L'efficacia del messaggio allegorico stava proprio nella capacità di esprimere una pluralità di aspetti, ognuno dei quali contribuiva a comporre la vasta visione creata dal mito della grandezza della Serenissima. Lo spettatore veniva invitato a sorprendersi per l'apparizione delle divinità in città, ad apprezzare la citazione erudita degli eventi mitologici, ad ammirare lo sfarzo dello spettacolo, ma soprattutto lo spettatore doveva essere persuaso a credere nel significato di fondo nascosto nella festa, vale a dire l'esaltazione della gloria di Venezia.
Il linguaggio della letteratura mitologica, la forza delle immagini predisposte per rappresentare i miti e i concetti raccontati, le stesse competizioni agonistiche contribuivano a comporre un discorso complesso, variegato, eppure perfettamente coerente con l'idea di Venezia intesa come patria sovrana, luogo di pace e armonia e quindi
custode delle libertà, sede del vivere cortese e civile, dove le ingiustizie e i conflitti venivano evitati grazie alla grande saggezza maturata nei secoli della sua lunga storia.
La pluralità di significati trasmessi rendeva il messaggio allegorico adattabile e comprensibile ai destinatari più opposti, infatti i nobili, nel loro ruolo di classe dirigente, potevano apprezzare la finezza del messaggio ed esaltarsi alla celebrazione della città che governavano, a dimostrazione che le istituzioni da loro tenute stavano operando con saggezza e lungimiranza per il bene civico, mentre i popolani avevano l'occasione per apprezzare gli effetti positivi del buon governo. Inoltre la popolazione, esclusa dalle ricchezze e dal governo cittadino, durante le feste aveva la possibilità di far emergere i propri campioni, i quali a loro volta avevano l'occasione per mettersi in luce e quando vincitori, raggiungevano la gloria, entravano nell'epica popolare e venivano ricordati come eroi.
Al contempo anche i forestieri ricevevano l'impressione di una nazione ricca, che sapeva appunto conciliare gli opposti e coltivare la concordia sociale. Lo sfarzo delle feste serviva anche ad incantare gli ospiti stranieri, facendo notare di quanto favore divino godesse la città, al punto che anche i forestieri potevano convincersi che sarebbe stato un peccato turbare lo stato di pace che albergava nei domini della Serenissima. In questo modo la Repubblica riusciva a giustificare lo stato di neutralità che aveva scelto, resistendo con la seduzione della propaganda alle pressioni estere che sollecitavano l'intervento veneziano nelle guerre d'Europa. L'evento festivo, per quanto limitato nella durata temporale ad una sola giornata, utilizzando tutti gli strumenti che la cultura e l'arte potevano mettere a disposizione, era immaginato per evocare un passato glorioso, illuminare il presente di uno splendore idealizzato e soprattutto, puntava a produrre effetti positivi nell'immaginario collettivo tali da influenzare in positivo il futuro della Serenissima e delle sue genti.
Terzo capitolo
3.1 Introduzione
La Repubblica, nonostante l'evocazione della pace e della prosperità come principi fondanti dello stato e nonostante la necessità politica di rimanere neutrali, aveva accettato con fatica l'esito della guerra di Candia (1645-1669) che si era conclusa con la perdita dell'isola.
Le spese sostenute durante il conflitto di Candia avevano fatto aumentare il debito pubblico e avevano dissestato l'erario, ma come affermava il pubblico storiografo, Andrea Valier, nonostante l'impoverimento di molti, alcuni si erano arricchiti enormemente approfittando delle possibilità offerte dalla guerra. Erano stati venduti i beni di terraferma, con potenziale danno delle popolazioni che passavano dall'essere dipendenti della Repubblica a essere dipendenti di privati. Per compensare i servigi di chi si era particolarmente distinto in battaglia, si era ricorso alla distribuzione di onori e grazie agli eredi, affidando quindi cariche pubbliche a persone che magari non avevano alcuna abilità specifica per il compito assegnato. Si erano vendute cariche prestigiose della Repubblica per incamerare fondi per condurre le campagne militari; si era permesso ai giovani, dietro esborso di denaro, di entrare in Maggior Consiglio prima del tempo e, sempre pagando, si era permesso loro anche di accedere a incarichi pubblici. In questo modo i giovani si rendevano indipendenti dall'autorità familiare e interrompevano gli studi prima di aver completato la loro educazione contribuendo così allo svilimento delle cariche dello stato85.
Le perdite umane erano state tante, fra cui anche molti patrizi del Maggior Consiglio, eppure, la città nonostante le spese esorbitanti e nonostante i commerci non fossero stati sempre floridi, aveva dimostrato con i fatti di poter sostenere 25 anni di guerra che era costata una media di 5 milioni di
85 Gaetano COZZI, Dalla riscoperta della pace all'inestinguibile sogno di dominio, in Enciclopedia Treccani, Storia di Venezia, VII, La Venezia Barocca, a cura di Gino Benzoni e Gaetano Cozzi, Roma, 1997, p.36.
ducati all'anno86 ed infatti il doge Giovanni Pesaro, nel 1659, sosteneva
che la città aveva le capacità materiali, politiche ed umane per sopportare ancora lo sforzo bellico e d'altronde, fare sfoggio di ricchezza per far apparire agli alleati e ai nemici che la Serenissima aveva i mezzi per andare avanti come sempre, faceva parte della prassi politica perseguita dalle istituzioni cittadine87.
Ciò nonostante, la guerra venne terminata, ma la resa di Candia – conclusa dal capitano generale da mar Francesco Morosini nel 1669 – a dispetto delle condizioni onorevoli concesse dai Turchi, venne vista come una autentica sconfitta soprattutto dai nobili meno abbienti, quasi ad indicare che negli strati meno agiati della nobiltà e nei popolani si annidava una propensione al dominio e alla guerra che erano all'opposto del programma di pace e neutralità che invece la Repubblica perseguiva nelle sue decisioni diplomatiche e nella politica corrente.