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Morire senza colpa Iconografia del mito di Diana e Atteone nell'eta moderna.

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Università di Pisa

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in Storia e Forme delle Arti Visive,

dello Spettacolo e dei Nuovi Media

Classe LM-89: Storia dell’arte

Tesi di Laurea Magistrale

Morire senza colpa

Iconografia del mito di Diana e Atteone nell’età

moderna

Relatore: Candidata:

Prof. Vincenzo Farinella Gelsomina di Ronza

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INDICE

Introduzione ... 4

CAPITOLO I: I PROTAGONISTI DEL MITO ... 8

Artemide ... 8

Atteone ... 15

CAPITOLO II: IL MITO DI DIANA E ATTEONE NELL’ETA’ ANTICA .... 19

Fonti letterarie antiche ... 19

Fonti figurative antiche ... 28

CAPITOLO III: IL MITO DI DIANA E ATTEONE IN EPOCA MEDIEVALE ... 44

Il mito nel Medioevo ... 44

Fonti figurative del mito in età medievale ... 54

CAPITOLO IV: IL MITO DI DIANA E ATTEONE NEL RINASCIMENTO 61 Fonti letterarie nel ‘400 ... 61

Fonti figurative quattrocentesche ... 65

CAPITOLO V: IL MITO DI DIANA E ATTEONE NEL CINQUECENTO .... 85

Versioni letterarie cinquecentesche del mito ... 85

Il mito di Diana e Atteone nelle illustrazioni delle Metamorfosi e sui “piatti di nozze” cinquecenteschi ... 95

Affreschi e dipinti cinquecenteschi sul mito di Diana e Atteone. ... 114

Tiziano e la sua visione del mito di Diana e Atteone ... 140

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CAPITOLO VI: IL MITO DI DIANA E ATTEONE NELL’ETA’ BAROCCA

... 155

Versioni letterarie seicentesche del mito: Marino e i marinisti ... 155

Il mito nella pittura del primo ‘600 ... 164

Interpretazioni del mito in Italia… ... 181

…e nelle Fiandre ... 203

CAPITOLO VII: IL MITO DI DIANA E ATTEONE NEL XVIII SECOLO . 217 Il mito nella letteratura settecentesca ... 217

La dea e il cacciatore nell’arte settecentesca in Italia… ... 224

…e in Europa ... 251

CAPITOLO VIII: IL MITO DI DIANA E ATTEONE DALL’OTTOCENTO AI GIORNI NOSTRI ... 259

La favola antica nella letteratura tra Ottocento e Novecento ... 259

Diana e Atteone nell’arte ottocentesca ... 272

Recupero del mito classico nell’arte contemporanea ... 283

Metamorphosis: Titian 2012 ... 292

Bibliografia ... 302

Sitografia ... 313

Indice delle immagini ... 314

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Introduzione

“Vedde il gran cacciator; comprese, quanto è possibile e dovenne caccia; andava per predare e rimase preda questo cacciator”. Giordano Bruno, De gli Eroici Furori, 1585

Da sempre il mondo della mitologia è riuscito a conquistare la mente e i cuori di scrittori ed artisti, che si sono avventurati nei meandri delle storie di dei ed eroi, per fornire una personale interpretazione capace di coinvolgere il lettore oppure lo spettatore. Tra le numerose storie mitologiche giunte fino a noi, e note prevalentemente grazie alle Metamorfosi di Ovidio, ho scelto di affrontare nel presente elaborato finale il mito di Diana e Atteone, in quanto ho da sempre subito il fascino della casta dea, pronta a compiere atti terribili perché spinta dai valori in cui credeva. Con sorpresa, però, sono venuta in seguito a conoscenza che una mia collega aveva trattato il medesimo mito in una tesi finale di una decina di anni fa, decidendo però di soffermarsi sino all’epoca barocca. Ho così preferito esaminare dal punto di vista iconografico questo mito con l’aiuto di testi ed immagini, focalizzando maggiormente l’attenzione sull’età moderna, addentrandomi brevemente fino ai giorni nostri. La storia che lega inevitabilmente la dea della caccia e il cacciatore ha origini molto remote e la sua fortuna è andata crescendo secolo dopo secolo in virtù della molteplicità di interpretazioni a cui è stato sottoposto.

Prima di iniziare ad analizzare le fonti testuali e visive, ho deciso di dedicare il primo capitolo alle due figure protagoniste della vicenda, presentando al lettore per prima la dea Diana, descritta attraverso i molteplici aspetti che ha acquisito nei diversi culti diffusi nella Grecia e nella Roma antica, e poi chiudendo con una breve descrizione

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del cacciatore Atteone, divenuto noto per essere stato tramutato in cervo per mano della dea della caccia. I motivi che hanno portato a questo terribile atto sono svariati e le varie versioni che esistono a riguardo sono rapidamente percorse in questo capitolo iniziale. Nel capitolo successivo ho preso in esame, nella prima parte, le fonti letterarie antiche che hanno trattato di questo mito e, nella seconda, le fonti figurative che ci sono pervenute. Sono così partita dal testo più antico risalente al VII sec. a. C. nato dalla “penna” di Esiodo, percorrendo poi in ordine cronologico le varie versioni degli autori antichi, rivolgendo la mia attenzione in maggior misura a quelle fornite da Ovidio, Callimaco, Apuleio e Nonno di Panopoli. Nella seconda parte ho preso invece in esame le fonti figurative antiche, dividendo quelle di tradizione arcaico-classica da quelle ellenistico-romana. Ho, quindi, preso come riferimento questo procedimento di analisi, ripetendolo per ciascuna epoca: effettuando un iniziale approfondimento delle fonti letterarie, poi di quelle figurative, con l’intenzione di dare un taglio iconografico e iconologico all’intero elaborato. Ho così proseguito con l’epoca medievale, in cui, a livello letterario, i miti venivano reinterpretati in funzione della religione cristiana. Tra i maggiori esponenti menzioniamo tra gli altri Dante, che fa del mito in questione una

transformatio moralis. Le raffigurazioni del mito, in quest’epoca, seguivano invece

alla lettera le descrizioni degli autori antichi, ed è proprio da questo momento che inizia a diffondersi, per la maggior parte dei casi, una rappresentazione ispirata alle parole di Ovidio, secondo il quale Atteone viene tramutato in cervo per aver visto involontariamente, presso una fonte, la casta dea senza vesti. Uno degli esempi figurativi è cesellato su una pisside eburnea conservata al Museo del Bargello di Firenze. E’ in epoca rinascimentale che si assiste all’avvio di operazioni di volgarizzamento de Le Metamorfosi ovidiane per permettere la trasmissione del mito

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anche a un pubblico meno colto. Queste versioni vengono accompagnate da illustrazioni più o meno elaborate, che arriveranno, in epoche successive, a invadere l’intero spazio testuale. Il mito di Atteone, a partire dal ‘400, inizia ad essere impiegato nella cosiddetta “pittura di cassone”, una produzione a scopo matrimoniale che includeva deschi da parto, cassoni e cofanetti. Giungiamo in tal modo, dopo quest’ampia premessa, al Cinquecento, in cui l’impiego del mito in esame arriva a maturazione: viene infatti introdotto nei cicli ad affresco, come ad esempio nella Rocca dei Sanvitale a Fontanellato, dove il Parmigianino distribuisce, in un’intera saletta, la vicenda che coinvolge il cacciatore, reinterpretata secondo l’intento del committente. L’episodio inizia ad essere dipinto anche su tela, non solo da pittori italiani, come Sodoma e Veronese, ma anche stranieri, tra i quali Lucas Cranach il Vecchio e Clouet. Ho stabilito, tuttavia, di dedicare una parte a sé stante alle opere di Tiziano sull’argomento, che hanno avuto il “potere” di influenzare i pittori successivi. Chiude il capitolo l’analisi del mito all’interno de De gli Eroici Furori di Giordano Bruno, che fornisce al lettore un’interpretazione filosofica mai eseguita finora. In età barocca e rococò, il mito comincia ad attraversare un periodo buio, per quanto riguarda il versante letterario: nel ‘600 viene trattato da Giambattista Marino, che osa mescidare l’argomento mitologico alle verità cristiane, e per questo motivo largamente criticato; nel ‘700 trova spazio in alcuni esiti della “società” letteraria chiamata Accademia d’Arcadia, nata per rispondere alle critiche mosse da letterati francesi nei confronti della lingua e della letteratura italiana. Nel versante artistico, il Seicento è un’epoca piena di contraddizioni, riscontrabili anche all’interno delle fonti: il mito di Atteone ha la fortuna di essere impiegato sia da artisti italiani che esteri all’interno di composizioni dal gusto barocco, come quelle realizzate da Joseph Heintz il Vecchio,

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Giuseppe Cesari, Albani, Domenichino, Carracci. Viene però introdotto con una versione più personale da due autori provenienti dalle Fiandre, Rubens e Rembrandt, ai quali ho dedicato un intero spazio conclusivo. Nel Settecento razionale e in continua evoluzione, il mito prende piede nelle varie realtà italiane di Venezia, Genova, Milano e Napoli, venendo rappresentato non solo sotto forma di dipinto ma anche di scultura, come quella collocata all’interno della Reggia di Caserta.

Ho, infine, deciso di concludere l’elaborato inserendo esempi chiarificatori di come il mito della dea e del cacciatore viene ereditato e rivisitato in epoca ottocentesca e contemporanea, per cercare di chiudere, in un certo senso, il discorso iniziato con l’età antica.

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CAPITOLO I: I PROTAGONISTI DEL MITO

Artemide

Chiamata Diana dai Romani, Artemide è una delle dodici divinità dell’Olimpo. Figlia di Zeus, il sovrano di tutti gli dei, e Leto1, non una semplice ninfa, bensì una

discendente della nobile stirpe dei Titani, nasce a Delo lo stesso giorno in cui viene al mondo Apollo, suo fratello gemello, con cui sovente condivide sia i tratti caratteriali sia gli attributi divini.

E’ considerata una delle divinità più venerate e celebrate, e anche una delle più antiche. Il suo nome infatti, di origini ancora oscure, compare già dal XIII sec a.C. in alcune tavole micenee in lineare B ed è stato accertato, inoltre, un legame con l’Asia Minore, apparendo tra gli dei di Licia e di Lidia2. Artemide potrebbe derivare da artemès “sano, vigoroso”, qualità che senza dubbio descrivono la dea, vigorosa e forte, capace anche di infondere forza e salute agli altri; oppure da àrtamos “macellaio” o da àrktos, nome che designava la dea Artio.

A Perge, in Panfilia, Artemide era una dea venerata con grande devozione, e ciò è testimoniato dai resti del tempio dedicato alla dea, situato al confine dell’antica città. E’ ad Efeso, inoltre, che viene costruito il celebre tempio per il culto della dea, ritenuto una delle sette meraviglie del mondo. Conosciuta anche con l’appellativo di “Signora

1 Chiamata Latona dai Romani, venne amata da Zeus, dal quale ebbe due gemelli: Artemide e Apollo.

Leto venne abbandonata inizialmente dal Dio per timore della collera di Era, la quale, tuttavia, venne a scoprire il tradimento e prese a perseguitare la fanciulla. Era, adirata, ordinò a tutte le terre di rifiutare l’ospitalità a Leto. Così finì per vagare per mesi alla ricerca di un rifugio finché Zeus, venuto in suo aiuto, le offrì riparo nell’isola di Ortigia, che poi prenderà il nome di Delo. In quest’isola arida e desolata darà alla luce prima Artemide e in seguito Apollo, il quale nascerà con l’ausilio della piccola Artemide

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di Efeso”, veniva adorata soprattutto come dea della fertilità, una figura lontana dall’immaginario successivo greco, simile alla dea frigia Cibele. Mentre in epoca greca Artemide viene ritratta come una giovane con arco e frecce, le statue provenienti da questa zona mostrano segni di origine asiatica, rappresentata con il busto coperto di protuberanze rotondeggianti. Una delle statue in questione è conservata al Museo archeologico di Efeso, a Selçuk, in Turchia (fig.1).

1. Autore sconosciuto, Artemide di Efeso, Museo Archeologico di Efeso, Selçuk (Turchia), IV-III sec. a.C.

La statua di culto della dea ha un aspetto originale e inconfondibile. La giovane donna è fasciata da una veste particolare, che segue le linee del corpo, rendendola quasi una mummia. Sulla sua testa, sulle spalle, sulle braccia e sulla veste stessa sono scolpiti animali domestici e selvatici, realizzati in maniera realistica ed egregia. Ciò che colpisce è indubbiamente il suo petto, adornato di rilievi simili a mammelle. Leggendo

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alcuni articoli a riguardo, tuttavia, ci rendiamo conto che l’interpretazione di questi elementi sia ancora incerta. L’analisi iniziale secondo la quale i rilievi in questione fossero seni, intesi a nutrire tutti noi e le bestie incise, ponendo Artemide come la dea della natura e della fertilità, è stata confutata a favore di una tesi più attendibile, a mio avviso. Gli oggetti in questione dovevano rappresentare in realtà le offerte di miele, racchiuse in sacche scrotali di toro, che i devoti del culto ad Artemide usavano appendere al collo della statua, la loro ape Regina. Questa tesi è supportata dai numerosi ritrovamenti di monete e spille, decorate con Artemide rappresentata con il busto di ape, e dal fatto che il simbolo della città di Efeso fosse un’ape.

Non c’è dubbio che alcuni aspetti microasiatici siano stati presi in prestito dal culto greco. Il motivo iconografico di una dea, spesso alata, come ad esempio nelle monete di Efeso citate poc’anzi, oppure circondata da animali selvaggi disposti in maniera simmetrica, influenza l’immaginario classico. Nell’Iliade Artemide è chiamata Pòtnia

theron, “Signora degli animali”, signora di tutta la natura, dei pesci, degli uccelli, dei

leoni e dei cervi, delle lepri e delle pecore. E’ l’incarnazione della natura: selvaggia, libera, nutritiva e distruttrice. Protegge i suoi animali, ma al tempo stesso li bracca, esultando di ciò. E’ una cacciatrice, armata di arco e frecce, che insegue e uccide le fiere di notte al lume di una torcia. E’, da sempre, la dea della caccia.

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2. Diana (detta Diana di Versailles), Copia da una statua greca del IV sec. a.C., Museo del

Louvre, Parigi

Nella fig. 2 è possibile vedere la scelta iconografica che si è affermata e prevalsa in epoca classica per la realizzazione di effigi della dea. La celebre “Diana di Versailles” viene raffigurata con un chitone corto, alti calzari, e colta nell’atto di afferrare una freccia, con la mano destra, dalla faretra alle sue spalle mentre con la sinistra agguanta per le corna un cervo, animale molto caro alla dea.

Se nell’Iliade di Omero si evince uno dei numerosi attributi divini di Artemide, Callimaco nell’Inno dedicato alla dea3, contenuto nel testo Inni del III sec. a.C.,

descrive i doni che la piccola Artemide chiede al padre Zeus in un momento di tenerezza tra i due: l’eterna verginità, tanti nomi quanti ne ebbe il fratello Apollo, un arco e frecce come ha ricevuto il fratello, il compito di portare la luce, una tunica corta

3 Callimaco, Inni, III, Ad Artemide, vv. 1-58, in: Inni, Epigrammi, Ecale, a cura di G. B. D’Alessio,

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al ginocchio per poter andare a caccia, sessanta giovani Ninfe oceanine, tutte di nove anni, come sue damigelle, venti ninfe provenienti da Amniso, affinché si prendano cura dei suoi calzari e dei suoi cani quando lei non è impegnata nella caccia, tutte le montagne del mondo e, infine, una città a scelta del padre, lontana dalle città degli uomini4. Il padre Zeus risponde alla piccola con un sorriso colmo d’orgoglio e accoglie le sue richieste, offrendole inoltre trenta città devote al culto della dea.

Anche nell’Odissea Omero nomina Artemide, scelta come figura di paragone per delineare il profilo della vergine Nausicaa5: “Come Artemide saettatrice va su per i

monti, o per il Taigeto dal lungo crinale o per l’Erimanto, godendo dei cinghiali o delle cervi veloci e insieme con lei giocano le Ninfe abitatrici dei campi, figlie di Zeus egìoco – ne gioisce Latona nel cuore – e lei tutte sopravanza con il capo e la fronte, e ben si distingue e tutte son belle; così lei fra le ancelle spiccava, la vergine intatta”. E’ qui presupposta l’immagine di Artemide cacciatrice, che usa arco e frecce (“saettatrice”), e che prova piacere nei cinghiali e nelle cerbiatte in quanto obiettivo dei suoi dardi. Il curatore dell’Odissea che ho consultato, Vincenzo di Benedetto, sostiene che Omero, per aver fornito delle coordinate così esatte del luogo frequentato dalla divinità, (“Artemide saettatrice va […] per il Taigeto dal lungo crinale o per l’Erimanto”), confermi il culto della dea praticato a quel tempo nella città di Pilo6, nel

Peloponneso, che già era stato attestato in una tavola in lineare B di epoca micenea

4 Artemide è anche la dea che viene invocata durante il parto e preferisce abitare in un luogo lontano

dagli uomini che la chiamano per necessità. “La mia dimora sarà sui monti e le città degli uomini frequenterò soltanto quando, morse dagli acuti dolori del travaglio, in aiuto mi chiamino le donne. Dalle Moire ebbi in sorte, appena nata, di assisterle, poiché nel partorire e nel portarmi non soffrì mia madre, ma, senza alcun dolore, mi depose dalle sue membra” Ivi, vv. 30-39

5 Omero, Odissea, VI, a cura di Vincenzo di Benedetto, BU1R Biblioteca Universale Rizzoli, 2010,

pp. 395-397

6 Il Taigeto e l’Erimanto, menzionati nei versi omerici, sono infatti due rilievi montuosi che

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ritrovata nella stessa città. La dea è quindi descritta nell’atto di andare su per le cime delle due montagne, in compagnia delle sue compagne: figure graziose che prediligono una vita appartata, in diretto contatto con la natura, dette appunto “abitatrici dei campi”. In questa immagine bucolica fornita dall’autore greco, Artemide spicca per la sua natura libera, in continuo movimento, una giovane che vive da sola, cacciando in luoghi remoti.

E’ utile sottolineare che Artemide e il suo seguito, come ricordato da Omero, richiamano alcuni elementi ritualistici. Nell’antica Grecia, a volte le ragazze, giovani “ninfe”, venivano messe per un periodo al servizio di Artemide, nella cornice di un rituale iniziatico7. Nel tempio di Braurone, nei pressi di Atene, venivano compiuti i cosiddetti Protéleia per la dea venerata. I Protéleia erano sacrifici e offerte alla dea – giocattoli, oggetti personali, ciocche di capelli – vissuti dalle fanciulle con particolare inquietudine in occasione dell’abbandono della condizione di verginità. La figura della vergine si sviluppa proprio dal sacrificio. Artemide è, infatti, la signora dei sacrifici, persino di quelli cruenti.

La Dea ha anche un carattere vendicativo. Uno dei suoi primi atti fu quello di mettere a morte i figli di Niobe, insieme al fratello Apollo. Il compito venne affidato ai due dalla loro madre che, udita Niobe dichiararsi un’eroina superiore, ne provò collera e disprezzo e ordinò ai figli di eliminare l’intera prole della donna. Mentre Apollo uccideva i sei ragazzi, sorpresi durante una battuta di caccia, la dea faceva lo stesso alle sei figlie, rimaste a casa. Risultò vendicativa anche nei confronti di una ninfa del suo seguito, Callisto, che aveva avuto probabilmente soltanto la colpa di un eccessivo

7 I. Girardi, Passione e morte nell’iconografia del mito di Diana e Atteone dalle origine al Seicento,

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affetto verso la dea. Secondo quanto riporta Ovidio ne Le Metamorfosi, la ninfa si era involontariamente concessa a Zeus, che l’aveva sedotta sotto le sembianze della dea Artemide. Qualche mese dopo, Callisto, che fino ad allora era riuscita a nascondere l’accaduto, venne scoperta dalle sue compagne e dalla dea durante un bagno, e venne cacciata duramente. Fu quando le nacque il figlio che la moglie di Zeus, Era, decise di trasformare Callisto in un’orsa. L’episodio che andrò ad analizzare nel presente elaborato è anch’esso frutto di una vendetta della dea. Questa volta nei confronti del cacciatore Atteone, reo di aver scorto Artemide, secondo la versione ovidiana, senza vesti, mentre si bagnava in una fonte.

Abbiamo scoperto, in conclusione, che Artemide ha mille sfaccettature. E’ la dea della caccia, signora degli animali e protettrice della loro prole; è anche la dea del parto: invocata nei momenti di più acuto dolore, ricopre il compito di assistere le gestanti e recar loro conforto; col tempo, è identificata persino come dea della luna; al tempo stesso, tuttavia, presenta dei lati oscuri, che la rendono a tratti minacciosa, crudele, vendicativa, come abbiamo potuto riscontrare in alcuni episodi menzionati poc’anzi. Queste caratteristiche, che la rendono unica e la più venerata sopra tutte le altre divinità, vengono in seguito recuperate nell’Antica Roma per identificare la poliedrica dea Diana.

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Atteone

Atteone, l’altro grande protagonista del mito, è un giovane di Tebe, figlio di Aristeo8,

un cacciatore e un pastore produttore di miele e olio, e di Autonoe9. Allevato ed istruito

da Chirone, il mite e saggio centauro, è divenuto nel tempo un cacciatore valente e abilissimo. Tuttavia, diventa celebre per un orribile e cruento episodio: viene tramutato in cervo per mano della dea Diana e sbranato dai suoi stessi cani. I motivi che hanno portato a questo terribile atto sono svariati ed esistono diverse versioni a riguardo. A partire dalla fine del VII secolo e fino al V secolo a.C.10, Atteone viene presentato

come corteggiatore di Semele, sua zia peraltro, e responsabile della furia del dio Zeus, innamorato della stessa donna. L’ira del dio si manifesta nel momento in cui ordina alla figlia Artemide di punire il giovane: la dea della caccia tramuta infatti, per volere del padre, il giovane in cervo e lo fa divorare dai propri cani. L’aspetto della punizione inflitta ad Atteone a causa dell’innamoramento e dell’intenzione di sposare Semele compare nei racconti di Esiodo e di Stesicoro. Quest’ultimo, tuttavia, sostituisce la trasformazione di Atteone con l’introduzione del motivo della dea Artemide che getta una pelle di cervo sull’eroe, aizzando i suoi cani contro di lui. A questa versione si ispirerebbe la nota metopa del V sec. a.C. del frontone proveniente dal tempio dorico dedicato alla dea Era a Selinunte, conservata al Museo Archeologico di Palermo (fig. 3). Da questo rilievo possiamo cogliere i gesti e le azioni dei protagonisti, profondamente significative: la dea imperturbabile e avvolta da un’austerità divina,

8 E’ figlio di Apollo e della ninfa Cirene (Callimaco IV, 20; Nonno di Panopoli XIII, 256; Diodoro IV,

269)

9 E’ figlia di Cadmo e di Armonia. Cadmo, fondatore e re di Tebe, ebbe in moglie Armonia, la figlia

di Ares e Afrodite, dalla cui unione nacquero cinque figli: Autonoe, Ino, Agave, Semele e Polidoro. (Esiodo, Teogonia, 935-937; Euripide, Le Baccanti, 239; Nonno di Panopoli, Dionisiache, V, 269)

10 E. Mugione, La punizione di Atteone: immagini di un mito tra VI-IV sec. a.C., in “Dialoghi di

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con un gesto induce alla violenza i tre cani contro il loro padrone e, al lato opposto, il giovane sembra dare inizio a una lotta con i propri segugi, allontanandone uno dalla morsa e cercando di liberarsi dagli altri due. I due personaggi sono così effigiati in maniera contrastante e coinvolgente.

3. Metopa proveniente dal tempio E a Selinunte, Museo Archeologico, Palermo, 475-460 a.C.

Tornando alle differenti interpretazioni del mito, secondo il racconto di Euripide, considerato il più moderno dei grandi tragici ateniesi, l’eroe venne condannato a morte per essersi vantato di essere superiore alla dea Artemide nell’arte della caccia. Lo scrittore ideò così non solo una nuova versione del mito, ma se ne servì per fornire un esempio dei miti in cui un mortale corse il pericolo di offendere una divinità. A tal

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fine, paragonò le vicende di Atteone a quelle di Penteo, uno dei protagonisti delle

Baccanti, collocandole entrambe in un luogo ben preciso, il monte Citerone.

Callimaco, in seguito, racconta che dietro la condanna a morte di Atteone vi è un motivo irragionevole, se vogliamo: la visione di Artemide mentre fa il bagno. Si passa in tal maniera dalla “giusta” punizione delle più antiche versioni del mito a quella ingiusta di Callimaco, che ispirerà da questo momento gli artisti e gli scrittori futuri. Il motivo suggerito da Callimaco viene soprattutto ripreso e consolidato da Ovidio, nelle Metamorfosi. Egli preferisce evidenziare la casualità dell’incontro del cacciatore con la dea, sottolineando al tempo stesso l’innocenza di Atteone, la rabbia di Diana, e la conseguente superbia divina offesa. Nonno di Panopoli, pur abbracciando il modello callimacheo, presenterà il giovane come un contemplatore della dea, dando così un’impronta diversa alla storia.

Per ciò che riguarda le rappresentazioni figurative, si passa dalla pelle di cervo gettata dalla dea sul giovane eroe a una vera e propria metamorfosi dell’uomo nell’animale, rappresentata dalle corna sulla fronte di Atteone oppure dalla pelle del cervo che diviene mantello.

Atteone, insomma, come sostiene Irene Girardi nel suo elaborato11, muore come un cervo, ed è un cervo. Lo sguardo posato sulla dea lo conduce a un destino fatale, innescando un meccanismo di ribaltamento: passa così da cacciatore a preda, a cervo. Un animale che, in epoca antica, simboleggiava un essere col cuore debole, codardo, posto il più delle volte in contrasto con l’audace leone. Aspetti che sicuramente sono

11 I. Girardi, Passione e morte nell’iconografia del mito di Diana e Atteone dalle origine al Seicento,

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andati ad associarsi alla figura di Atteone, “costruito probabilmente non per suscitare pietà nello spettatore, semmai il suo disprezzo”12.

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CAPITOLO II: IL MITO DI DIANA E ATTEONE NELL’ETA’ ANTICA

Fonti letterarie antiche

Il testo più antico che introduce il mito della dea della caccia Artemide e del cacciatore Atteone risale al poeta Esiodo (fine VIII sec. a.C.- inizio VII sec. a.C.) e ci è stato tramandato nel papiro Michingan 1447 del VII sec. a.C.13 Il poeta greco racconta che il giovane venne trasformato in cervo da Artemide, su richiesta del padre Zeus, il dio dell’Olimpo, per aver desiderato sposare Semele. Il cacciatore, che divenne preda, verrà successivamente braccato e dilaniato dai suoi stessi cani.

Tra il settimo e il sesto secolo a.C., il mito di Atteone viene ripreso dal poeta Stesicoro, pseudonimo di Tisia di Imera (630 a.C.-555 a.C.). Di questo sfortunatamente non possediamo né testi né frammenti di testo, ma solamente una citazione nel Viaggio

della Grecia, opera dello scrittore Pausania (110-180 d.C.). Nel IX volume, l’autore ci

conduce attraverso le città della Beozia e, nel rievocare le antiche imprese di Tebe, menziona alcuni scrittori antichi, tra i quali Stesicoro: “[…] Stesicoro di Imera scrisse che la dea gettò attorno ad Atteone una pelle di cervo, facendo così in modo che i suoi cani lo uccidessero. E questo – dicono – per impedirgli di sposare Semele”14. Sebbene svanisca qui la metamorfosi in cervo, il motivo della punizione pare continuare a ruotare attorno alla figura di Semele.

Nel V sec. a.C. Eschilo dedica un’intera tragedia, intitolata Toxotides15, al mito di

Atteone. Di questa, tuttavia, ci sono pervenuti soltanto pochi frammenti e, per cui, non

13 Esiodo, Catalogo delle donne, (frammento Acusilao) pubblicato da Renner T., A Papyrus dictionary of Metamorphoses in “Harvard studies in Classical philology”, 82, 1978, pp. 282-287 14 Pausania, Viaggio in Grecia, IX, Beozia, a cura di Salvatore Rizzo, Classici Bur Rizzoli, Milano,

2013, pp. 101-102

15 Eschilo, Toxotides, Tragicorum graecorum fragmenta, a cura di Nauk, Lipsiae 1889, Fr 241 e 244,

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è possibile sostenere con certezza il motivo per il quale il cacciatore veniva punito, anche se è probabile che avesse preso esempio dagli scrittori precedenti. Possiamo solo ricavarne l’abilità nella caccia cui si aggiungono la marginalità e la sessualità prorompente16. Successivamente, sarà Polluce a fornire ulteriori elementi dell’opera di Eschilo, descrivendo Atteone come kerasphoros, ovvero portatore delle corna di cervo, alludendo perciò alla sua trasformazione17.

Sulle cause della morte di Atteone emergono altre versioni. Ne Le Baccanti di Euripide (408-406 a.C.), Cadmo cerca di persuadere Penteo a riconoscere la natura divina di Dioniso, implorandolo di non sfidare il dio del vino. Nel recitare questa preghiera, gli ricorda la sorte subita da Atteone, suo cugino, che fu sbranato dai cani che lui stesso aveva allevato poiché “si era vantato di essere un cacciatore migliore di Artemide”18.

Atteone costituisce nel testo di Euripide un termine di paragone, poiché entrambi offendono una divinità e periscono in modo atroce: l’uno ucciso dai propri cani, l’altro dalla propria madre. Appare evidente, pertanto, il filo che lega la morte di Atteone e la sorte di Penteo, sottolineato persino dalla medesima ambientazione dei due episodi: il monte Citerone.

Sarà Callimaco (310-240 a.C.) negli Inni a introdurre per la prima volta il motivo della visione proibita della dea Artemide al bagno. Lavacrum Palladis è l’Inno in cui compare il mito di Atteone, dedicato al bagno della dea Atena Pallade19. Apre la

narrazione una serie di disposizioni rivolte alle fanciulle che partecipano al rito;

16 M. Menichetti, Metamorfosi: una trama di sguardi tra Grecia e Roma. Il caso di Atteone e Diana,

in Eidola 8, 2011, pp. 45-50

17 A.M. Cirio, Fonti letterarie ed iconografiche del mito di Atteone, in “Bollettino dei Classici”,

Accademia dei Lincei, 25-27, 1977-1979, pp. 44-60

18 Euripide, Le Baccanti, vv. 339-340, edizione consultata a cura di V. Di Benedetto, Classici Greci e

Latini Bur, Milano, 2004, pp. 187-188.

19 Callimaco, Inni, V, Lavacrum Palladis, in Inni, Epigrammi, Ecale, a cura di G.B.D’Alessio,

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l’ultima delle quali, la più interessante, afferma che nessun uomo può vedere la dea nuda senza rischiare una punizione atroce, come accadde a Tiresia. Egli, infatti, senza volerlo, vide la madre Chariclo e Atena senza vesti mentre si rinfrescavano a una fonte. La dea, resasi conto di essere osservata, si adirò e reagì rendendolo cieco nonostante i lamenti della madre. A scopo consolatorio, Atena ricordò alla ninfa che il suo gesto era riconducibile a una legge divina, e che Tiresia, seppur punito duramente, aveva comunque ricevuto una sorte migliore rispetto a quella che avrebbe coinvolto Atteone20. Quest’ultimo, infatti, subirà una punizione spietata per aver scorto la dea

Artemide al bagno: verrà sbranato dai suoi stessi cani, e i suoi resti e le sue ossa, sparsi per i boschi, verranno poi raccolti dalla madre Autonoe, distrutta dal dolore per la perdita del suo unico figlio.

Diodoro Siculo (60-30 a.C.) fornisce una versione personale del mito, insieme a una variante già ritrovata in opere precedenti. Sostiene che Atteone sia stato punito crudelmente per due possibili cagioni: o per aver desiderato festeggiare le nozze nel tempio di Diana con carni di animali a lei consacrate oppure per essersi vantato di essere più valente della dea nell’arte della caccia21. Secondo l’autore della Biblioteca

storica, entrambe le motivazioni possono aver effettivamente offeso la dea; asserisce,

tuttavia, che per una dea illibata che detesta e disprezza le nozze, la celebrazione di un convivio nuziale nel suo edificio sacro possa essere considerato come un vero e proprio insulto.

20 Ivi, vv. 107-110: “Ma la figlia di Cadmo quante offerte un giorno brucerà, quante Aristeo! E

imploreranno di vedere cieco l’unico figlio, il giovane Atteone” pp. 187-188

21 Diodoro Siculo, Biblioteca storica di Diodoro Siculo volgarizzata dal Cav. Compagnoni, Sonzogno,

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Nella letteratura latina il mito di Atteone figura sotto forma di parodia nell’opera Res

Rusticae di Varrone (37 a.C.). L’eroe, in questo caso, viene menzionato in un discorso

generico in relazione al nutrimento dei cani, che doveva essere procurato con diligenza e con continuità. Se questo non fosse accaduto, i cani sarebbero stati spinti a cercare cibo altrove o ad attaccare persino il proprio padrone, così come era successo ad Atteone.

Due scrittori, che vivono a cavallo del I secolo, il greco Apollodoro22 e il romano Seneca23, forniscono in due opere di stile completamente differenti una versione simile

e molto ampia. Entrambi introducono dettagli della vita di Atteone omessi in molte interpretazioni citate nelle pagine precedenti, come per esempio la sua istruzione ad opera di Chirone; sostengono la tesi del motivo della visione proibita della dea Diana al bagno come cagione della punizione divina; aggiungono, inoltre, il dettaglio dei cani, i quali ignari di aver tolto la vita al loro padrone, lo cercarono a lungo nel luogo dell’accaduto fino a quando non arrivarono presso la grotta di Chirone, che commosso dalla loro fedeltà, creò un simulacro di Atteone per un fine consolatorio.

Nei primi anni del I sec. d.C., precisamente tra il 3 e l’8 d.C., compare tra gli scritti latini un testo che descrive in maniera dettagliata e ricca di particolari la vicenda in esame: Le Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone24.

Il celebre autore narra il mito di Diana e Atteone nel III libro ai versi 155-255, tessendo la trama in modo accattivante, provocando in tal modo un coinvolgimento singolare da parte del lettore. Ispirandosi a Callimaco, Ovidio racconta che “seguendo la guida

22 Apollodoro, Biblioteca, III, 4, 4, Collana degli antichi storici greci volgarizzati dal Cav.

Compagnoni, Milano, 1826, pp. 112-116

23 Seneca, Edipo, a cura di G. Padano, Bur Classici latini e greci, 1993, p. 95

24 Ovidio, Metamorfosi, III, a cura di A. Barchiesi e G. Rosati, Fondazione Lorenzo Valla- Arnoldo

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del fato” Atteone scorse Diana e le sue ninfe mentre si bagnavano presso una fonte, innescando una forte reazione della dea. Questa, infatti, accortasi di essere stata vista senza vesti, in assenza delle sue frecce, si servì dell’acqua per mutare il cacciatore in cervo e attuare così la sua vendetta. Atteone, resosi poi conto delle sue nuove sembianze, iniziò a escogitare un modo per affrontare questa paradossale situazione, ma non ebbe nemmeno il tempo di meditare che i suoi cani25 lo scorsero tra gli alberi e non ebbero pietà di quel che era diventato il loro padrone. Il macabro spettacolo, riporta Ovidio, si svolse sotto gli occhi di Diana, la cui ira si placò soltanto quando vide Atteone esanime sul terreno boscoso.

Dal racconto ovidiano ciò che emerge di interessante è l’innocenza di Atteone, il quale arriva alla fonte e scorge Diana senza veli del tutto casualmente. Secondo il critico letterario Charles Segal26, lo scrittore latino mette, infatti, in dubbio la giustizia della punizione divina in merito a questo e ad altri gesti empi compiuti dagli esseri immortali.

E’ rilevante sottolineare che Ovidio citerà il mito di Atteone anche in un’altra sua opera successiva, Tristia27, scritta tra il 9 e il 12 d.C. durante il periodo di allontanamento

forzato del poeta. Presenta la vicenda di Atteone, ridotta in pochi versi, come

exemplum della propria, con il fine di sottolineare l’ingiustizia della pena subìta

attraverso lo stratagemma del racconto mitologico; la tragica storia del cacciatore, condannato da Diana per aver recato un’offesa alla dea non volutamente, allude alla

25 Vengono elencati tutti i nomi dei cani, come farà in seguito anche un altro autore che tratterà del

mito, Igino (I sec. d.C.)

26 C. Segal, Il corpo e l’io nelle Metamorfosi di Ovidio in Ovidio, Metamorfosi, ediz. a cura di

Alessandro Barchiesi. Vol I, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 2007

27 Ovidio, Tristia, II, vv. 103-106: “Ignaro Atteone vide Diana senza le vesti: ed egli non di meno fu

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colpa commessa involontariamente da Ovidio, che lo aveva condotto all’esilio in seguito a un decreto emesso dall’imperatore Augusto. La colpa alla quale Ovidio fa riferimento non risulta ancora chiara poiché l’autore rimase sempre vago rispetto a questo argomento. Carmen et error sono le più significative tra le poche parole che troviamo nel II libro dei Tristia in riferimento alla propria situazione. Proviamo a interpretarle: con carmen potrebbe riferirsi al testo scritto sull’arte di amare, teso a insegnare agli uomini il comportamento da assumere in materia di seduzione. E questo probabilmente all’imperatore, di stampo conservatore, non piacque. L’error, la colpa, potrebbe essere stata l’essersi trovato implicato (accidentalmente) in qualche scandalo di corte. Le origini di questo allontanamento forzato, quindi, sono ancora oscure; quel che è certo è che in terra straniera il poeta trascorse i suoi ultimi anni.

Ovidio, in conclusione, è stato uno scrittore profondamente amato dai suoi contemporanei, protagonista dei salotti letterari del tempo e colto scrittore di successo; per questo venne preso come fonte d’ispirazione dai colleghi scrittori, contemporanei e non. Possiamo citare senza ombra di dubbio Igino (I sec. d.C) e Publio Papinio Stazio (45-96 d.C.), sebbene sicuramente altri autori latini abbiano subito l’influenza del testo ovidiano.

Continuiamo ad analizzare le fonti con Silio Italico, che accenna brevemente al mito di Atteone nell’opera Punica, scritta nel 88 d.C, per testimoniare la sofferenza del padre Aristeo: racconta che l’uomo, straziato dal dolore a causa della perdita dell’unico figlio, decise di lasciare la terra natia ed emigrare in Sardegna. Nel II sec. d.C., anche Apuleio (125-170 ca. d.C.) inserisce il mito in questione ne Le Metamorfosi (o Asino

d’Oro), seppur trattandolo in chiave moderna e anticonvenzionale. Ho notato infatti,

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“marmorizzare” la storia di Diana e Atteone, rilegandola a un’immagine: un complesso scultoreo posto in una posizione centrale nell’atrio della casa di Birrena:

“L’atrio era bellissimo, colonne ai quattro angoli reggevano Vittorie palmate che, ferme, ad ali aperte sembravano sfiorare con le agili piante il mobile sostegno di una sfera nell'atto di spiccare il volo non di sostare. Al centro, stupendo capodopera, una

Diana in marmo pario, con la veste gonfia di vento sembrava protendersi leggera verso chi entrava, eppure veneranda nella sua divina maestà. Ai lati della dea, a suo

presidio, stavano due molossi, anch'essi in marmo pario: erano i loro occhi minacciosi, ritte le orecchie, dilatate le narici, le fauci avidamente spalancate. Se fosse risuonato lì intorno un latrato, certo lo avresti creduto uscito da quelle gole di marmo. Qui, appunto, quell'insigne artista aveva dato la prova più alta della sua arte,

raffigurando quei cani con il petto proteso, le zampe posteriori ben ferme a terra e quelle anteriori nell'atto della corsa. Aveva anche scolpito un macigno alle spalle

della dea in foggia di spelonca e muschio, morbide foglie, ramoscelli, pampini e arbusti sembravano fiorire dalla pietra. All’interno, nel nitore del marmo, risplendeva

l’immagine divina. Dagli orli alti del sasso frutti ed uve pendevano, di squisita fattura, simili in tutto al vero, l’arte avendo emulato la natura. Certo avresti pensato di coglierli e mangiarli quando l'autunno che porta il mosto avesse in essi infuso i bei colori maturi. Se, poi, chinandoti a guardare il ruscello che ai piedi della dea scorreva in onde lievi, quei grappoli riflessi tu li avresti creduti non solo naturali ma persino oscillanti come quelli sospesi ai tralci veri. Tra le fronde si distingueva l’immagine marmorea di Atteone cupidamente proteso a spiare la dea che si bagnasse in quella

fonte, nuda; ma già mutato in cervo”28.

La bellissima dea Diana, Atteone, i cani diventano così statue di marmo costituendo una play within the play, un’opera nell’opera. Un’operazione letteraria, quella di Apuleio, molto sottile e ingegnosa.

28 Apuleio, Metamorfosi (o Asino d’Oro), II, 4, a cura di Lara Nicolini, Bur Rizzoli, Milano, 2016, pp.

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Altri due autori, Luciano di Samosata e Claudiano, scrivono di questo mito, ma la versione più ampia, dettagliata e originale che troviamo nel periodo post ovidiano risulta quella di Nonno di Panopoli, che visse nella prima metà del V sec. d.C.. Egli, ispirandosi a Callimaco, Eschilo e Ovidio, fornisce un’ulteriore versione del mito di Atteone, inserendolo in un contesto situazionale diverso rispetto ai precedenti. Ne Le

Dionisiache29, amalgama, infatti, il tema della caccia, a cui dà molto spazio, con l’universo dionisiaco, offrendo un differente punto di partenza per la produzione figurativa antica. Dopo aver intessuto le lodi al poliedrico padre Aristeo (cacciatore, pastore e abile allevatore di animali), Nonno passa alla figura di Atteone: il giovane, durante una battuta di caccia con la sua muta di cani, s’imbatté nella dea Diana che stava facendo un bagno accompagnata dalle sue fedeli Naiadi. Ciò che Nonno sottolinea in questa scena è che Atteone rimase affascinato dalla bellezza della dea, a tal punto da soffermarsi e sistemarsi su di un albero, un faggio in particolare, per poter ammirare ancor meglio il corpo senza vesti della dea30. Egli non riesce a distaccare lo sguardo dalla scena sensuale del bagno, diventando così uno spettatore volontario, cosciente e insaziabile, diversamente dall’Atteone ovidiano. L’autore predilige così la rappresentazione di un Atteone “ebbro” d’amore, di passione, sottolineando anche un suo lato trasgressivo e folle31, rimanendo pertanto in linea con il tema dionisiaco dell’opera in cui il mito viene inserito.

La contemplazione folle del giovane non durò molto: subito fu scoperto da una delle Naiadi che, spaventata, lanciò un grido per avvertire la sua dea, la quale, senza pensarci

29 Nonno di Panopoli, Le Dionisiache, V, vv.287-551, a cura di D. Gigli Piccardi, Biblioteca

Universale Rizzoli, Milano, 2003, pp. 415-443

30 Ivi, vv. 303-309

31 Vedremo, nel capitolo delle fonti figurative in età classica, che la trasgressione e il turbamento si

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un attimo, lo tramutò in cervo. Questa metamorfosi avvenne però in un modo davvero insolito: Nonno di Panopoli racconta che, alla vista di Atteone, la dea afferrò le sue vesti e si gettò in acqua, in quell’istante preciso egli assunse le sembianze di un cervo. Diana non concluse qui la sua opera di vendetta, ma nel momento in cui trafisse “i cani (di Atteone) con il pungolo di devastante follia”32 provocando in loro

un’indomabile furia omicida tale da condurli a non riconoscere il loro padrone, diventato una loro preda. Se Ovidio nelle Metamorfosi decise di elencare i nomi dei cani che attaccano il cervo, Nonno preferisce invece sottolineare con dovizia di particolari la follia che li pervade. Allestisce, quindi, una scena cruenta in toto, senza dimenticare un aspetto già introdotto da Ovidio: quello dello sdoppiamento del personaggio. Difatti, Atteone viene descritto nelle sembianze di cervo e allo stesso tempo come umano coi suoi pensieri, le sue sofferenze e la sua coscienza. L’autore chiude il racconto sviluppando un aspetto già introdotto da Callimaco33,

ovvero la ricerca dei resti del corpo di Atteone da parte dei genitori, arricchendolo di nuovi particolari: il dolore straziante della madre Autonoe, il parallelo tra la dea Diana e la mamma dell’eroe, e la comparsa in sogno di Atteone al padre Aristeo.

Concludiamo il presente capitolo sulle fonti letterarie antiche con un’insolita versione del mito tramandataci da uno scrittore del VI secolo, Fabio Fulgenzio Planciade. Nel III libro delle Mythologiae34, egli presenta un Atteone stanco della propria vita, della

sua attività di cacciatore, deciso a intraprendere una nuova strada, senza però abbandonare i suoi fedeli cani.

32 Ivi, v. 328

33 Callimaco, Inni, V, Lavacrum Palladis, in Inni, Epigrammi, Ecale, a cura di G.B.D’Alessio,

Classici Bur, Rizzoli, Milano 1996

34 F. F. Planciade, Mythologies, III, 3, traduit, présenté et annoté par É. Wolff et P. Dain, Presses

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Fonti figurative antiche

Le fonti letterarie analizzate nelle pagine precedenti ci hanno offerto numerose versioni riguardo al mito che stiamo analizzando. Tre, però, sono i nuclei tematici principali che gli scrittori hanno introdotto, ripreso e arricchito nel tempo35: il primo presenta un Atteone che attira l’ira del potente Zeus per aver desiderato sposare Semele, amata dallo stesso Signore dell’Olimpo; va a costituire il secondo la punizione di Atteone per mano di Artemide per aver peccato di presunzione e spavalderia nei confronti della dea; il terzo nucleo viene infine rappresentato dalla visione proibita della divinità senza vesti da parte di Atteone. Queste tre tradizioni del mito vanno poi a costituire punti di partenza per gli artisti di epoca classica e non, che sceglieranno di raffigurare fedelmente, reinterpretare o sconvolgere secondo il proprio personale punto di vista.

Secondo il saggio di Eliana Mugione,36 nella tradizione iconografica antica è andata

formandosi una cesura tra la tradizione arcaico-classica e quella ellenistico-romana. La prima ha rappresentato, per la maggior parte dei casi, la punizione inflitta ad Atteone da parte della dea; l’altra si è distinta per aver illustrato il motivo della dea sorpresa al bagno, costituendo in tal modo un corpus di immagini a sé stante che riflette i valori introdotti dal cambiamento storico e sociale avvenuto agli inizi del III sec a.C. in Grecia, diffuso poi nell’Impero Romano.

35 I. Girardi, Passione e morte nell’iconografia del mito di Diana e Atteone dalle origine al Seicento,

Università degli Studi di Pisa, Tesi di Laurea, 2005/2006, p. 38

36 E. Mugione, La punizione di Atteone: immagini di un mito tra VI-IV sec. a.C., in “Dialoghi di

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Partiamo, dunque, fornendo e analizzando alcuni tra i numerosi esempi di opere appartenute all’epoca arcaica e classica.37 Una delle più antiche rappresentazioni del mito di Atteone si trova su un lekythos38 della fine del VI sec. a.C. (fig. 4).

4. Lekythos attica a fondo bianco, Museo Nazionale, Atene , fine VI sec. a.C.

Sulla superficie di questo vaso attico, viene raffigurato in maniera semplice ed essenziale il momento della punizione di Atteone. Possiamo affermare che la figura maschile protagonista della scena sia Atteone per la presenza dei cani, colti nel momento dell’accanimento verso il loro padrone. Notiamo, inoltre, che l’eroe non

37 Con l’ausilio de: L. Guimond, ad vocem Aktaion, in Lexicon Iconographicum Mythologiae

Classicae (LIMC), Verlag, Zurigo, 1986

38 Lekythos: piccolo vaso a forma allungata con un’unica ansa, che serviva a contenere profumi e

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subisce alcuna metamorfosi, ma viene rappresentato nudo, in una posizione di autodifesa, in fuga dai suoi otto cani. Ai due lati dell’uomo, l’artista ha aggiunto due figure femminili, spettatrici della scena in corso, che non possiedono alcun attributo particolare per poter essere identificate; nonostante questo, alcuni critici le riconducono alla dea Artemide e alla madre di Atteone, Autonoe.

Procedendo con l’analisi delle fonti iconografiche, possiamo intuire una prima variazione del mito a partire dal 470 a.C. Nelle raffigurazioni in questione Atteone non assume più un atteggiamento difensivo, ma risulta rassegnato al proprio destino, incarnato nella maggior parte dei casi, nella dea Artemide. L’immagine più nota che esemplifica questo cambiamento è quella che impreziosisce il cratere a campana39 del 470-460 a.C. (fig. 5):

5. Cratere a campana, Museum of Fine Arts, Boston, 470 -460 a.C.

Sul vaso attico, riportato sopra, possiamo vedere la raffigurazione del momento della

39 Cratere: era un grande vaso, nel quale si faceva la miscela di vino e acqua da servire nei banchetti.

Vi erano tre tipi di crateri, distinguibili a seconda della dimensione e dell’imboccatura: a calice, a volute e a campana. Il cratere di Boston era del tipo “a campana”, caratterizzato da un corpo largo.

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morte di Atteone, attaccato da quattro cani, in presenza della crudele dea Artemide. Questa volta la figura femminile collocata al fianco di Atteone è ben riconoscibile grazie a una serie di attribuiti (arco, frecce e pelle di cervo) che la identificano come la dea della caccia. Ella punta il suo arco contro Atteone che, caduto in ginocchio, sembra implorare clemenza alla dea; la stessa posizione del giovane e il braccio sollevato vanno a sostegno di questa tesi. Il giovane, a differenza della precedente immagine, è in possesso di un’arma (un coltello, precisamente) che lo connota come cacciatore, che si contrappone alla dea, raffigurata anch’essa con la sua arma per eccellenza40. Questa particolare iconografia sembra trovare la fonte nella versione tramandataci da Eschilo, che contrapponeva l’abile cacciatore Atteone alla dea della caccia Artemide.

Sulla superficie di un altro cratere attico (fig. 6), troviamo un Atteone che presenta alcune somiglianze con quello del cratere di Boston: possiede un’arma, una clava in questo caso, con cui cerca di difendersi, ed ha un atteggiamento da vinto. Lo schema figurativo di base, tuttavia, viene arricchito con l’introduzione di nuovi personaggi.

40 In alcune raffigurazioni di epoca etrusca e italiota della metà del IV sec. a.C., verrà ripreso il

modello attico di un Atteone che lotta in possesso di un’arma, senza però essere rappresentato in contrapposizione con la dea Artemide. Questo può indicare, quindi, un’incomprensione del modello attico. Un esempio: l’immagine dipinta sul Cratere a calice etrusco a figure rosse, proveniente da Vulci, che è conservato al British Museum di Londra.

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6. Cratere a volute attico a figure rosse (particolare), Musée du Louvre, Parigi, 450 a.C.

Sul primo lato del cratere, viene rappresentato nell’estrema sinistra un Atteone che finisce a terra a causa dell’attacco di due cani. Procedendo poi verso destra, troviamo un cane che si è lanciato all’inseguimento di un giovane che tenta di scappare. Questo giovane potrebbe essere identificato con lo stesso Atteone, il quale chiede aiuto all’uomo barbuto al suo fianco, tendendogli una mano. L’uomo con la barba potrebbe trattarsi di Aristeo, suo padre, accompagnato qui da una figura femminile, molto probabilmente la madre di Atteone, Autonoe. Osservando meglio le ultime due figure, sembrano trasmettere, ai miei occhi, un senso di impotenza e di rassegnazione di fronte al crudele destino del loro unico figlio. Sull’altro lato del vaso, possiamo travedere la figura di Artemide su un cocchio, rappresentata anche in questo caso al fianco di Atteone (fig. 7):

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7. Cratere a volute attico a figure rosse (particolare), Musée du Louvre, Parigi, 450 a.C.

La dea della caccia non è sola. Anch’essa è accompagnata da un membro della sua famiglia, il fratello Apollo, raffigurato nell’estrema sinistra. I due però sono divisi da un albero, di alloro precisamente, ai piedi del quale sono appollaiate due aquile: questi elementi probabilmente stanno a simboleggiare il santuario di Delfi, l’ombelico del mondo antico41.

Si va a delineare negli stessi anni, tra il 470 e il 450 a.C., una nuova tradizione figurativa del mito di Atteone, testimoniata da immagini istoriate su vasi, su crateri e anche su spazi architettonici. Viene introdotto, infatti, l’elemento della pelle di cervo sulle spalle di Atteone e viene inoltre sostituito l’atteggiamento passivo di Artemide con una partecipazione attiva della dea nell’esecuzione della punizione. Questa iconografia rinnovata trova corrispondenza in una fonte letteraria precisa: il testo di Stesicoro, tramandatoci da Pausania nel Viaggio della Grecia. Secondo questi versi,

41 La tradizione vuole che Zeus avesse indicato il luogo di fondazione del santuario nel punto in cui

due aquile, fatte volare da lui, fossero atterrate insieme. Questo punto identificava Delfi come l’ombelico, ovvero il centro, del mondo.

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Artemide avrebbe gettato sulle spalle del giovane la pelle di cervo per provocare una reazione dei cani contro di lui.

Tra le numerose trasposizioni figurative che ci sono pervenute, la più rilevante è senza dubbio l’immagine incisa a rilievo su una metopa dell’antico tempio E a Selinunte, che troviamo nelle prime pagine introduttive (fig. 3). La metopa faceva parte di un ciclo decorativo di dodici metope, collocato sui lati brevi dei muri della cella del tempio E selinuntino, andato distrutto in seguito ad un forte terremoto che ne disperse i resti sul suolo. Nel 1823, grazie ad alcuni scavi guidati dai due architetti inglesi, Samuel Angell e William Harris, furono rinvenute cinque metope delle dodici originarie, conservate attualmente al Museo Archeologico di Palermo. Esse offrono temi diversi ma sono accomunate da un medesimo schema formale: l’opposizione di una figura femminile a una maschile. La metopa che raffigura il mito di Atteone presenta, infatti, il cacciatore sulla destra e la dea Artemide sulla sinistra, colti in atteggiamenti chiaramente opposti l’uno all’altra: il cacciatore con la pelle di cervo sulle spalle sembra ingaggiare una lotta con i cani, e la dea, invece, ha un atteggiamento di assoluta fermezza, mentre partecipa alla punizione di Atteone con un solo gesto, teso ad aizzare i cani contro il loro padrone. E’ interessante notare nel rilievo l’intreccio del braccio del giovane con le zampe di uno dei cani, che sottolinea ancor di più la forte tensione della scena di combattimento. L’illustrazione offertaci dalla metopa risulta essere la prima in cui la dea assiste alla scena in atteggiamento austero e solenne, e l’ultima in cui sul corpo del giovane scende una pelle di cervo; quest’ultima infatti verrà poi sostituita dal mantello, tipico indumento del vestiario di un cacciatore.

Intorno alla metà del V sec. a.C., l’iconografia di Atteone subisce un’ulteriore innovazione: l’eroe viene rappresentato per la prima volta con delle corna di cervo

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sulla fronte, per fare un accenno alla metamorfosi che lo travolse. Una delle più antiche e note immagini che dimostra l’acquisizione di questa iconografia rinnovata, è quella che impreziosisce il “cratere di Boston” del 440 a.C., attribuita al pittore di Lykaon (fig. 8):

8. Cratere del pittore di Lykaon, Morte di Atteone alla presenza di Zeus, Lyssa e Artemide , Museum of Fine Arts, Boston, metà V sec. a.C.

Nella raffigurazione realizzata sul cratere preso della figura 8, possiamo riconoscere al centro della composizione il cacciatore Atteone, che lotta con tre cani con il solo ausilio di una lancia. E’ interessante notare che la trasformazione del personaggio in cervo è ad uno stato avanzato; egli, infatti, non è dotato soltanto di corna e orecchie da cervo, ma tutto il suo volto è ricoperto da pelo animale42. Accanto alla figura centrale vengono raffigurati alcuni personaggi, identificabili anche attraverso iscrizioni poste

42 Il dettaglio della peluria sul viso di Atteone è stato realizzato attraverso delle fitte pennellate

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sul vaso. Alle spalle di Atteone, cattura l’attenzione una figura assente nelle precedenti opere, che ha il compito di incitare i cani: Lyssa. Accanto a questa figura femminile, assiste alla scena il dio Zeus, riconoscibile grazie allo scettro e alla saetta che tiene in mano. Sull’estrema destra, infine, troviamo raffigurata la dea Artemide, dotata di arco e faretra, che regge con una mano una torcia. Il ruolo ricoperto dalla dea della caccia nelle illustrazioni più antiche, ovvero quello di istigatrice dei cani, viene svolto in questo caso da Lyssa, che avevo già menzionato nel precedente capitolo. Questa figura prende forma da un personaggio teatrale delle tragedie greche, che personificava la Pazzia e l’Ira; è rappresentata, infatti, con una veste dalle lunghe maniche e un chitone corto, indossati di solito dagli attori tragici nell’antica Grecia. Inoltre, viene posto sopra il capo della stessa figura la testa di un cane, che ha portato i critici a formulare varie ipotesi. La più attendibile, a mio avviso, è quella avanzata da Trendall43: egli sostiene che l’immagine del cane posta sulla testa di Lyssa possa indicare il suo ruolo di portatrice di pazzia nei cani di Atteone, facendo riferimento al testo delle Xantriai di Eschilo, in cui Lyssa venne inserita per fare ammattire le Menadi. Lyssa potrebbe, quindi, personificare la Pazzia che travolge i cani, per volere di Artemide, che è pur sempre presente nella raffigurazione. Un altro aspetto da sottolineare è la presenza del dio Zeus, che assiste alla scena. L’inserimento di questa figura è stato letto da alcuni come un richiamo a una versione più antica del mito (fornita da Esiodo, Catalogo delle

donne, framm. 24 e da Pausania, Viaggio in Grecia, IX) secondo cui l’errore di Atteone

è stato quello di infatuarsi di Semele, amata anche dal potente dio, il quale ordinò alla figlia Artemide di punirlo. Altri, invece, affermano che la fonte scritta a cui l’artista ha fatto riferimento, non solo per quanto riguarda l’inserimento della figura di Zeus,

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sia la tragedia di Eschilo, Toxotides, andata perduta. E’, in particolare, Trendall che sostiene questa tesi, per una serie di motivi: innanzitutto il dio dell’Olimpo, oltre ad essere il padre di Artemide, risulta nella tragedia eschiliana il responsabile ultimo di quello che accade; Atteone viene, inoltre, descritto come kerasphoros, ovvero portatore delle corna di cervo, alludendo perciò alla sua trasformazione; e per ultimo motivo, che è anche il più significativo, il ritrovamento di un’iscrizione posta alla sommità della scena, che reca il nome del figlio di Eschilo, “Euaion”, soprannominato

tragikos, ovvero attore o poeta. Quest’ultimo particolare potrebbe significare che

Euaion possa aver partecipato alla rappresentazione teatrale dell’opera del padre. Nell’ambito di produzione magno-greca del IV sec. a.C., la raffigurazione di Atteone dotato di corna di cervo viene inserita in uno scenario diverso: il contesto scenico viene allestito come un vero e proprio rito sacrificale in cui la vittima è lo stesso Atteone-cervo. Un’immagine di questo cambiamento la troviamo su un cratere a volute del 340 a.C. (fig.9).

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Il vaso in questione risulta provenire da Ruvo di Puglia ed è conservato attualmente al Museo Nazionale di Napoli. Al centro della scena vi è raffigurato il giovane Atteone mentre sta per uccidere un cervo con la sua lancia. L’eroe indossa un vistoso mantello (un elemento che è andato a sostituire la pelle di cervo) e ha sul capo delle grandi corna, che inducono ad identificarlo con la vittima che ha tra le mani. Atteone viene perciò interpretato come un sacrificante e allo stesso tempo un sacrificato; un concetto rimarcato anche dal piccolo altare posto in primo piano. Ad arricchire la scena sono state inserite varie figure: la dea Artemide, sulla destra, riconoscibile dall’arco e dalle frecce; un sileno, in basso, che si allontana impaurito dalla scena cruenta; e infine, Hermes e Pan, sulla sinistra, che conversano all’ombra di un albero, introdotti probabilmente come rappresentanti dell’ambiente dei boschi e della caccia. La particolare iconografia nasce molto probabilmente dall’interpretazione di una versione del mito di Atteone tramandataci da Euripide ne Le Baccanti; qui il giovane subisce una punizione da parte di Artemide per essersi vantato di essere un cacciatore migliore della dea. Sulla superficie del vaso vengono rappresentati contemporaneamente il prologo e la conclusione del mito euripidiano: Atteone, infatti, continua a uccidere come un cacciatore nonostante sia in corso la sua metamorfosi in cervo; come se non fosse ancora consapevole del suo destino che lo porterà a essere non più capocaccia ma preda.

La trasformazione di Atteone, espressa attraverso l’“innesto” di corna, orecchie, o persino della testa del cervo, appare come protagonista di numerose opere del periodo antico, e la troviamo riprodotta sotto varie forme: dipinti su vasi, statue, rilievi, mosaici. Vale la pena ricordare una statuetta in marmo del II sec. a.C., conservata nel

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British Museum di Londra, che mostra un Atteone con delle piccole corna, che indietreggia di fronte all’assalto dei propri cani (fig. 10).

10. Statua in marmo della Morte di Atteone, British Museum, Londra, II sec. a.C.

Passiamo ora, alla tradizione iconografica che si diffonde nell’area ellenistica-romana dal III sec. a.C.: essa coincide con l’espansione del motivo della sorpresa di Diana, introdotto per la prima volta da Callimaco negli Inni44. Viene a costituirsi, quindi, un

nuovo filone artistico che riflette il cambiamento storico, culturale e sociale avvenuto in quel periodo in Grecia, e riversato poi in area romana. Lo schema figurativo che prende forma si basa sulla rappresentazione della figura di Artemide/Diana, immersa senza vesti in una sorgente d’acqua, spesso in compagnia delle sue ninfe, e della figura a mezzo busto oppure a busto intero di Atteone, che spia la dea oltre le rocce. Uno degli esempi più antichi pervenuti ci viene fornito da un gioiello ellenico del I sec.

44 Il motivo della sorpresa della dea al bagno viene ripreso e arricchito in seguito da Ovidio e da

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a.C.45, che mostra la dea di schiena in piedi di fronte a un muro roccioso e un Atteone dotato di corna che osserva la divinità al di sopra delle rocce.

Sono le rappresentazioni di epoca romana, tuttavia, a risultare le più rilevanti e significative; una di queste è l’affresco che si trova nella casa di Sallustio a Pompei (fig. 11).

11. Affresco della casa di Sallustio, Diana e Atteone, Pompei, I sec d.C.

La rappresentazione in questione scaturisce dall’unione di due motivi ricavati dal mito di Atteone, che nelle altre numerose raffigurazioni degli affreschi di Pompei venivano trattati separatamente: il bagno di Artemide e la punizione del cacciatore, trasformato in cervo e sbranato dai propri cani. Quella sopra citata è una delle più complete e ben

45 E. Zwielein-Diehl, Antike Gemmen in deutschen Sammlungen II, Berlin, 1969, pp. 371 tav. 66, in

C.C.Schlam, Diana and Actaeon: Metamorphoses of a Myth in “Classical Antiquity”, 1984, vol. III, University of California Press, p. 98

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strutturate: essa riproduce il soggetto mitologico seguendo un ordine temporale: in alto a sinistra, possiamo vedere il giovane Atteone mentre sbircia la dea dall’altura rocciosa; in basso, è invece rappresentata Diana in una grotta, colta nel momento del bagno presso un ruscello, la cui acqua getterà al cacciatore per tramutarlo in cervo; sulla destra, infine, viene riprodotto un secondo Atteone, dotato di piccole corna, mentre subisce l’attacco mortale dei propri cani.

E’ interessante notare il particolare della mano sinistra alzata del giovane della “prima sequenza” che, secondo alcuni critici, indicherebbe la sorpresa e la casualità dell’evento; tale interpretazione è riconducibile alla versione raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi, e ancor prima da Callimaco.

Il mito ovidiano, che riscosse un enorme successo in ogni parte dell’impero, viene tradotto in immagine in altre due importanti opere di ambiente romano: su un sarcofago di età adrianea proveniente dalla Collezione borghese ma conservato attualmente al Louvre, e nel mosaico di Timgad, risalente alla fine del IV sec. d.C. Nel primo caso la versione di Ovidio viene rivisitata e arricchita in base al programma narrativo dell’artista, il quale lo ha reso un esemplare raro e unico, dotato di forme anatomiche e vegetali lavorate meticolosamente al punto tale da infondere un’atmosfera di vita a un oggetto che ha come scopo quello sepolcrale. Sulla faccia principale e sui due lati corti, quattro riquadri, incorniciati da ghirlande e festoni, sono dedicati alla triste storia di Atteone. I due riquadri maggiori riportano i momenti centrali della storia che coinvolge il cacciatore: l’incursione da parte del giovane nel luogo in cui la dea stava facendo un bagno e la punizione di Diana in risposta all’atto di trasgressione (fig. 12). Nel primo pannello viene raffigurata la dea accompagnata da due putti – e non dalle sue compagne – mentre si accovaccia per coprire le sue

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nudità. Ha lo sguardo rivolto verso il trasgressore, rappresentato in alto a destra, che alza una mano come se volesse porgere le sue scuse per aver interrotto il momento di refrigerio della divinità. Nel secondo, invece, viene illustrata la punizione di Atteone: attaccato e portato alla morte dai suoi stessi cani poiché non viene riconosciuto dietro le sembianze di un cervo – qui Atteone è dotato solamente di piccole corna. La scena è fortemente drammatica e movimentata, anche grazie all’impiego di figure che incorniciano l’insieme, come ad esempio la figura di Priapo sulla destra, antico dio della fertilità. Guimond46 ha notato che lo scultore, per creare un’armonia tra le due

scene principali, ha deciso di costruirle in maniera simmetrica conservando il contesto ambientale e creando un’impostazione delle figure il più coerente possibile.

12. Artista anonimo, Sarcofago di Atteone, Musée du Louvre, Parigi, 125-130 d.C.

46 L. Guimond, ad vocem Aktaion, in Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, Verlag,

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Le due scene minori sono, invece, posizionate sui lati corti del sarcofago. L’una rappresenta la madre di Atteone, Autonoe, mentre si appresta a raccogliere i resti del corpo del figlio, come narra Nonno di Panopoli; l’altra, invece, riporta una scena inusuale: il momento dei preparativi per la caccia. Si tratta una rappresentazione arcadica tesa ad indicare la calma che precede l’attività venatoria, in netta antitesi al violento attacco dei segugi ai danni di Atteone.

Nel caso del mosaico di Timgad la versione ovidiana viene riprodotta quasi fedelmente, soprattutto la parte che concerne l’ambientazione (fig 13).

13. Mosaico con Diana e ninfe, Museo Archelogico “Wilaya des Aurés”, Timgad, IV sec. d.C.

Il mosaico, scoperto nel 1902 tra le rovine di una casa, replica la scena ovidiana del bagno della dea accompagnata dalle sue ninfe. Queste però non sono sole. Compare infatti dall’alto la figura di Atteone, che scruta con fare peccaminoso: sono visibili il suo collo, l’orecchio sinistro, parte dei capelli e del mantello mosso dal vento. La sua immagine è persino riflessa nell’acqua in primo piano, proprio in corrispondenza della dea, ad indicare il legame tra i due.

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CAPITOLO III: IL MITO DI DIANA E ATTEONE IN EPOCA MEDIEVALE

Il mito nel Medioevo

Nei primi secoli dopo Cristo, i Padri della Chiesa47 iniziano ad assumere una posizione di netto rifiuto della cultura antica, in quanto subordinata a quei culti pagani giudicati superstiziosi e primitivi. Il ripudio della cultura greco-romana non si riferiva soltanto ai suoi contenuti e ai suoi valori, ma riguardava anche lo stile e il suo linguaggio. Infatti, è una creazione della cultura cristiana il sermo humilis: un discorso quotidiano che richiedeva uno stile e un linguaggio umili. Il primo teorico del sermo humilis è Sant’Agostino (350-430), il quale è stato anche promotore della battaglia culturale contro i contenuti della cultura classica. E’ interessante notare che, pur servendosi dello stile umile, egli fa contemporaneamente uso degli strumenti della retorica classica, anticipando in qualche modo quella mediazione tra cultura classica e cristiana che finisce col prevalere nei secoli successivi. Si assiste infatti nel giro di pochi anni alla nascita di un fenomeno culturale e storico, il cosiddetto Medioevo latino, che tende a reinterpretare i testi di storia e la stessa mitologia greca e romana alla luce del Cristianesimo; prima allegoricamente poi in chiave morale. Il testo per eccellenza che subisce questa rivisitazione sono le Metamorfosi di Ovidio, che conobbero una grande diffusione in età medievale. Esse venivano considerate la “Bibbia dei pagani”48, in

quanto non solo custodivano l’intero sapere mitologico antico, ma rappresentavano anche il punto di riferimento per poeti ed artisti, contemporanei e non. L’uomo medievale iniziò quindi a estrapolare da questi miti così noti e diffusi un significato

47 I Padri della Chiesa sono quegli scrittori che avevano preso le difese della nuova religione cristiana

contro il mondo pagano, gettando così le basi della cultura cristiana.

48 B. Guthmüller, Mito e metamorfosi nella letteratura italiana. Da Dante al Rinascimento. Carocci

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