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IL MITO DI DIANA E ATTEONE NEL RINASCIMENTO

Fonti letterarie nel ‘400

A partire dal 1330 con Arrigo Simintendi da Prato, si assiste all’avvio di operazioni di volgarizzamento de Le Metamorfosi dell’Ovidio “maggiore”, per permettere la trasmissione dei miti antichi anche al pubblico dei “non litterati”. Giovanni di Bonsignori da Città da Castello è stato il primo a seguire la scia del Simintendi con la sua opera Ovidio Metamorphoses Vulgare64 composta tra il 1375 e il 137765. Bonsignori, come il proemio dell’opera riporta, volgarizza le Metamorfosi e inoltre aggiunge alle narrazioni ovidiane delle allegorie confacenti ai racconti. In realtà, egli non fa che tradurre la Expositio di Giovanni del Virgilio unendovi poi le allegorie scritte di suo pugno, mosso dall’ambizione di arricchire le “laconiche informazioni” dei due testi di riferimento con spunti che accrescerebbero le vicende66. La traduzione in volgare delle Metamorfosi con Bonsignori inizia a perdere il suo contatto diretto con l’originale classico, diventando così un testo nuovo, originale e alla portata di tutti. L’autore dedica molto spazio al mito di Atteone: tre capitoli narrano la storia ovidiana seguiti da una considerazione allegorica ispirata a Giovanni del Virgilio. Nella parte allegorica Bonsignori riporta due versioni diverse. La prima racconta che:

“Ovidio puse questa fabula che la dea fesse ingiustizia contra de Ateon per questo essemplo: però ch’illi fu mandato in essilio da Ottaviano, perch’elli vidde lo

64 G. di Bonsignori, Ovidio Metamorphoses Vulgare, ed. crit. a cura di E. Ardissino, Commissione per

i Testi di Lingua, Bologna, 2001

65 Viene data alle stampe solo nel 1497 grazie all’intervento di Lucantonio Giunta

66 E. Ardissino, Narrare i miti in volgare. Le Metamorfosi tra Arrigo Simintendi da Prato e Giovanni di Bonsignori da Città di Castello, in G. M. Anselmi e M. Guerra, a cura di, Le Metamorfosi di Ovidio nella letteratura tra Medioevo e Rinascimento, Gedit edizioni, Bologna, 2006, pp. 55-74

‘mperadore vittuperosamente e carnalmente peccare, overo el disse perch’elli vidde la ‘mperadrice un dì nuda, sì come ne l’essordio se dechiara.”67

Secondo la prima versione allegorica, Ovidio avrebbe introdotto la fabula di Atteone come esempio, confrontandola alla sua punizione ingiustamente inflitta da Ottaviano che lo mandò in esilio perché vide l’imperatrice senza vesti68. Nella seconda versione

allegorica Bonsignori s’ispira all’interpretazione tramandataci da Fulgenzio, offrendoci così un Atteone che a un certo punto della vita inizia a provare una repulsione nei confronti dell’attività venatoria e a vederla come una “cosa vana” fino al punto di decidere di abbandonarla; nonostante tutto, continua ad accudire i suoi cani da caccia che l’hanno accompagnato per tutta la sua vita da cacciatore e che tuttavia alla fine lo condurranno alla distruzione totale. La trasformazione di Atteone in cervo indicherebbe infatti un uomo che “de ricchezza viene in povertà, che deventa timido come ‘l cervio e non ardisce apparere fra lle genti e così dagli altri ricchi reputato come bestia”.

Anche Boer nell’opera composta nella seconda metà del XV secolo, Ovide moralisé

en prose, fornisce due diverse versioni del mito di Diana e Atteone. La prima è frutto

sempre dell’influenza fulgenziana, mentre la seconda è molto interessante. Boer reinterpreta il mito classico sulla base di un retaggio cristiano: narra che Dio, in seguito al peccato originale commesso da Adamo ed Eva, manda suo figlio sulla terra dietro le sembianze di un cervo. Questo troverà poi la morte per mano di coloro che inizialmente lo avevano osannato e che poi arriveranno a tradirlo così come fecero gli amati cani di Atteone i quali, non riconoscendolo, lo braccano e lo divorano con foga.

67 G. di Bonsignori, Ovidio Metamorphoses Vulgare, cap.V-VII, ed. crit. a cura di E. Ardissino,

Commissione per i Testi di Lingua, Bologna, 2001

68 Nei Tristia, Ovidio introduce la vicenda di Atteone come exemplum della propria, con il fine di

Verso la fine del Quattrocento, l’umanista Raffaello Regio, attivo a Padova e Venezia, inizia a raccogliere i vari studi compiuti sulle Metamorfosi allo scopo di realizzare un commento del poema ovidiano. Il commento uscirà poi nel 1493 con il titolo di

Metamorphoseon Publius Ovidii Nasonis libri XV69. Questo testo presenta una tipologia d’approccio ai miti diversa da quelle precedenti e per questo motivo incontra un gran favore presso i lettori italiani e francesi. Rispetto per esempio a Bonsignori, il quale si era dedicato allo studio dei miti in chiave allegorica, Regio non forza un significato altro da quello che la favola, così come ci è narrata dall’autore antico, trasmette. L’umanista intende infatti effettuare un ripristino della cultura antica non solo dal punto di vista contenutistico, ma anche di quello stilistico, riconoscendo una compiutezza e ricchezza ineguagliabile della letteratura pagana. Il suo approccio essenzialmente filologico, a tratti moraleggiante dove è possibile esserlo, ma pur sempre non allegorico, è dimostrato anche nel racconto della storia di Diana e Atteone. Egli riporta che Atteone venne trasformato in cervo e sbranato dai suoi cani per aver scorto la dea Diana senza vesti. Continua poi il discorso delineando la figura del cacciatore: un uomo molto dedito all’arte della caccia che per la sua passione arrivò a dilapidare tutti i suoi averi; è possibile quindi leggere tra le righe un invito dell’autore alla moderazione.

Nel corso del ‘400, in risposta al movimento umanistico e al diffondersi degli studi classici, si forma un pensiero di opposizione contro la ricezione delle favole antiche; a venire criticata era soprattutto la loro diffusione nella chiesa e nelle scuole. Le

Metamorfosi, con i loro racconti di dei e amori frivoli, vengono considerate un

prodotto dell’immoralità e un’opera pericolosa per lo sviluppo morale e religioso dei

lettori soprattutto più giovani. Anche Savonarola con una predica del 1496 si scaglia contro la diffusione dei miti ovidiani negli istituti di formazione, ritenendo irriverente il metodo di interpretazione dei miti pagani simile a quello impiegato per le Sacre Scritture. Le critiche mosse da questi uomini di chiesa o cultura contro i testi classici rimangono comunque isolate poiché a partire dalla fine del XV secolo gli antichi miti sono già permeati in tanti campi artistici: nella lirica, nella poesia narrativa, nella pittura, nella scultura, nelle arti decorative (maioliche, tappeti, oggetti ornamentali), nelle rappresentazioni teatrali, nei balletti e nei cortei celebrativi70. Il mito, come

abbiamo visto con Regio, verso la fine del secolo inizia a liberarsi dai vincoli dell’allegoria e viene sempre più apprezzato per la sua autenticità classica, per la sua bellezza, e per il fascino delle fabulae narrate tanto da essere adottato come cornice ornamentale per celebrare la vita di corte.

Vorrei concludere questa prima parte del capitolo riportando un esempio di impiego dei nostri protagonisti in un inusuale contesto, ovvero nell’opera storica di Tristano Calco, coadiutore nella cancelleria sforzesca dal 1470. Egli ci ha lasciato una confusa ma minuziosa descrizione dell’incontro storico (e romantico) avvenuto nel gennaio 1489 nella città di Tortona tra il giovane Gian Galeazzo Sforza e la diciassettenne Isabella d’Aragona. I due si recarono, infatti, nella città baluardo del Ducato milanese per scambiarsi le promesse nuziali di fronte al vescovo Giacomo Botta e permettere così di creare un’alleanza tra gli Sforza e i governanti di Napoli. Ludovico il Moro, lo zio dello sposo, “che voleva fare stupire il mondo con la ricchezza e la raffinatezza culturale milanese, diede vita ad un matrimonio-spettacolo, celebrato con un sontuoso

70 B. Guthmüller, Mito e metamorfosi nella letteratura italiana. Da Dante al Rinascimento, Carocci

banchetto e con un intrattenimento teatrale, tra i più rilevanti del secondo Quattrocento italiani, per certi aspetti, anzi, unico nel suo genere”71. Cerimoniere di eccezione fu

Leonardo da Vinci che ebbe l’incarico dal Moro di realizzare qualcosa di mai visto: un trionfo di musica, poesia, cibo, ballo e intrattenimento da far invidia a tutte le corti europee. Secondo la testimonianza registrata dal Calco, per la prima volta nella storia le portate furono servite in tempi successivi, anziché essere raccolte in un unico momento; ciò fu possibile per permettere lo svolgimento dei festeggiamenti durante tutte le portate. Ogni portata era infatti preceduta da un attore, un mimo, un cantante con un soggetto adeguato alla situazione, preso in prestito dalla storia antica e dai miti dei poeti classici. La stretta relazione tra il presentatore mascherato, la sua “storia” e la portata introdotta è un’ulteriore novità che prima d’ora non era necessaria. L’apertura del banchetto fu affidata a Mercurio che offre un vitello “argentato” ripieno di uccelli vivi e altri due arrostiti contenenti fagiani cotti; al primo presentatore seguono Giasone, Atalanta e finalmente la dea Diana. Il presentatore/attore che vestiva i panni della dea della caccia si presentò al banchetto con un cervo arrostito, come puro riferimento alla storia che la/lo lega al cacciatore Atteone.

Fonti figurative quattrocentesche

Tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento, assistiamo a un vero e proprio rinnovamento e aggiornamento delle immagini che andavano a corredare i testi in circolazione, e non solo. Questa spinta rinnovatrice coinvolge inizialmente le miniature contenute nell’Epistre d’Othéa di Christine de Pizan72, databili intorno alla

71 U. Rozzo, La festa di nozze sforzesca del gennaio 1489 a Tortona, in “Libri e documenti”, 14, II,

1989, p. 10

metà del XV secolo. Le immagini in questione non seguono gli schemi iconografici tradizionali, ma vogliono essere una reinterpretazione libera da parte dell’artista delle storie degli dei trasferite dalla sfera celeste a quella terrena, in linea con il gusto e l’interesse dell’epoca. Per la specifica illustrazione del mito di Diana e Atteone (fig. 21), notiamo immediatamente l’inserimento di un elemento nuovo all’interno della raffigurazione del mito: la fontana. Questo elemento architettonico era andato ad affermarsi nell’iconografia del mito di Atteone già nei primi decenni del ‘400, come vedremo, ad esempio, nelle immagini che vanno a decorare i deschi da parto rinascimentali.

21. Miniatura dell’Epistre d’Othéa, Bibliothèque Royale, Bruxelles, XV sec.

.

La miniatura in questione mostra al centro una fontana esagonale nella quale Diana e le sue ninfe stanno facendo il bagno, e sulla destra Atteone a cavallo che le sorprende durante il momento di svago. E’ possibile notare immediatamente la particolare iconografia: la scena non è ambientata in prossimità di una fonte naturale, come narrato nel testo ovidiano, bensì vicino a una fontana; l’ambiente ricostruito è ben curato e

armonico con l’elemento architettonico, sicuramente non affine all’ambiente selvatico descritto da Ovidio; di Diana e delle ninfe si scorgono appena le nudità, in linea con il pensiero moraleggiante vigente, ma indossano dei copricapi tipici della moda del periodo; Atteone, accompagnato da tre cani, cavalca un cavallo nero e veste gli abiti di un cavaliere; tutto questo è riconducibile a un interesse diffuso per i poemi epico- cavallereschi che in questo periodo incontrano una riscoperta e rivalutazione da parte degli scrittori quattrocenteschi. Tornando all’immagine, possiamo notare negli atteggiamenti dei personaggi femminili che l’arrivo del cavaliere/Atteone crea disagio tra le “dame”: quella al centro si volta verso Diana, sulla sinistra, come per avvertirla dell’arrivo dell’“ospite” inaspettato, l’altra ninfa afferra subito un velo per coprire le nudità della dea mentre Diana, dall’alto della sua superiorità divina, si limita ad alzare una mano. Alle sue spalle è visibile un cervo, non ancora menzionato, come prefigurazione del destino di Atteone e della sua tragica rovina.

Per comprendere meglio l’originale iconografia della miniatura contenuta nell’Epistre

d’Othéa è utile esaminare il testo di riferimento. In primo luogo, possiamo asserire che

l’Epistre rappresenta la prima raccolta iconografica della mitologia antica, per il fatto che fornisce un’illustrazione per ogni singolo episodio. Ciascuno dei capitoli poi è diviso in un texte, che racconta brevemente la storia mitologica, una glose, che dispensa consigli utili per il cavaliere che vuole raggiungere la virtù e la nobiltà cavalleresca e, infine, un’allegorie, o moralizzazione dell’episodio, che intende fornire le norme morali da perseguire per nobilitare l’animo del destinatario73. La miniatura

va a rappresentare pertanto la sintesi dei racconti e dei suoi accessori presenti nel

73 E. Carrara, Mitologia antica in un trattato didattico-allegorico della fine del Medioevo: “l’Epistre d’Othéa di Christine de Pizan” in “Prospettiva”, 66, Aprile 1992, pp. 67-86

capitolo 69 dedicato al mito di Diana e Atteone. L’artista innanzitutto pone al centro la fontana poiché è la stessa Christine che ne parla esplicitamente nel capitolo: “elle baigner en une fontaine clere et belle”74. Inoltre, secondo Carrara, illustra uno schema

riassuntivo sulla reinterpretazione che l’autrice compie dell’episodio che coinvolge la dea della caccia e il cacciatore Atteone. Dal momento che la Chiesa riteneva che l’arte venatoria fosse un’attività oziosa, Christine reinterpreta il mito prendendo le mosse dal pensiero cristiano: nella glose espone il monito di non dilettarsi troppo nella caccia e di evitare l’ozio, e nell’allegoria troviamo l’esortazione a praticare la penitenza; Atteone infatti diventa un cervo con l’intento di espiare le proprie colpe, principalmente l’ozio (la caccia). Il protagonista dell’episodio adorava cacciare, ma questa sua passione è giudicata ora eccessiva al punto tale da fungere da esempio per una vita dedita alla moderazione e al non superamento di determinati limiti. L’elemento della fontana può essere infatti teso a significare uno spazio che all’uomo non è concesso oltrepassare, un limite che l’uomo non può superare a causa della sua natura finita. Secondo l’interpretazione di Claudia Cieri Via, questo elemento architettonico rappresenterebbe invece l’hortus conclusus. Sostiene che l’origine di questa iconografia sia legata a “un’interpretazione cortese del tema, secondo cui lo spazio riservato al bagno di Diana viene assimilato al giardino d’amore”75. Il giardino

d’amore deriva la sua forma e significato dall’hortus conclusus ma si trasforma in un luogo in cui dame e cavalieri godono dell’amor cortese.

Prima della fine del XV secolo, precisamente nel 1497, viene pubblicata la prima edizione in volgare illustrata, pubblicata da Lucantonio Giunta a Venezia sotto il titolo

74 C. de Pizan, Epistre d’Othéa, a cura di G. Parussa, Droz, Genève, 1999, pp. 295-297

75 C. Cieri Via, Diana e Atteone, Continuità e variazione di un mito nell’interpretazione di Tiziano, in Problemi teorici e proposte iconologiche. Il mito di Diana nella cultura umanistica, Il Bagatto, Roma,

di Ovidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni di Bonsignori. Essa viene appunto corredata da immagini che, pur nella riproposta dei moduli narrativi sintetici, si avviano ad emancipare l’Ovidio volgare dalle moralizzazioni del secolo appena concluso.

22. Diana e Atteone, illustrazione dall’Ovidio Metamorphoseos vulgare, 1497

La xilografia (fig. 22) presenta i due momenti culmine del mito di Diana e Atteone. A sinistra, vediamo Atteone, armato di arco, che sorprende la dea con le ninfe in un momento di svago e Diana è, al contempo, rappresentata pronta a lanciare lo schizzo d’acqua funesto contro il cacciatore. A destra, assistiamo invece alla scena finale dello sbranamento del cacciatore, ormai mutato in cervo, da parte dei suoi adorati cani. Possiamo affermare, osservando questa incisione, che non emerge nessun tipo di reazione da parte delle ninfe alla vista del cacciatore e non si legge neppure lo stupore nell’espressione di Atteone, come invece si evince dai versi ovidiani. Le xilografie che arricchiscono questa edizione, realizzate da un artista ignoto, hanno avuto decisamente un ruolo determinante nell’iconografia dei miti ovidiani. Mettendo, infatti, a

disposizione un repertorio a carattere narrativo e fortemente semplificato, servirono da modello iconografico per tutte le illustrazioni delle Metamorfosi successive.

Nel corso del ‘400, si fa ricorso alla mitologia ovidiana anche nella cosiddetta “pittura di cassone”, una produzione a scopo matrimoniale e domestico che includeva i deschi da parto, i cofanetti da fidanzamento (i cosiddetti “forzierini”) e i cassoni, per la quale venivano scelti temi di amore, virtù, fecondità, matrimonio, consoni alla funzione degli oggetti appena elencati. Tra questi, intendo rivolgere l’attenzione al desco da parto, un particolare oggetto della pittura quattrocentesca fiorentina legato ad un momento importante della vita familiare, la nascita del primo figlio. La sua funzione originale era quella di vassoio dove posare i doni o il cibo da offrire alla donna nelle ore o nei giorni subito successivi al lieto evento; tuttavia, possiamo affermare che col tempo viene commissionato o trasmesso per via ereditaria con il solo scopo di recare buon auspicio alla nuova famiglia76. Se i deschi sono oggetti da cerimonia legati alle

congratulazioni per il lieto evento, il loro augurio è rivolto quasi sempre alle coppie più che ai neonati e “le immagini sono metafora di un programma ideologico connesso agli affetti famigliari, all’etica matrimoniale fatta di moniti, prescrizioni, modelli ideali che l’insieme dei soggetti presentati dai vassoi dipinti sembra svolgere, spesso a due voci, una nel recto e l’altra nel verso”77. Il primo tema a cui gli artisti fecero ricorso è naturalmente l’amore; il tema amoroso si presenta così attraverso la rappresentazione del Giardino d’Amore oppure sotto forma di Caccia Amorosa. Ed è in questi soggetti specifici che il mito di Diana e Atteone trova spazio: nel Giardino la parte centrale è occupata dalla fontana, elemento architettonico inserito a fine 1300, intorno alla quale

76 C. de Carli, I deschi da parto e la pittura del Primo Rinascimento Toscano, U. Allemandi, Torino,

1997, p. 9

il mito si dipana; nella Caccia d’Amore, invece, la fontana non viene più posta in evidenza ma è il paesaggio, più austero e roccioso, a fungere da fondo per il racconto ovidiano. Il primo esempio di desco da parto pervenutoci, che ha come episodio dominante il mito di Diana e Atteone, è risalente alla fine del Trecento e conservato al Fine Arts Museum di San Francisco (fig. 23).

23. Maestro della Madonna Lazzaroni, Diana e Atteone e scene tratte dalla Caccia di Diana, desco da parto, The Fine Arts Museum, San Francisco, 1380 -1400

La composizione, complessa ma armonica, si articola su tre fasce e ci mostra i diversi momenti della storia. Nella zona superiore troviamo Atteone che sorprende Diana e le sue ninfe mentre fanno il bagno in uno stagno; nella fascia centrale sono rappresentate la metamorfosi del giovane in cervo e la sua caccia ad opera dei suoi stessi cani; in primo piano, infine, appare la dea della caccia in abiti scuri, con un falco sul pugno, circondata da alcune ninfe mentre altre, sulla destra, sono impegnate nell’attività

venatoria di un cinghiale. Lo stile del disegno pare richiamare l’arte cortese con le sue figure allungate, i cui movimenti sono assecondati dalle pieghe delle vesti, la stilizzazione del paesaggio e il gusto per la favola antica. La tavola viene attribuita a varie botteghe e personalità della fine del ‘300; è però M. Boskovits, in una lettera del 27 giugno 1979, che propone il nome del Maestro della Madonna Lazzaroni, un pittore della cerchia orcagnesca attivo negli ultimi decenni del Trecento così denominato per essere l’autore di una tavola della collezione Lazzaroni. Questa attribuzione viene riportata anche ne “La Chronique des Arts” e viene accettata dal museo che custodisce il desco a tal punto da conservare persino la lettera menzionata poc’anzi. L’autore dell’opera si ispira molto probabilmente al poemetto della Caccia di Diana di Boccaccio, soprattutto nella rappresentazione delle fanciulle in primo piano che sono “catturate” dall’artista durante una battuta di caccia, pare dietro ordine della dea Diana. Per molti aspetti questo desco richiama quello del Metropolitan Museum di New York (fig. 24), nell’andamento compositivo, nei costumi dei personaggi, nella raffigurazione della natura e degli animali; tuttavia, quest’ultimo non illustra il mito di Atteone ma riproduce episodi tratti dalla Commedia delle Ninfe fiorentine di Boccaccio.

24. Maestro del 1416, Ameto e le Ninfe, desco da parto, Metropolitan Museum of Art, New York

Ritroviamo il mito che stiamo analizzando sulla superficie pittorica di un desco da parto della metà del XV secolo. Gli oggetti domestici in questione subiscono il

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