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IL MITO DI DIANA E ATTEONE IN EPOCA MEDIEVALE

Il mito nel Medioevo

Nei primi secoli dopo Cristo, i Padri della Chiesa47 iniziano ad assumere una posizione di netto rifiuto della cultura antica, in quanto subordinata a quei culti pagani giudicati superstiziosi e primitivi. Il ripudio della cultura greco-romana non si riferiva soltanto ai suoi contenuti e ai suoi valori, ma riguardava anche lo stile e il suo linguaggio. Infatti, è una creazione della cultura cristiana il sermo humilis: un discorso quotidiano che richiedeva uno stile e un linguaggio umili. Il primo teorico del sermo humilis è Sant’Agostino (350-430), il quale è stato anche promotore della battaglia culturale contro i contenuti della cultura classica. E’ interessante notare che, pur servendosi dello stile umile, egli fa contemporaneamente uso degli strumenti della retorica classica, anticipando in qualche modo quella mediazione tra cultura classica e cristiana che finisce col prevalere nei secoli successivi. Si assiste infatti nel giro di pochi anni alla nascita di un fenomeno culturale e storico, il cosiddetto Medioevo latino, che tende a reinterpretare i testi di storia e la stessa mitologia greca e romana alla luce del Cristianesimo; prima allegoricamente poi in chiave morale. Il testo per eccellenza che subisce questa rivisitazione sono le Metamorfosi di Ovidio, che conobbero una grande diffusione in età medievale. Esse venivano considerate la “Bibbia dei pagani”48, in

quanto non solo custodivano l’intero sapere mitologico antico, ma rappresentavano anche il punto di riferimento per poeti ed artisti, contemporanei e non. L’uomo medievale iniziò quindi a estrapolare da questi miti così noti e diffusi un significato

47 I Padri della Chiesa sono quegli scrittori che avevano preso le difese della nuova religione cristiana

contro il mondo pagano, gettando così le basi della cultura cristiana.

48 B. Guthmüller, Mito e metamorfosi nella letteratura italiana. Da Dante al Rinascimento. Carocci

moraleggiante che si conciliasse con la nuova tendenza. Uno dei primi teorici di questa

transformatio fu Boezio nel VI sec., a cui Dante si riferisce, come poi vedremo tra

poco. L’autore invece più ricordato per aver tenuto vivo il culto della latinità fu Arnolfo d’Orléans, vissuto nel XII secolo. Egli per il suo discorso prende le mosse partendo dal noto testo ovidiano e sostenendo l’esistenza di tre diversi tipi di metamorfosi che le favole vanno a raccontare: la naturale, cioè la trasformazione della materia per dissolvimento; la magica, ovvero la trasformazione di corpi ma non dello spirito, che rimane inalterato; la spirituale, che corrisponde al tramutarsi dell’animo in un corpo immutato49. Nel caso del mito di Diana e Atteone, ci troviamo di fronte, secondo la distinzione arnolfiana, a una trasformazione magica, poiché il cacciatore che viene mutato in cervo subisce la trasformazione esclusivamente a livello esteriore, conservando invece lo stato mentale di essere umano. Arnolfo è ricordato, inoltre, per aver compiuto una mutatio moralis dei miti ovidiani; nel caso specifico del mito di Atteone, il protagonista maschile viene presentato come un uomo che a un certo punto si rende conto dell’inutilità della venagione50 e viene trasformato in cervo per

simboleggiare il suo intento di fuggire da quella passione praticata per tutta la vita. Il finale tragico, rappresentato dai cani che divorano il loro padrone, allude, secondo la versione di Arnolfo, a quella dipendenza morbosa del cacciatore dai propri cani, che lo porta inevitabilmente alla rovina. L’aspetto cruento di questo episodio doveva servire come esempio educativo per coloro i quali erano schiavi di un vizio da cui non sapevano distaccarsi. Arnolfo è stato il primo ad aver ridotto ogni favola ovidiana a un

49 F. Ghisalberti, Arnolfo d’Orléans: un cultore di Ovidio nel XII secolo, in “Studi Virgiliani”,

pubblicati in occasione delle celebrazioni bimillenarie (1930) della Reale Accademia Virgiliana, vol. 9, pp. 194-198 e 207-209, Mantova, 1932.

significato moraleggiante, conciliando il sapere antico e profano con quello cristiano. Una delle fonti da cui prende ispirazione sono i racconti dei Mitografi Vaticani, ovvero favole dell’antichità reinterpretate in chiave allegorica da tre scrittori che vissero tra il IX e il XII secolo.

Nel XIII secolo compare un poemetto, di chiara derivazione ovidiana, scritto da Giovanni di Garlandia: gli Integumenta ovidii. L’autore si colloca nel solco della tradizione medievale della transformatio moralis, ma per quanto riguarda la storia di Atteone preferisce interpretarla storicamente discostandosi anche dalla tradizione fulgenziana; racconta che il cacciatore viene ucciso dalla sua “gente” durante una battuta di caccia e dato in pasto ai cani. Per questo motivo viene immaginato come un cervo impaurito e fuggente51.

Nei primi anni del Trecento, anche Dante Alighieri ne La Divina Commedia introduce in alcuni canti il motivo della metamorfosi, ispirandosi alle ormai notissime

Metamorfosi di Ovidio. Questo testo viene reinterpretato da Dante in chiave moderna,

attraverso l’adesione allo schema medievale della “transformatio moralis”. Leggendo il canto XIII dell’Inferno, ci imbattiamo in due delle metamorfosi appena citate, che rimandano, per alcuni aspetti, alla storia di Diana e Atteone. Ci troviamo nella selva dei suicidi e degli scialacquatori, ovvero i violenti contro se stessi e contro i propri beni, e la scena presentata non è delle più rosee. I primi vengono puniti dopo la morte attraverso la trasformazione dei loro corpi in piante, condannati però a mantenere la loro parte razionale. Questo aspetto rievoca indubbiamente la metamorfosi dell’Atteone ovidiano, trasformato nelle sembianze di un cervo ma capace allo stesso tempo di pensare e soffrire come un uomo. Gli altri, gli scialacquatori, vengono

rappresentati in fuga da cagne nere, le quali inseguono e sbranano i peccatori quasi fossero cinghiali o cervi. Anche in questo caso il riferimento al mito di Atteone è evidente nella scena dello strazio dei corpi ad opera di cani. I due episodi narrati da Dante celano significati moraleggianti, in linea con la tradizione della “mutatio moralis” menzionata poc’anzi. In particolare, per quanto riguarda i suicidi, la trasformazione in piante viene intesa come punizione per essersi allontanati dallo stato di grazia donato da Dio; invece, gli scialacquatori vengono puniti per aver peccato di dissipazione verso i propri beni, e condannati ad essere inseguiti da cagne nere che simboleggiano i rimorsi e la paura che tormentano i peccatori. Dante, nel compiere questa mutatio, trae ispirazione da un testo di Boezio,

Consolatio philosophiae, in cui viene sviluppato il concetto del peccato che riduce

l’uomo a una “bestia”.

Tra il 1316 e il 1328 viene composta una versione allegorica del mito di Atteone, che troviamo nel III libro dell’Ovide Moralisé: un riadattamento in versi delle Metamorfosi di Ovidio scritto da un frate francescano di cui non si ha traccia. Egli, a ogni episodio mitologico ovidiano, aggiunge materiale esplicativo che di fatto razionalizza, storicizza oppure allegorizza la fiaba di riferimento e, inoltre, vi introduce immagini atte a completare il progetto moralizzante52; quelle che illustrano il mito in esame le analizzeremo nel capitolo seguente.

Un ruolo rilevante nella trasmissione delle fabulae antiche fino al Rinascimento lo ha avuto Giovanni del Virgilio con la sua Expositio. Si tratta di un testo basato su una lezione universitaria, incentrata sull’Ovidio “maggiore” tenuta nel 1322 a Bologna, e

52 M. Desmond, The Goddess Diana and the Ethics of Reading in the Ovide Moralisé, in A. Keith, S.

Rupp, Metamorphosis. The Changing Face of Ovid in Medieval and Early Modern Europe, CRRS Publications, Toronto, 2007, pp. 62-63

volgarizzato successivamente da Giovanni dei Bonsignori. Il professore si servì di letture allegoriche per affrontare il discorso ovidiano per poi sviluppare un lavoro del tutto innovativo. Come rivelò il Ghisalberti, editore delle esposizioni delvirgiliane, Giovanni non presenta riferimenti mitologici, storici, geografici, secondo lo stile enciclopedico dell’esegesi medievale, ma elabora piuttosto “una parafrasi della narrazione ovidiana, senza alcuna finalità di carattere dottrinatorio”53. Egli quindi, a

differenza dei suoi predecessori e alcuni contemporanei, abbandona l’interpretazione mistica a favore di un’interpretazione profana. Per quanto riguarda l’episodio di Atteone, i versi di Giovanni evidenziano l’originaria condizione agiata di dominus del protagonista, ridotto a servo dalla povertà e dalla folle dissipazione dei propri beni nell’inutile attività della caccia, sulla scia del mito fulgenziano54.

Uno dei più grandi scrittori del Trecento, Francesco Petrarca, si trova ad assistere alla lezione di Giovanni del Virgilio durante il suo soggiorno a Bologna tra il 1322 e il 1323; rimane probabilmente affascinato dal lavoro innovativo del professore, tanto da decidere di continuare a rivolgersi a quei miti così lontani con un atteggiamento nuovo e personale. Egli era un lettore appassionato degli autori antichi, di cui nominiamo solo Orazio, Virgilio, Cicerone, ma è Ovidio che gli entra nel profondo. Conosceva i Fasti, le Heroides, i Tristia, ma risultano le Metamorfosi tra i libri peculiares del poeta: un testo che non aveva più bisogno di leggere. Loredana Chines scrive: “La seduttività narrativa e immaginifica delle Metamorfosi consentiva alla poesia petrarchesca di proiettare la propria esperienza biografica e poetica nelle forme eterne dei miti letterari

53 F. Ghisalberti, Giovanni del Virgilio espositore delle “Metamorfosi”, Olschki, Firenze, 1933, p. 9 54 L. Chines, La ricezione petrarchesca del mito di Atteone, in G. M. Anselmi e M. Guerra, a cura di, Le Metamorfosi di Ovidio nella letteratura tra Medioevo e Rinascimento, Gedit edizioni, Bologna,

ovidiani”55. Petrarca, infatti, si serve delle fabulae di Ovidio, e le reinterpreta in chiave personale e autobiografica, per inserirle in una poetica nuova: la lirica amorosa. Tra i miti in questione appare rilevante l’episodio di Atteone, che attira l’attenzione dello scrittore per la punizione divina legata al peccato della vista. Egli prende in prestito alcuni motivi che incorniciano l’episodio ovidiano (il locus amoenus, la ragazza sorpresa al bagno, l’importanza dello sguardo) per poi utilizzarli per parlare di avventure erotiche. L’innamoramento diviene così con Petrarca una delle chiavi di lettura della favola, che condizionerà in seguito scrittori e artisti. In particolare, le sofferenze di Atteone, provate nella scena dello strazio ad opera dei suoi cani, diventano la metafora del tormento dell’amante, divorato dalla passione per una donna che lo respinge. La prima occasione in cui è possibile trovare la figura del cacciatore Atteone è all’interno del Canzoniere. Quest’opera scritta in volgare, il cui titolo originale era Rerum Vulgarium Fragmenta, riunisce un certo numero di testi poetici accomunati dall’impegno dello scrittore di valorizzare l’interiorità complessa e misteriosa dell’io. Il tema principale e caratteristico del libro è l’amore per Laura, una giovane dama per la quale Petrarca arde d’amore. Il primo incontro di Petrarca con questa donna viene probabilmente narrato nel testo XXIII del Canzoniere, la cui numerazione corrisponde esattamente all’età in cui il poeta conobbe Laura. La canzone in questione, definita comunemente “la canzone delle Metamorfosi”, ripercorre vari miti ovidiani, tra i quali spicca quello di Atteone, collocato in ultima posizione. Il poeta qui non nomina espressamente Atteone; parla di un cacciatore che non è altro che l’assimilazione del proprio “io” poetico con l’eroe. Il protagonista petrarchesco non è una vittima innocente come in Ovidio, ma una vittima del suo error, del desiderio di

contemplare volontariamente la dea nuda. In questi versi il poeta indugia sul particolare della metamorfosi in cervo, e lo fa non casualmente, ma per il forte valore simbolico che l’episodio riveste: la passione amorosa fa abbandonare all’uomo la propria condizione e lo riduce a bestia. La bestia protagonista dell’episodio è il cervo; esso viene descritto come “errante e solitario”, due aggettivi comunemente impiegati per alludere alla solitudine interiore dell’io del poeta e ai tormenti della passione che lo costringono a vivere il suo dolore in solitudine.

Il mito di Atteone compare pure nel madrigale56 LII dello stesso Canzoniere. Nel

componimento viene menzionato per la prima volta il nome di Diana, la protagonista femminile della favola. Ciò non avviene, invece, nella canzone XXIII precedentemente analizzata, in cui soltanto due aggettivi, “fiera e cruda”, vengono impiegati per indicare la dea/Laura. Il madrigale canta un momento particolare della storia d’amore del poeta: quando vede Laura bagnare un velo che serviva per raccogliere i suoi bei capelli biondi. Il poeta in questo caso fa un parallelo tra la visione di Diana al bagno da parte di Atteone e lo sguardo rivolto dal poeta verso il suo oggetto del desiderio che si trovava presso una fonte. Qui il particolare mito appare quasi più esornativo che simbolico, è inserito in un quadro idillico-campestre (Laura è evocata con il sostantivo “pastorella”), venato di sfumature di fine erotismo e animato da toni leggeri e soavi, che ben si addicono al genere metrico impiegato. Altre volte il poeta torna sul mito di Atteone: nella Metrice, nell’Africa e nelle Familiares ma senza quel fascino e quella grazia che accompagnano i due componimenti sopra analizzati.

56 Madrigale: genere poetico-musicale polifonico del Trecento, a carattere lirico e di argomento per lo

Proviene dalla Francia un amico di Petrarca e un autore medievale che nella metà del ‘300 arriva a completare una vasta enciclopedia del sapere medievale: Petrus Berchorius, anche chiamato Pierre Bersuire. E’ però importante ricordare la sua opera mitologica, l’Ovidius Moralizatus57 (da non confondere con l’Ovide Moralisé),

completata nel 1340. Egli compie qui una reductio moralis liberando i miti dagli elementi che contrastavano con la religione cristiana, ma allo stesso tempo è interessato anche al loro significato storico e naturale. A proposito della figura di Atteone, Bersuire riprende una versione precedentemente moralizzata, rappresentandolo come un uomo ricco che, a un certo punto della vita, cade in miseria e viene abbandonato e maltrattato dai suoi cortigiani.

Un altro grande poeta del Trecento che affronta il mito di Atteone con un atteggiamento moderno e oserei dire sperimentale, è Boccaccio (1313-1375). Egli infatti, soprattutto nel periodo della giovinezza, testa generi letterari diversi, trasforma o addirittura rovescia i miti classici e li contamina con nuove visioni. La caccia di

Diana58 è il suo primo poemetto in terza rima dantesca, scritto durante il soggiorno

napoletano nei primi anni Trenta. Narra della dea Diana che raduna le più “leggiadre” donne di Napoli e le invita a partecipare a una battuta di caccia all’interno di uno scenario fiabesco, un vero e proprio locus amoenus. Le donne così si dividono in gruppetti e danno il via alla mattanza. Una volta conclusa la battuta di caccia, Diana propone alle donne di sacrificare le prede a Giove e a lei stessa, dea della caccia ma anche della castità. Una di loro, però, la donna amata dal poeta e di cui ignoriamo il nome, si contrappone al volere della dea e invoca l’aiuto di Venere. Grazie

57 F. Ghisalberti, L’Ovidius Moralizatus di Pierrre Bersuire, in “Studi Romanzi”, 23, Roma, 1933, pp.

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all’intervento della dea dell’amore, ogni animale ucciso si trasforma così in “giovinetto gaio e bello”; persino il poeta stesso, l’io narrante, rivela di essere stato anch’esso un cervo, mutato da Venere in un uomo colmo di ogni virtù, grazie alla mediazione della miracolosa bellezza della donna amata. E’ evidente, nella conclusione della storia, il rovesciamento in positivo del mito classico di Diana e Atteone, e non solo: viene rinnovato anche nei significati allegorici e allusivi. In particolare, il cervo sembra ora investito di un valore allegorico che gli aveva attribuito in passato la cultura cristiana: una figura simbolo di rigenerazione, e di trasformazione dell’amore sensuale e carnale in un amore spirituale. L’animale in questione ricorda quelli contenuti nei bestiari medievali che simboleggiavano il Cristo, per via della sua capacità di riprender vita, di rigenerarsi. Il cervo-narratore subisce sì il fascino dell’amore ma il suo destino si rivelerà lieto poiché viene trasformato in una “creatura umana e razionale”. Il poemetto si inserisce nella lirica amorosa ed è l’amore, infatti, il portatore di una spinta così forte e nobilitante da poter trasformare un animale in essere umano virtuoso.

Boccaccio nominerà Atteone anche nel Filocolo, ritenuta l’opera più importante della sua giovinezza. Si tratta di un romanzo di avventura e d’amore scritto secondo la tradizione cortese proveniente dalla Francia. Per l’introduzione della figura di Atteone nell’egloga XI59, il poeta sceglie di discostarsi di nuovo dalla versione ovidiana,

facendolo apparire sotto una luce positiva: chiama Cristo “Actheon pium” e i suoi persecutori e giustizieri sono i “cani” che lo portano alla morte, proprio come accade nel mito di Atteone.

59 G. Boccaccio, Bucolicum carmen, XI, 192, in A. Massera, a cura di, Opere latine minori, Laterza,

L’interesse di Boccaccio per la mitologia lo porterà persino a comporre una delle sue opere più importanti: la Genealogia Deorum gentilium, ovvero la Genealogia degli

Dei pagani. E’ un trattato e insieme un repertorio di mitologia, uno dei più vasti

dell’epoca. Si distingue sia per l’organizzazione logica sia per il rigore filologico, che porta l’autore a indicare le proprie fonti e a perseguire un ideale di fedeltà rispetto ai testi classici, inusuale a quell’epoca. I miti sono distinti a seconda della loro origine, che può essere storica, naturale oppure morale. Per quanto riguarda Atteone, viene presentato e narrato secondo la sua origine storica e seguendo alla lettera le versioni più rilevanti, indicate dall’autore stesso. Per quanto concerne la dea Diana, Boccaccio propone un’origine naturalistica, presentandola come una figura succube della Luna; il che può spiegare nell’ordine: l’assenza in lei del desiderio carnale, la sua freddezza nei confronti degli uomini, gli attributi della dea della caccia come le frecce che simboleggiano i raggi lunari, la sua frequentazione dei boschi le cui piante sono rese fertili grazie al potere lunare. Questa caratterizzazione della dea Diana come dea lunare, fredda e pura ispirerà la poesia e l’arte figurativa del XVI sec. nella creazione della Diana di Fontainebleau, distaccata e misteriosa, che riscuoterà un gran successo nel territorio francese.

Possiamo affermare, in conclusione, che nel panorama letterario medievale coesistono varie versioni e rimaneggiamenti dei miti classici: chi li reinterpreta inserendoli nella lirica amorosa, chi li racconta riferendosi alla loro origine storica o naturalistica e chi invece li rivisita donando loro un significato moraleggiante in linea con la mentalità dell’epoca.

Fonti figurative del mito in età medievale

Durante l’epoca medievale, il più delle volte, la raffigurazione del mito di Diana e Atteone seguiva alla lettera le descrizioni degli autori classici, di Ovidio in particolare, senza osare fornire interpretazioni oppure celare significati nascosti, come in realtà fecero gli autori della stessa epoca. Uno dei primi esempi che testimonia questa tradizione iconografica risale all’Alto Medioevo, al V sec. d.C., ed è la raffigurazione che decora una pisside eburnea60 conservata nel Museo del Bargello.

14. Pisside eburnea con Artemide e la sua ninfa, Museo del Bargello, Firenze, V sec.

Questa testimonianza, di origine copta, è divisa in due episodi ben distinti. Nel primo (fig. 14), troviamo la dea Diana raffigurata genuflessa, senza vesti, colta nell’atto di bagnarsi in uno specchio d’acqua, suggerito da delle linee ondulate tese a imitare il movimento dell’acqua. La dea ha i capelli raccolti e volge lo sguardo verso Atteone mostrando nei suoi confronti un sentimento di ira attraverso il gesto di un braccio levato. E’ accompagnata da una ninfa, posta sulla sinistra, anch’essa senza vesti ma col corpo impreziosito da una collana con un grande pendente; il suo sguardo è rivolto

60 Pisside: è un oggetto liturgico usato nel periodo medievale come recipiente per l’Eucarestia, per

custodire le reliquie, l’incenso oppure l’olio consacrato. Le pisside eburnee datate ai sec. IV-V recano prevalentemente rilievi intagliati con raffigurazioni tratte dalla mitologia pagana, che si sono

verso l’interno e mostra anche lei un senso di disapprovazione alzando il braccio destro. Un accenno di un albero, pecore e capre richiamano la scena bucolica in cui il

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