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Abbiamo segnalato altrove come la letteratura di viaggio, se sfruttata come risorsa didattica, possa costituire un valore aggiunto in forza del suo carattere rappresentazionale. Tuttavia, come si è argomentato, senza un fruizione illuminata da un paradigma postmoderno, capace di smascherare i filtri ideologici e traduttivi dell‘io narrante, la ricezione di un testo di viaggio rischia di mutarsi da etnografia in stenografia delle cultur-e, benché questo rischio sia minore con un C1s travelogue 112.

Ma a quale livello può esistere un dialogo fra questo paradigma e l‘utilizzo didattico del travelogue? Ne abbiamo individuati almeno tre.

Un primo livello di dialogo è dato dalla centralità, sia nel testo odeporico che nel costruttivismo, dei meccanismi rappresentazionali, da sempre materia elettiva dei Cultural Studies e di svariate discipline di orientamento decostruzionista e post- strutturalista. Questa coincidenza di intendimenti ha fatto della possibilità di un‘analisi culturale veritiera e priva di filtri e bias culturali una questione cruciale sia per l‘antropologo che per lo scrittore-viaggiatore.

Alla problematizzazione dei modi della rappresentazione si collegano, inoltre, gli stereotipi e gli atteggiamenti pregiudiziali disseminati nella narrativa odeporica, in quanto testo rappresentazionale. Ma si legano anche le complesse intelaiature inter- testuali, discorsive e traduttive che, a guisa di ‗rappresentazioni nella rappresentazione‘, si innestano nel più ampio disegno interpretativo e ideologico del travel writer. Più in generale, si può dire che la rappresentazione sia il principale dispositivo gnoseologico e retorico del travelogue, in quanto percezione, interpretazione e trascrizione di mondi altri. Come osserva Smecca, nel suo volume sulle tattiche rappresentazionali nella letteratura odeporica e nella traduzione,

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[…]being the means and filter of perception, representation is of the foremost importance in the study of travel writing and translation, where there is a constant need for interpretation and a perennial clash between two or more cultures with their relative representational systems, standpoints, and world-views.113

Un secondo importante livello di dialogo, corollario del primo, riguarda la virtù del testo di viaggio di rappresentare il «culturale» non isolatamente, ma nella relazione con l‘‗altro-da-sé‘. Un resoconto su un dato luogo descriverà, pertanto, solo i dati culturali che il contatto con un outsider ha reso «visibili» (pensiamo ai rich point di Agar) e non il «culturale» in sé.114. Questa capacità di esibire il carattere inter-soggettivo dei fenomeni

descritti, il cui senso ci è dato di cogliere solo nella relazione con qualcos‘altro (anche quando si tratta di stereotipi o ‗invenzioni‘ letterarie), fa del diario di viaggio un pratico strumento per familiarizzare il discente con la natura relazionale dei processi culturali, un concetto poco ortodosso e certamente tutt‘altro che maneggevole, data la sua instabilità, parzialità ed immedesimazione con il potere. Può essere utile rileggere, a questo proposito, un passo di Agar dove l‘argomentata analogia fra cultura e traduzione è re-interpretabile, secondo noi, nei termini di una equivalenza fra travelogue e boundary:

Whenever we hear the term culture, we need to ask, of whom and for whom? Culture becomes visible only when differences appear with reference to a newcomer, an outsider who comes into contact with it. What is that becomes visible in any particular case depends on the LC1 [LC sta per languaculture] that the newcomer brought with them, a newcomer who might be an ethnographer, or perhaps an immigrant, or a new employee, or a tourist. Different LC1/LC2 combinations, different rich points, different translations, different cultures.[…] Culture isn‘t a property of them, nor is it a property of us. It is an artificial construction built to enable translation between them and us, between source and target.[…]If source and target are already

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similar in meanings and contexts, it will take less culture to do the job than if source and target are far apart. The translation we built is the culture we describe. […] Culture is a property of no group. Instead, it is a relation between at least two of them, and the relation will vary depending on the two groups in question. […] Culture is relational. There is no culture of X, only a culture of X for Y. How much and what needs to go into that cultural description depends on which X and which Y define the boundary. In that way at least, culture is the same as translation115.

Spiegare a una classe di giovani studenti cosa si intenda per cultura «relazionale» non è cosa semplice. Le culture sono ancora percepite come entità linguistiche e geopolitiche ben distinte e le identità sono egemonizzate dagli stereotipi nazionali. I textbook non ci dicono cosa siano le cultur-e target «per» qualcuno o qualcosa (un politico, uno scrittore, un nativo, un diverso gruppo-nazione), ma si limitano a offrire informazioni istituzionalizzate ed accertate sulla cosiddetta ‗Civiltà‘, informazioni che lo studente non avverte il bisogno di contestare e che contribuiscono a rafforzare una visione monoculturale e a-critica del mondo.

Nella letteratura odeporica, invece, la frase «there is no culture of X, only a culture of X for Y», acquista particolare pregnanza. Il travelogue è una sorta di ‗terra di mezzo‘, un macroscopico ‗rich point narrativo‘, un testo culturale che non è «proprietà» dell‘osservatore né dell‘osservato, ma che posiziona entrambi in un‘area di confine (boundary) – rendendo possibile la traduzione di significati e codici da un background all‘altro. Uno spazio terziario (in-between), dove gli interlocutori negoziano un linguaggio comune e la distinzione fra outsider ed insider si assottiglia fino a dissolversi.

Nelle rappresentazioni odeporiche, ancor più che in altre, l‘elemento X non può essere disgiunto dall‘elemento Y. L‘uno è ciò che è in virtù dell‘altro e questo luogo liminale di mediazione – che Homi Bahba chiama «Third Place»116 – è la narrativa

95 stessa. Se si studiassero i caratteri delle due culture separatamente e non nella loro relazione dialogica, ci si limiterebbe a prendere la parte per il tutto, con un procedimento di distorsione e/o riduzione affine, come si è osservato, alla stereotipizzazione (metonymic freezing).

Una rappresentazione odeporica permette anche di cogliere l‘identità dell‘elemento Y – di identificare, cioè, il punto di osservazione culturale, la coscienza interpretante. In un C1s travelogue sulla Sicilia, p.es., uno studente ‗siciliano‘ può prendere atto della relazionalità del «culturale» mediante immagini della propria isola associate a prospettive multiple (partendo di volta in volta da diverse small culture, p.es. la nazionalità, il gender, l‘età, e così via.). Ciò significa, in pratica, portare all‘attenzione della classe il fatto che esistano tante ‗Sicilie‘ quante le source culture che le hanno tradotte, rilevando al tempo stesso la contraddittorietà ed incongruenza di tutte queste immagini. Occorrerà però guardarsi dal reificare i due poli del processo traduttivo (source culture e target culture), per non rischiare di parlare di una Sicilia «per» gli Australiani, gli Americani, i Britannici, i Francesi, i Tedeschi, gli Uomini o le Donne e persino l‘Italia tutta (generalizzando i giudizi e le reazioni di un singolo viaggiatore all‘intero gruppo-nazione o a chi, p.es., ne condivide l‘identità sessuale). Bisognerà piuttosto, parlare di una Sicilia secondo colui o colei la cui firma è apposta sul travelogue – una Sicilia osservata in particolari contesti e congiunture storiche – e costruita su complesse reti discorsive che viaggiano attraverso le innumerevoli ‗traduzioni‘ letterarie dell‘Isola.

Un terzo livello di dialogo con il paradigma postmoderno mostra la rilevanza del concetto foucaultiano di ‗potere‘ nel testo odeporico e nelle sue traduzioni. Come bene illustra Smecca, i meccanismi di controllo del potere e le sue relazioni e ramificazioni si esplicano, nella letteratura di viaggio, attraverso quattro diversi agenti:

96 le popolazioni «locali», che veicolano (più o meno consciamente) certe immagini e rappresentazioni della propria cultura; gli «scrittori-viaggiatori», che interpretano e ‗traducono‘ i nuovi significati secondo le proprie cornici concettuali e linguaculturali (cultural bias); i «discorsi» pre-esistenti sulla cultura ospite, che sovrappongono alle rappresentazioni del viaggiatore quelle di una lunga tradizione testuale ed interpretativa (dai comuni cliché ai miti, dalle invenzioni letterarie alle icone mediatiche ed artistiche); e, last but not least, i «filtri traduttivi» interni (la linguacultura del traduttore) ed esterni (i ‗poteri‘ della censura, delle autorità governative e degli editori)117.

Queste quattro dimensioni del potere – che qui chiameremo ‗emica‘, ‗etica‘, ‗discorsiva‘ e ‗traduttiva‘ – si può dire che co-esistano, con illimitate possibilità combinatorie, in ogni rappresentazione odeporica. Esse agiscono in varia misura sulle strategie retoriche e linguaculturali dello scrittore-viaggiatore, che, come annota giustamente Clifford, «cannot avoid expressive tropes, figures, and allegories that select and impose meaning as they translate it»118.

97 Note

1 Cf. M. K. Ansante e W. B. Gudikunst, Handbook of International and Intercultural Communication,

Sage, Newbury Park-London-New Dehli 1989, p. 10. Il modello è ripreso anche da Risager nel saggio ―Cross- and Intercultural Communication‖ in U. Ammon, et al. (eds), Sociolinguistics: An

International Handbook of the Science of Language and Society, Walter de Gruyter, Berlino 2006, vol.

II, p. 1675. All‘analisi di Risager si deve l‘individuazione di due contrapposte scuole all‘interno dell‘IC sulla base del diverso peso nella ricerca delle componenti verbali della comunicazione.

2 C. Kramsch, Teaching along the Cultural Faultline, in D. L. Lange, R. M. Paige (eds), Culture as the Core: Perspectives on Culture in Second Language Learning, Information Age Publishing, Greenwich

2003, p 23.

3 Cf. M. Agar, ―Culture: Can you take it anywhere?‖, cit., p. 3.

4 Byram, Teaching and Assessing Intercultural Communicative Competence, cit., p. 40. [corsivo nostro] 5 Cf. Kramsch, Language and Culture, cit., p. 82.

6 «The cultural identity of multicultural individuals», annota Kramsch, «is not that of multiple

native speakers, but, rather, it is made of a multiplicity of social roles or subject positions which they occupy selectively, depending on the interactional contexts in which they find themselves at the time». Ibid. [corsivo nostro].

7 L‘espressione è usata da Byram in Id., Teaching and Assessing Intercultural Communicative Competence, cit., p. 40. [corsivo nostro]

8 Agar, ―Culture: Can you take it anywhere?‖, cit., p. 7.

9 Sirna Terranova, Pedagogia interculturale. Concetti, problemi, proposte, cit., p. 44. 10 Ibid.

11 Clifford, The Predicament of Culture…, cit., p. 10.

12 W. B. Gudykunst, Y. Y. Kim, Communication with Strangers: an Approach to Intercultural Communication, Random, New York 1984, cit. in Risager, Sociolinguistics: An International Handbook…, cit., p. 1677.

13 W. B. Gudykunst, Bridging differences. Effective Intergroup Communication, Sage, 3rd ed., Thousand

Oaks 1998, p. xiii.

14 Hu, Byram (eds), Introduction, in Id. (eds), Intercultural Competence and Foreign Language Teaching,

cit., p. xx.

15 Ibid. La citazione è tratta da T. Göller, Kulturverstehen. Grundprobleme einer epistemologishen Theorie der Kulturalität und kulturellen Erkenntnis, (s.e.), Würzburg 2000.

16 Byram, Teaching and Assessing Intercultural Communicative Competence, cit., p. 47. 17 Ibid.

18 Ivi, p. 41

19 Per Mughan, cf. ―Business and Management Theories and Models of Intercultural

Competence: Implications for Foreign Language Learning‖, in Hu, Byram (eds), Intercultural

Competence and Foreign Language Teaching, cit., p. 32. 20 Cf. infra, cap.II.

21 Negli Stati Uniti è soprattutto l‘opera delle Peace Corps a creare i primissimi corsi per la

sensibilizzazione interculturale, poi estesi anche ai capi d‘azienda. Per approfondimenti, cf. Mughan, ―Business and Management Theories…‖, cit., p. 34.

22 Ibid. Per ulteriori informazioni sul value model, cf. T. Mughan, ―Intercultural competence for

foreign languages students in higher education‖, Language Learning Journal, Routledge, vol. 20, n. 1, (dicembre 1999), p. 63.

23 Cf. infra, §2.4.

24 Va comunque precisato che, sebbene la mancata esplorazione dei fattori linguistici sia

caratteristica anche della ricerca teorica, è attualmente in corso un dibattito per rivalutare lo studio delle componenti verbali della comunicazione nei percorsi di training manageriale, speculare ad una linea di discussione secondo cui sarebbe auspicabile un ampliamento del focus

98

della FLT anche agli aspetti ‗non linguistici‘ e culture-general della comunicazione. Un segnale che sembra prospettare un avvicinamento tra le due scuole, come dimostrano anche le scelte metodologiche da noi compiute in questo studio. Su questo punto cf. le già citate opere di Mughan.

25 Esistono programmi per addestrare tutte le categorie professionali destinate a ricoprire

posizioni all'estero, persino gli insegnanti o i volontari dei corpi civili di pace.

26 Hu, Byram (eds), Intercultural Competence and Foreign Language Teaching, cit., p. 37. [corsivo

nostro]

27 Si tratta naturalmente di una semplificazione a scopi illustrativi. Così come esistono

approcci didattici che privilegiano anche componenti più universalistiche (come, p. es., la savoir

être nel modello di Byram), è abbastanza comune che i programmi di training prevedano uno o

più percorsi culture-specific, in cui il trainee, per ragioni di studio o professionali, chiede un addestramento specifico che lo metta in condizioni di rispondere efficacemente alle problematiche e alle necessità comunicative di una particolare cultura.

28 Torneremo ancora sul values model e sulle tassonomie culturali. Come già accennato, la nostra

proposta didattica si servirà di queste tassonomie per l‘analisi degli incidenti culturali documentati nel travelogue, pur mantenendo una impostazione apertamente polemica verso tutte le declinazioni del paradigma nazionale.

29 Cf. D. Landis, J. M. Bennett, M. J. Bennett, Handbook of Intercultural Training, Sage, 3rd ed.,

Thousand Oaks 2004, pp. ix-x.

30 L‘individuo è preso in considerazione solo in quanto estrinsecazione idiocentrica o

allocentrica dei pattern culturali riconosciuti come predominanti in estese territorialità (nazioni o parti di continenti). Cf. ibid.

31 Per la seguente presentazione, cf. J. N. Martin, T. K. Nakayama, Intercultural Communication in

Contexts, 4th ed., McGraw-Hill, New York 2006; cf. inoltre P.R. Moran, Teaching Culture:

perspectives in practice, pp. 85-89. Per un quadro più ampio e circostanziato, cf. D. Humphrey, Intercultural Communication Competence: the State of the Knowledge. Report prepared for CILT, The

National Centre for Languages 2007; J.R. Baldwin et al. (eds), Redefining Cultures: Perspectives

across Disciplines, Lawrence Erlbaum Associates, Mahwah, N.J. 2006; C. Roberts et al, Language Learners as Ethnographers, Multilingual Matters, Clevedon 2001.

32 Di matrice funzionalista è anche la definizione di Trompenaars e Hampden-Turner, figure

di spicco nel campo del management interculturale: ―Culture is the way in which people solves problems. […]It dictates what we pay attention to, how we act and what we value.‖ Cf. F. Trompenaars, C. Hampden-Turner, Riding the Waves of Culture: Understanding Cultural Diversity in

Business, Nicholas Brealey Publishing, London 1997, pp. 6-13.

33 L.A. Samovar, R.E. Porter, E.R. McDaniel (eds.), Intercultural Communication: a Reader, 12th

ed., Wadsworth Cengage Learning, Boston 2009, p. 10.

34 Vogliamo ancora una volta ricordare che tutto il nostro lavoro, dalle sue premesse teoretiche agli specifici interventi didattici, mira a demolire questo paradigma e ogni suo corollario.

35 Questa modalità di investigazione risente fortemente delle teorie di Clifford Geerts, come

mostreremo più avanti (Cf. infra, § 1.5.1.3.)

36 Supponiamo che il suo obiettivo sia, p. es., l‘analisi dei modelli comunicativi degli

Afroamericani e degli Euroamericani: esaminarli in relazione a micro-contesti quali, rispettivamente, un evento religioso o un talk show, gli restituirà una comprensione più accurata che distribuire questionari generici sui pattern comunicativi usati dagli Afroamericani e dagli Euroamericani. L‘esempio è adattato da Martin, Nakayama, Intercultural Communication in

Contexts, cit., p 72.

37 «We must cease once and for all to describe the effects of power in negative terms; it

‗escludes‘, it ‗represses‘, it ‗censors‘, it ‗abstracts‘, it ‗masks‘, it ‗conceals‘. In fact, power produces reality; it produces domains of objects and rituals of truth». M. Foucault, Discipline

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38 Nelle parole di Foucault, «power […] is exercised from innumerable points in the interplay

of non-egalitarian and mobile relations». M. Foucault, The History of Sexuality, Pantheon Books, New York 1978a, vol. 1, p. 94.

39 Foucault, Discipline and Punish…, cit, p. 27.

40 M. Foucault, Power/Knowledge: Selected Interviews and other Writings, 1972-1977, in C. Gordon

(ed), trad. C. Gordon et al., Harvester Press, Brighton 1980, p. 131.

41 S. Hall, A Toad in the Garden: Thatcherism among the Theorists, in C. Nelson, L. Grossberg (eds), Marxism and the Interpretation of Culture, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1988, p. 44

[enfasi nell‘originale].

42 D.G. Moon, Thinking about „Culture‟ in Intercultural Communication. In J.N. Martin, T.K.

Nakayama, L.A. Flores (eds.), Readings in Intercultural Communication: Experiences and Contexts, 2nd

ed., McGraw Hill, New York 2002, pp. 15-16.

43 L. Grossberg, History, Politics and Postmodernism: Stuart Hall and Cultural Studies, in D. Morley,

K. Chen (eds), Stuart Hall: Critical Dialogues in Cultural Studies, Routledge, London 1996, p. 157.

44 Ibid. 45 Ibid.

46 Si deve soprattutto agli studi di Johann Herder e Wilhelm von Humboldt la costruzione

dell‘idea romantica dell‘indissolubilità fra lingua e cultura, in quanto espressione di una nazione. Ad essi è anche legato il recupero del valore positivo della diversità culturale e linguistica, caratteristico dell'idealismo romantico.

47 Cf. R. Benedict, Patterns of Culture, Mariner Books, New York 2005, p. 24.

48 Cf. A. Posern-Zieliński (ed), The Task of Ethnology: Cultural Anthropology in Unifying Europe,

Poznań, Drawa 1998, p. 69.

49 Ivi, pp. 30-31.

50 Per Èmile Durkheim (1858-1917), sociologo e antropologo francese, la coscienza collettiva

è «l'insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una società. Questo insieme ha una vita propria che non esiste se non attraverso i sentimenti e le credenze presenti nelle coscienze individuali». Cf. È. Durkheim W.D. Halls, The Division of Labor in

Society (1933), 13th ed., New York 2008, pp. 38-39.

51 M. Mead, And Keep Your Powder Dry: an Anthropologist Looks at America, Berghahn Books,

New York 2000, p. 12.

52 C. Geertz, Interpretazione di Culture, Il Mulino, Bologna 1998, p. 18 [enfasi nell‘originale]. 53 Cf. Risager, Language and Culture: Global Flows and Local Complexity, cit., pp. 42-43. Lo studio

citato da Risager è M.P. Whitaker, Relativism, in A. Barnard e J. Spencer (eds), Encyclopedia of

Social and Cultural Anthropology, Routledge, London-New York 1996. 54 Cf. Keesing, Le teorie delle culture rivisitate, cit., p. 367 e segg.

55 B. Fay, Contemporary Philosophy of Social Science: a Multicultural Approach, Blackwell, Oxford UK-

Cambridge Mass 1996, p. 7 [enfasi nell‘originale].

56 Ibid.

57 U. Hannerz, Thinking about culture in a Global Ecumene, in J. Lull (eds), Culture in the Communication age, Routledge, London 2001, p.58.

58 U. Hannerz, Cultural Complexity: Studies in the Social Organization of Meaning, Columbia

University Press, New York 1992, p. 218.

59 Per Franz Boas, la via di accesso ad una cultura è la sua lingua. Trascrivendo e traducendo i

testi etnografici delle culture indigene d‘America, il linguista si rende conto dei diversi modi in cui i parlanti di lingue differenti organizzano i dati dell‘esperienza. Si tratta di una classificazione realizzata secondo criteri arbitrari, di un particolare modo di sezionare e categorizzare la realtà sensibile specifico di ogni lingua e testimoniato dal suo vocabolario. I livelli semantici possono quindi fungere da ‗mezzi di contrasto‘ delle categorie culturali in uso presso una speech community in un dato momento storico. Boas per primo avanza l‘ipotesi che sia possibile dedurre la centralità, in un sistema culturale, di certi ambiti di esperienza dal numero dei lemmi e dalle loro reciproche relazioni nella semantica della lingua. Ne è la prova l‘esempio, ormai divenuto classico, delle numerose distinzioni lessicali che la lingua eschimese

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offre per il concetto di «neve», fenomeno che, secondo l‘antropologo tedesco, avrebbe una motivazione culturale. (Cf. F. Boas, J.W. Powell, P. Holder (eds), Introduction to Handbook of

American Indian Languages plus Indian Linguistic Families of America North of Mexico, University of

Nebraska Press, Lincoln 1966, pp. 21-22). Sapir e Whorf capovolgeranno le intuizioni del maestro, sostenendo che sono le specifiche codificazioni di una lingua a ‗determinare‘ e/o ‗condizionare‘ la visione del mondo di chi la usa e non il contrario.

60 D.C. Barnlund, ―Intercultural Encounters. The Management of Compliments by Japanese

and Americans‖, Journal of Cross Cultural Psychology, 16, pp. 9-26.

61 E.T. Hall, The Silent Language, Anchor Books, New York 1990, p. 186 62 Hall, The Silent Language, cit., p. 101.

63 Cf. Claude Lévi-Strauss, Structural Anthropology, trad. di Monique Layton, University of

Chicago Press Edition, Chicago 1983.

64 Il significato di un colore (ma lo stesso vale per un più ampio sistema simbolico, come la

lingua, l‘arte, la religione o la scienza) può essere determinato solo da ciò che non è (il rosso è tale in quanto non è arancio, giallo, e così via).

65 All‘interno della sovrastruttura culturale, tutti i sistemi si definiscono in relazione ad altri

sistemi, secondo una logica oppositiva binaria (es. cultura/natura; umano/animale; donna/uomo, etc.).

66 I simboli di per sé non creano cultura; sono creati da una mente umana ‗culturalmente

strutturata‘. Quali sono le proprietà di queste ‗strutture' culturali, secondo Lévi-Strauss? Le risposte dell‘antropologo franco-belga muovono da una visione platonica e razionalista, sintetizzabile in due fondamentali assiomi: non esistono differenze nei processi cognitivi di membri di culture diverse: la mente umana è la stessa, ovunque; le culture presentano similarità nell‘organizzazione delle strutture cognitive, poiché il pensiero umano è regolato da principi logici innati.

67 È possibile tuttavia annotare almeno cinque comuni denominatori fra le posizioni

strutturaliste e quelle cognitiviste: (1) estendono alle culture le caratteristiche formali delle lingue naturali, in linea con il pensiero di Boas e la sua linguistica descrittiva (quantunque variamente temperata da tendenze innatiste); (2) propongono una visione sistemica e semiotica della cultura (anche se diversi, nella natura, sono i principi logici che regolano la formazione delle categorie culturali); (3) sostengono che il locus della cultura non è «l‘azione sociale», ma

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