

ALLA SPIRITUALITÀ SALESIANA

1. Il magistero della vita

Dopo aver ricevuto la notizia della morte di don Albera, don Giuseppe Vespignani scrisse dall’Argentina: “Siamo persuasi che il compianto ret-tor maggiore fu la continuazione della vita, dello spirito e dell’azione di don Bosco e di don Rua; e che tutti e tre formano la triade splendida, som-mamente provvidenziale e ammirabile nella nostra Congregazione”1. È vero. Probabilmente senza la dedizione e il carisma di questi suoi disce-poli, collaboratori e successori, dopo la morte del Fondatore l’impresa sa-lesiana avrebbe rapidamente esaurito la sua carica. Don Rua fu scelto da don Bosco come vicario con il compito di strutturare la nascente Società salesiana, organizzarla, garantirne lo sviluppo organico e la compattezza disciplinare.

A sua volta don Rua nominò Albera direttore spirituale della Con-gregazione per consolidare la vita interiore dei confratelli, infondere in essi lo “spirito” ereditato dal padre e garantire alle nuove generazio-ni percorsi formativi più lineari. Diventati rettori maggiori, entrambi mostrarono viva la responsabilità di mantenere e incrementare il pa-trimonio spirituale e pedagogico di don Bosco. A questo fine si impe-gnarono con la parola e l’azione, ma soprattutto con la testimonianza della vita.

Don Albera era particolarmente consapevole della missione ricevuta.

Ne fu anche angosciato perché riteneva di non esserne all’altezza. I tac-cuini personali testimoniano la sua costante tensione spirituale, l’inces-sante lavoro ascetico su di sé per alimentare il fuoco di carità che don Bosco aveva acceso nel suo cuore fin dagli anni dell’adolescenza, e per raggiungere la competenza e la santità richieste al suo stato. L’intimità di vita e di lavoro col Fondatore lo aveva convinto che il modo migliore per prolungare nel tempo il suo spirito e assimilarne il carisma era quello di riprodurne in sé le virtù, lo zelo e la santità. Don Bosco fu il suo costan-te riferimento. Lungo tutto il corso della vita cercò di modellarsi sugli insegnamenti, sull’esempio e le azioni del Padre, per aiutare i salesiani a fare altrettanto.

Nella circolare inviata in occasione dell’inaugurazione del monumento a don Bosco, ricordò gli anni giovanili vissuti accanto a lui, “respirando quasi la sua stessa anima”. Rievocò il periodo trascorso a Valdocco dopo l’ordinazione, in cui aveva potuto “godere la sua intimità e attingere dal

1 Garneri 431.

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suo cuore preziosi ammaestramenti”. Poi aggiunse: “Durante quegli anni principalmente, ed anche in seguito, nelle sempre desiderate occasioni che ebbi di stargli insieme o di accompagnarlo nei suoi viaggi, mi persuasi che l’unica cosa necessaria per divenire suo degno figlio era d’imitarlo in tutto:

perciò, sull’esempio dei numerosi fratelli anziani, i quali già riproducevano in sé stessi il modo di pensare, di parlare e di agire del Padre, mi sforzai di fare anch’io altrettanto. Ed oggi, alla distanza di oltre mezzo secolo, ripeto pure a voi, che gli siete figli come me, e che a me figlio più anziano siete stati da lui affidati: imitiamo don Bosco nell’acquisto della nostra perfezione religiosa, nell’educare e santificare la gioventù, nel trattare col prossimo, nel fare del bene a tutti”2.

A questo fine insisteva sulla necessità di conoscere il Fondatore, di stu-diarne con amore la vita e gli scritti, di parlarne spesso ai giovani e ai coo-peratori. Ebbe anche una venerazione profonda per la persona di don Rua, soprattutto per la cura della perfezione anche nelle piccole cose che lo ca-ratterizzava. Voleva che i salesiani lo considerassero organicamente unito a don Bosco: “Perché don Bosco fu così amato? Perché tutti i cuori erano con lui? – disse durante il settimo Capitolo generale alle Figlie di Maria Ausilia-trice – Perché ebbe la fortuna di avere al fianco un don Rua, il quale prese sempre su di sé tutte le odiosità… Quando fu eletto rettor maggiore vi fu chi temette un governo rigoroso: si vide invece quanta bontà era nel suo cuore.

Ma questa rimarrà una delle più belle pagine della sua vita, e si vedrà quanto abbia contribuito all’aureola di cui don Bosco era circondato”3.

Secondo don Luigi Terrone, “il concetto principale che la gente aveva di don Albera era che fosse un vero uomo di Dio, un sacerdote esemplare, un’anima tutta interiore”. Questa dimensione spirituale fu in lui partico-larmente evidente: il suo contegno, il suo sguardo, il suo modo di parlare e di predicare rivelavano il religioso costantemente preoccupato delle cose del cielo4. Ebbe il dono di una grande bontà naturale, che perfezio-nò lavorando su di sé al punto da diventare una persona di una cortesia squisita che impressionava. Insistette costantemente sull’importanza che don Bosco attribuiva alla gentilezza e alla correttezza nel trattare con il prossimo, senza distinzione di condizione e di temperamenti. Citava san Francesco di Sales per sostenere il valore e l’efficacia della buona creanza come espressione di carità cristiana, poiché essa “serve

mirabil-2 LC 331.

3 Garneri 437-438.

4 Garneri 485.

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mente a evitare gli attriti, a smussare le angolosità dei caratteri, a con-servare la pace, la mutua intesa e una certa ilarità interiore e di rapporti domestici”5. Per primo ne diede l’esempio con il suo aspetto amabilissi-mo che conquistava giovani e adulti.

I confratelli che gli stettero accanto testimoniano la ricchezza delle sue virtù: era prudente nelle parole e nelle decisioni, umile e paziente. Dimo-strò un costante spirito di abnegazione: malgrado la gracile salute non si sottrasse mai ai suoi doveri e si mantenne estremamente temperante in tut-to6. Le sue note intime rivelano lo sforzo nel correggere e perfezionare la propria umanità, nell’alimentare la vita interiore. Aveva anche una grande capacità di ascolto, un’empatia che attirava la confidenza.

Con la pratica della confessione e della direzione spirituale era divenuto un esperto del cuore umano. Ma sentì un costante bisogno di approfondire la sua conoscenza della vita spirituale attraverso lo studio e la meditazione di autori spirituali. Come testimonia don Francesco Scaloni, i confratelli francesi e belgi erano convinti che egli avesse letto “tutte le opere asceti-che di qualasceti-che valore”, sulle quali sapeva dare un giudizio ponderato. Non leggeva in modo superficiale, accompagnava la lettura con la meditazione

“per nutrire la sua mente e il suo cuore”7. Da queste letture e riflessioni poi traeva materia per il ministero della predicazione e dell’accompagna-mento spirituale. Don Giovanni Battista Grosso, suo stretto collaboratore durante gli anni di Marsiglia, racconta che “in mezzo alle varie preoccupa-zioni di ispettore e di direttore dell’Oratoire St. Léon… trovava tuttavia il tempo di leggere molto, e quasi esclusivamente libri ascetici; ed era avido ed attento a procurarsi ogni nuovo libro di ascetica che i migliori autori francesi pubblicassero; e non solo li leggeva ed annotava, ma ne faceva sunti od estratti, che poi tanto gli giovavano nelle conferenze mensili ai confratelli, ed a quelle che sovente accettava volentieri di fare alle diverse compagnie della casa”8.

Questo gusto per la vita spirituale, questo desiderio di comprenderla in profondità va collegato con la sua personale ammirazione per la santità e la profonda pietà di don Bosco. Fin da ragazzo aveva cercato di riprodurne in sé lo spirito di orazione e la costante unione con Dio. Col passar degli anni

5 Garneri 467.

6 Garneri 475-484.

7 Garneri 452-453. Nel diario spirituale di don Albera e nei suoi appunti di predi-cazione ci sono riferimenti a un’ottantina di autori, cf. J. Boenzi, Reconstructing Don Albera’s Reading List, in “Ricerche Storiche Salesiane” 33 (2014) 203-272.

8 ASC B0330314, D. Paolo Albera. Ricordi personali, ms G. B. Grosso, 1.

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anch’egli acquistò il dono dell’orazione e della contemplazione. La sua pietà sincera, senza forzature, impressionava coloro che lo vedevano pregare o ce-lebrare l’eucaristia: tutto immerso nell’adorazione, aveva un atteggiamento di grande dolcezza, un raccoglimento così intenso da commuovere. “Mette-va un impegno speciale nel fare la meditazione e il ringraziamento dopo la messa e raccomandava spesso la pratica dell’esame di coscienza”9. Era una pietà tenera la sua, affettiva e intensamente comunicativa, sostenuta special-mente con la meditazione del Vangelo e delle lettere di san Paolo10.

La predominante tendenza all’intimità divina e il gusto per la pietà non diminuirono, anzi alimentarono costantemente il suo spirito d’iniziativa, il servizio pastorale e il fervore nel lavoro. Era convinto che una pietà auten-tica genera zelo apostolico, illumina l’azione educativa, la ispira e la rende feconda, come era capitato a don Bosco.

Nella preoccupazione dinamica di seguire gli esempi del Fondatore e di don Rua, per “conservare nella nostra Congregazione lo spirito e le tradi-zioni che da loro abbiamo imparato” – come scrisse nella prima circolare presentando l’impegno assunto al momento dell’elezione – Albera sentì il bisogno di accentuare alcuni temi che riteneva basilari, insieme ad altri affini alla sua sensibilità o richiesti dalle contingenze storiche, dal contesto in cui operavano i suoi interlocutori e dall’intima conoscenza dei confra-telli. Le sue dense lettere circolari sono di carattere esortativo, sapienziale, non dottrinale o sistematico, ma rivelano una grande familiarità con la teologia della vita consacrata e la spiritualità cristiana. In esse emergono alcuni nuclei tematici ricorrenti, che intendiamo evidenziare.

Nel documento Don Paolo Albera maestro di vita spirituale (pagine 133-136)