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2 Progetto di paesaggio ed emergenza ambientale

2.2. Il paesaggio disturbato

2.2.1. Oltre la ‘pastorale americana’: il concetto di disturbo.

Nel 1999 Linda Pollack314 pubblica sul numero 100 di Lotus International315 un corposo e denso saggio intitolato: Il territorio americano. Quattro tipi di

disturbo. Nel testo, che esplora il concetto di disturbo quale effetto perturbativo

capace di mettere in reazione l’immagine collettiva del paesaggio americano, l’autrice si pone l’obiettivo di denudare il mito, ancora rappresentato dall’ideale o, per meglio dire, dall’idealizzazione del paesaggio naturale e rurale ancora fortemente identificativo della cultura colonica del XIX secolo. L’operazione di disvelamento che la Pollak mette in campo, vuole pertanto mettere in reazione due poli opposti della cultura americana del paesaggio, quali il persistere di una cultura puritana, ancora dominata dall’ideale della “Natura Selvaggia”, quale tratto identificativo della giovane nazione, con la dimensione del paesaggio urbano contemporaneo, la frammentazione dei suoi spazi e la complessa trama di segni che sottendono alla sua articolata infrastruttura antropica. Il saggio ed il passaggio interpretativo che propone, sono di particolare interesse per diversi motivi. Innanzitutto la felice intuizione di intravedere nel concetto di ‘disturbo’ la 314 cfr. cap.6, paragrafo 6.2.Profilo sintetico dei principali autori trattati: 6.10 Pollack, Linda.

315 Pollack, L., Il territorio americano. Quattro tipi di disturbo, in: Lotus 100, Electa, Milano, 1999.

possibilità di fare interagire, o per meglio dire reagire, condizioni culturalmente diverse ed opposte, quali la dimensione urbana contemporanea ed il persistere di un’idea del paesaggio ancora legata alla cultura del pittoresco ed all’immagine pacificatoria del paesaggio inglese, teso a cancellare sapientemente, attraverso una regia scenica del progetto, limiti e punti di discontinuità. Necessità peraltro, ampiamente reclamata dalla cultura americana di quegli anni, che si concretizzò nell’assegnazione del ‘Premio Pulitzer per la narrativa’, alla dissacrante epopea descritta in American Pastoral di Philip Roth, nel1997316, precedendo di soli due anni la pubblicazione della Pollak. In secondo luogo perché le azioni perturbative proposte: ‘Bounding’ (Delimitare), ‘Touching’ (Toccare), ‘Naming’ (Nominare), ‘Nature Herself’ (la Natura), presuppongono un’azione diretta e non mediata, ed una conseguente consapevolezza e presa di responsabilità, tra singolo individuo, quale cittadino, e l’ambiente urbano e naturale. Fino al XIX secolo, ossia fino a che le città americane non raggiunsero dimensioni metropolitane, la cultura dello spazio urbano viveva ancora riferita all’ideale ‘Jeffersoniano’ di fusione tra città e natura317. Considerazione che porta la Pollack a sostenere che anche il parco urbano ottocentesco americano, fatta eccezione per alcuni casi esemplari per la loro capacità di interagire con l’infrastruttura complessa della città, quale tra tutti ‘Central Park’, rimase intrappolato in un contesto culturalmente contradditorio, dove la ricerca della “sua natura pastorale funzionava più da antidoto che come elemento della città”318. Di particolare interesse appare il riferimento della Pollack alle parole di Roland Barthes319:

Il fatto che il paesaggio sembri significare qualcosa in se stesso, elimina la necessità di andare al di là della sua superficie visibile e permette di non indagare i processi alla base della sua formulazione e della sua costruzione320.

Concludendo il saggio, l’autrice propone la considerazione che,

l’idea di ‘raffigurare’ la natura attraverso il suo spostamento dalla città è un approccio all’identità, sia in termini di differenza che di materialità, che rende esplicito il fatto che il progetto di architettura, come quello di paesaggio, cercano di risolvere il problema girandoci intorno321.

316 Roth, P., American Pastoral, Houghton Mifflin, Boston 1997, (prima edizione). 317 Pollack, L., Il territorio americano. Quattro tipi di disturbo, cit, p.114. 318 cit., p.114.

319 cit., p.120. 320 cit., p.20. 321 ibidem.

Linda Pollac, Il territorio americano. Quattro tipi di disturbo, in: Lotus 100, Electa, Milano 1999. Czerniak, J., Hargreaves, G., ‘Large Parks’, Princeton Architectural Press, New York, 2009

Linda Pollack riafferma la necessità di proseguire a lavorare nei luoghi dove si produce la differenza e la sua inconciliabilità. L’azione di disturbo così espressa, pone essa stessa al ruolo di ‘sentinella’ al rischio, tuttora sotteso al progetto di paesaggio di proporsi quale ‘coperta’ sotto cui tenere nascoste le evidenti e permanenti difficoltà di elaborare un progetto di paesaggio contemporaneo che sappia ‘fare i conti’ con il permanere di una profonda antinomia: il rapporto tra città e natura. Come ricorda Daniela Colafranceschi322,

I luoghi disturbati, complessi e caratterizzati da contrasti di scala, rappresentano una sfida ai modi convenzionali di rappresentazione, nota la paesaggista americana Linda Pollack. Come può un progettista approfondire lo studio di un luogo segnato dall’abbandono, dal degrado e dalla sua esclusione dalle storie ufficiali? Un sito marginale, culturalmente invisibile, spesso non è rappresentabile nel senso più letterale del termine. Alcune per le più importanti battaglie per la rigenerazione urbana hanno a che fare con la rigenerazione della percezione di un sito.

L’attenzione ai paesaggi ‘disturbati’ ed il riconoscimento di un loro valore quale elemento di riconoscimento di una differenza, ha determinato una proliferazione di studi e ricerche i cui esiti, forse più interessanti, sono stati sviluppati nel contesto di alcune università americane a partire dagli anni novanta del secolo scorso. Ma tale orientamento teorico e progettuale ha intersecato l’intero corpo dell’azione sul paesaggio, che si è declinata, in particolare negli Stati Uniti, attraverso la ‘ricerca universitaria’, le ‘identità professionali’ ed il ‘lavoro autoriale’.

Le ricerche, i progetti, gli scritti e la militanza nella pratica progettuale, condotti da alcuni protagonisti del dibattito americano attorno al tema del paesaggio contemporaneo, tra cui James Corner ed Alex McLean alla Penn University, Alan Berger alla MIT University, Elizabeth K. Meyer e Julie Bargmann alla University of Virginia, Julia Czerniak alla Syracuse University ed il lavoro di Kate Orff alla Columbia University, costituiscono un corpo compatto di ricerca, sviluppato attorno al tema del rapporto nel contemporaneo, tra qualità del progetto di paesaggio, problematiche ambientali, ed all’efficacia del ruolo attribuito agli ‘effetti del disturbo’, quale perturbazione capace di dare evidenza alla consistenza contemporanea del paesaggio. D.i.r.t. Studio, Field Operation, Scape 323, sono i nomi che alcuni di loro hanno voluto dare alle loro organizzazioni 322 Colafranceschi, D., Un altro Mediterraneo. Progetti per paesaggi critici, Altralinea edizione, Firenze 2015,

p. 216.

323 D.i.r.t. Studio fondato da Julie Bargmann nel 1992 (http://www.dirtstudio.com/); ‘Field Operations, fonda- to da Stan Allen e James Corner nel 1999, attualmente lo studio e diretto da James Corner (http://www. fieldoperations.net/); ‘Scape’ è stato fondato da Kate Orff nel 2007 (https://www.scapestudio.com/).

professionali, che chiaramente si focalizzano e si intrecciano con gli studi e la dimensione accademica, ma che inequivocabilmente vogliono esplorare la dimensione contemporanea del progetto di paesaggio, dando evidenza e sostanza estetica al concetto di disturbo, quale tratto distintivo del paesaggio contemporaneo stesso. Analizzando infine, i tratti sintetici con cui attualmente tali organizzazioni propongono i loro temi di ricerca professionale nel campo del paesaggio, emergono alcuni elementi distintivi e ricorrenti.

La fascinazione per le storie dei siti, unita all’attenzione per le comunità emarginate ed all’attenzione costante per la rigenerazione urbana, orienta ‘D.I.R.T.Studio’ ad elaborare paesaggi stratificati e tecniche progettuali mirate a consolidare la compresenza di ecologia e cultura, verso una durevole gestione delle trasformazioni proposte. Le storie delle comunità, e la loro partecipazione al progetto trasformativo, sono pertanto considerati origine e forza vitale per la generazione di ‘paesaggi sani’, per la realizzazione dei quali si rende necessaria una pratica progettuale necessariamente interfacciata con le diverse competenze e discipline coinvolte. Analogamente ‘FIELD OPERATION’ tiene a precisare la dimensione interdisciplinare, “we are landscape architects and urban designers”, quale tratto imprescindibile per sviluppare un disegno innovativo degli spazi pubblici, calato nella dimensione reale delle città, dei luoghi urbani e della cultura locale e, nella visione della loro sfera pubblica. La loro azione progettuale viene presentata quale capacità di orientare ed integrare i soft ecological systems all’interno del progetto dei luoghi e comunità. SCAPE è uno studio “design-driven”324, come loro stessi si definiscono, nel campo del paesaggio e della progettazione urbana, con sede a New York, per sviluppare contestualmente, ricerche e pratica professionale, al fine di esplorare il potenziale ecologico e culturale dell’ambiente costruito. Il loro lavoro si focalizza nell’integrazione di cicli e sistemi naturali a diverse scale e forme dell’architettura del paesaggio: ambienti costruiti, pianificazione, ricerca, pubblicazioni, installazioni, pertanto la loro attività progettuale si sviluppa in team articolati di professionalità diverse. In particolare, l’impegno teorico di Kate Orff, condotto attraverso pubblicazioni, attivismo, ricerche e progetti, si focalizza sulla riconcettualizzazione della struttura del progetto di paesaggio, basata sui fenomeni dei cambiamenti climatici e sociali in corso, e sulla 324 In riferimento al concetto di ‘design-driven’ vedi: Verganti, R., ‘Design-Driven Innovation’, Harvard Busi-

ness Press, 2009; Verganti, R., ‘Overcrowded’, MIT Press, 2017. Secondo gli scritti dell’autore, il concetto ‘design-driven’ orienta verso la creazione di prodotti di innovazione che il pubblico non si aspetta. Ossia creare prodotti e servizi, che si presentano diversi da quelli che dominano il mercato ed in tal modo co- struiscono un pubblico interessato, attraverso strategie e processi di innovazione del design urbano, che attingono alla folta e sfaccettata rete di utenti e società outsider, per comprendere ed orientare i modelli dell’offerta.

promozione dell’azione sociale. Il suo lavoro è riconosciuto per la capacità di condurre complessi e creativi processi di lavoro per l’avanzamento delle ricerche di paesaggio in campo ambientale e sociale. Di notevole interesse, infine, gli scritti di Elizabeth K. Meyer325 attorno al concetto di ‘paesaggio disturbato’, quale terreno di incontro progettuale, tra qualità del paesaggio e ambiente. Il fatto di accettare che il concetto di disturbo, quale forma di discontinuità, possa fare parte della qualità estetica di un progetto, consente di avvicinare la distanza culturale che quest’ultimo ha posto nei confronti dei paesaggi degradati o soggetti a degrado. Ripercorrendo infatti la storia di alcuni progetti caposaldo della cultura europea del progetto di paesaggio tra XIX e XX secolo, che hanno saputo lavorare con lo scarto, quali il parco di Buttes Chaumont, progettato da Jean-Charles Adolphe Alphand e Pierre Barillet-Deshamps (Parigi, 1864-1867) per riconvertire una cava di pietra calcarea e gesso, o il parco cimitero della Foresta della Memoria progettato da Erik Gunnar Asplund e Sigurd Lewerentz (Stoccolma,1915-1961) costruito su cave esaurite di ghiaia, essi portano ancora appresso l’idea del progetto di paesaggio quale elemento ‘coprente e pacificatore’ di ferite pregresse. Tale approccio, seppur condotto con grande maestria nei casi citati, non può non ricordarci i contemporanei approcci espressi in termini di ‘mitigazione e compensazione ambientale’326e la conseguente produzione di ‘siti camouflage’, così come nell’accezione utilizzata da Elizabeth Meyer327. Inseguendo, al contrario, un imprescindibile principio 325 Meyer, E., K., Landscape Architect, FASLA University of Virginia School of Architecture.

326 Come riporta l’ISPRA, la Valutazione d’Impatto Ambientale, nata con il ‘National Environment Policy

Act’(USA1969) è stata introdotta in Europa dalla Direttiva 85/337/CEE, quale strumento fondamentale a

servizio della politica ambientale. La procedura di VIA strutturata sul principio dell’azione preventiva, attri- buisce pertanto al progetto il compito di prevenire effetti negativi, anziché combatterne successivamente gli esiti. La sua struttura nasce come strumento per individuare e valutare preliminarmente gli effetti diretti/indiretti di un progetto sulle componenti ambientali e la salute umana. La sua procedura è conce- pita per renderne evidenza e conoscenza pubblica e guidare il processo decisionale in maniera partecipa- ta. Recepita in Italia con la Legge 349 del 08/07/1986, ha istituito il Ministero dell’Ambiente e le norme in materia di danno ambientale. Successive integrazioni (DPCM 27/12/1988) contengono Norme Tecniche per la redazione degli Studi di Impatto Ambientale e la formulazione del giudizio di compatibilità. La Di- rettiva 97/11/CE, quale revisione critica dopo l’esperienza di applicazione della VIA in Europa, ha ampliato la casistica di progetti da sottoporre a valutazione, attraverso le fasi di “screening” e “scoping”, integrati dalla “Legge obiettivo” 443/2001 ed il decreto di attuazione DLgs 190/2002. La delibera CIPE 57/2002 riporta infine disposizioni sulla ‘Strategia nazionale ambientale per lo sviluppo sostenibile 2000-2010’, af- fermando il principio dell’integrazione della VIA ‘a monte’ attraverso Piani e Programmi contenenti criteri di sostenibilità ambientale, verificati dalla Valutazione Ambientale Strategica. La Direttiva 2014/52/UE,

‘Elementi di Criticita’ e Indicazioni per il Recepimento’, pone infine una serie di ‘elementi di attenzione’

evidenziando la difficoltà, non scontata, di integrare il rispetto delle misure di tutela dell’ambiente, quale componente della stessa progettazione architettonica e paesaggistica, segnalando quanto i due termini ‘paesaggio e ambiente’ possano essere ancora distanti, fonte: (http://www.isprambiente.gov.it/it/temi/

autorizzazionu-e-valutazioni-ambientali/valutazione-di-impatto-ambientale-via)

327 Meyer, E. K., Uncertain Parks: Disturbed Sities, Citizens, and Risk Society, in: Czerniak, J., Hargreaves, G.,

Large Parks, Princeton Architectural Press, New York, 2009, p.64.

di verità, ella sottolinea come l’importanza di dare leggibilità ed evidenza alla componente ‘consumistica’ di tali operazioni bene espliciti,

le strategie di progettazione che si concentrano principalmente sui processi ecologici di bonifica di un sito industriale tossico non tengono conto della mescolanza dei processi naturali, sociali e industriali che li permeano.

Secondo i principi esposti da Elizabeth Meyer, dare evidenza estetica alle articolate alterazioni prodotte sul ‘corpo naturale’, se legate ad una dimensione spaziale rilevante quale quella di un grande parco, può svolgere un ruolo culturale determinante per porre la collettività davanti ad una realtà che è direttamente conseguente dello stile di vita che le ha prodotte ed è ‘espressione di una collettività di cittadini consumatori, che percepiscono il loro ambiente attraverso la lente dell’incertezza e del rischio’328. Contemporaneamente, secondo l’autrice, esplicitare l’alterazione dell’ambiente esprime una sensibilizzazione verso un uso sostenibile delle risorse ed un’attenzione critica per l’azione dell’uomo verso l’ambiente. Come da più autori sostenuto e condiviso, “for a landscape to be properly recovered it must be remade, designed, invented anew; it cannot simply be restored, as an old painting”329. Non di conservazione stiamo parlando, ma reinvenzione di nuovi paesaggi dove le operazioni di bonifica sono parte del ‘timescape’330 delle aree, e la temporaneità della tecnica è assunta come carattere del paesaggio.

L’introduzione del fattore tempo, quale luogo di metabolizzazione della 328 cit., p.66.

329 Corner, J., Recovered landscape, in Alan Berger, Reclaiming the american West, Princeton Architectural Press, New York 2002.

330 Meyer, E. K., Uncertain Parks: Disturbed Sities, Citizens, cit., p.65.

Elizabeth K. Meyer, Sustaining beauty. The performance of appereance. A manifesto in three parts, in Jola, Journal of landscape ar- chitecture, spring 2008, A new, Hybrid language of description and aesthetic appreciation is required to capture the strange, toxic be- auty of rainbowcolored water polluted by acidic mine drainage at a cole mine, the site of AMD park in Vintondale, PA, USA (fig. 4).

trasformazione, introduce inoltre un’ulteriore principio-disponibilità che si fissa nella possibilità di reintrodurre il ‘germe’ della temporalità della natura, affidando ai processi naturali ed ai loro tempi il compito di ricostruire e consolidare questi nuovi suoli, e proponendo una nuova estetica, che registri e faccia proprio il divenire, quali nuove forze capaci di rigenerare i paesaggi locali, ripensando il rapporto con la natura. Secondo le parole di Elizabeth Meyer, dobbiamo pertanto sapere accettare e dialogare con operazioni sullo spazio estese nel tempo, ‘timescapes’ e l’estetica che nel tempo producono. Nei “siti disturbati’ si intrecciano processi ecologici e industriali che si sviluppano nel tempo331, ed è importante che le operazioni di riqualificazione di tali luoghi contemplino la possibilità della fruizione pubblica. La reattività o ‘resilienza’ è la capacità di assorbire gli effetti di un disturbo e di riorganizzarsi mentre ha luogo un cambiamento332. Tale trasformazione deve pertanto poter essere percepita da un numero più ampio possibile di fruitori. Pensare pertanto che, nel contemporaneo, l’azione progettuale necessariamente si confronta con paesaggi esito di successive manipolazioni ed alterazioni, offre una chiave di lettura attraverso cui il progetto stesso si mette a disposizione di una realtà fenomenologicamente più complessa e dinamica, senza rinunciare alla reinterpretazione e rielaborazione estetica.

Si precisano pertanto indirizzi di lavoro che, come esplicitato nei paragrafi e capitoli successivi, da un lato si focalizzano nella necessità di lasciare nuovamente spazio all’azione della ‘natura’, nelle sue molteplici manifestazioni tra lo spazio urbano e la dimensione territoriale, da cui trarre contemporaneamente beneficio dalla sua duplice ‘capacità rigenerativa’ ed ‘adattiva’ e, dall’altro, si delineano nuovi assetti interpretativi e trasformativi, in cui la capacità di adattamento al cambiamento e, nello specifico al cambiamento climatico, è affidata alla specie che da sempre ha opposto al cambiamento la forza della resistenza: l’uomo.

331 cit., p.81.

332 cfr. Angelucci, F., Braz Afonso, R., Di Sivo, M., Ladiana, D. The Technological Design of Resilient Landscape.

Il progetto tecnologico del paesaggio resiliente, Franco Angeli editore, 2015.