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Viaggiare è un certo andare ‗in-contro‘, nella duplice e contraddittoria valenza di ‗entrare‘ e ‗scontrarsi‘. È (ri-)conoscere mondi altri – ma soprattutto il ‗proprio‘ – quel «mixed bag of cultures» che ogni viaggiatore porta con sé100. Quando si fa esperienza

di uno di questi in-contri, si pensa sempre ad un luogo della «differenza» – uno spazio separato e ben distinto da noi – in cui ci si sposta per qualche tempo per trovare dimora in una «tenda» (reale o immaginata) allestita a immagine della nostra casa. Questo cronotopo della ‗narrativa‘ personale di ciascuno – per usare una nota

87 categoria bachtiniana su cui torneremo ancora101 – non si manifesta come in-contro fra

due o più «viandanti», ma come movimento unidirezionale che procede da una domesticità a un‘alterità irremovibile, osservata dai pertugi della nostra ‗tenda-casa‘. Questa alterità, che non possiamo fare a meno di tradurre nel nostro ‗linguaggio‘ culturale, non deve per forza immobilizzarsi in un‘astrazione. Essa è fatta di persone e non di personae, di casi isolati e non di casistiche, di fugaci rendevouz dove anche i cosiddetti nativi sono individui in transito – ‗viaggiatori‘ – e tutto è un muoversi, ibridarsi e mutare.

Simili considerazioni ci riportano al bellissimo saggio di James Clifford, Traveling Cultures (1992) – un richiamo alle Traveling Theories di Edward Said (1984)102 – che qui

useremo come punto di partenza per articolare una metafora di cultura adatta ai nostri scopi.

Il saggio cliffordiano contiene una serie di argomentazioni contro una ricerca etnografica che sembra essersi oltremodo «localizzata», ignorando «the wider global world of intercultural import-export in which the ethnographic encounter is always already enmeshed».103 Clifford contesta un‘esperienza sul campo (fieldwork) incurante

della ormai accresciuta permeabilità fra le categorie di insider e outsider. Un‘indagine di impronta malinowskiana, intesa come temporaneo stazionamento in uno spazio conchiuso e rigidamente delimitato (dwelling), che si presume alieno dal mondo da cui si proviene e isolato da campi di forza più estesi e complessi. E dove informant ed etnografi sono come immobilizzati in micro-scenari avulsi da ogni macro-contesto.

Per quanto profonde le «radici» di una cultura e forti le resistenze centripete, il contrappunto dato dalle «rotte» lungo le quali transitano gli esseri umani (tutti, in varia misura, «nativi» e «forestieri») è un moto centrifugo che non si può ignorare. La conoscenza culturale, per Clifford, non si costruisce dimorando con i nativi, ma

88 «viaggiando» con essi. L‘etnografia è un in-contro conoscitivo fra due diverse figure ‗itineranti‘, l‘informant e l‘etnografo, co-abitanti di un spazio terziario (lo spazio dell‘in- betweeness, come ha scritto Homi Bhaba, o del cliffordiano dwelling-in-travel) e al tempo stesso viandanti dell‘ecumene globale. Per Arjun Appadurai, alla cui opera Clifford si richiama, l‘immagine romantica del native «incarcerato» nei suo presunto luogo di appartenenza non ha mai trovato riscontro; è una costruzione dell‘antropologo allo scopo di eleggere una ‗parte‘ o un aspetto della cultura nativa ad espressione compiuta della sua interezza (il villaggio che sta per la ‗cultura‘) – una procedura sineddochica che Appadurai ha perciò denominato «metonymic freezing» e che caratterizza anche uno dei più comuni meccanismi di stereotipizzazione.104A questo tipo di informant,

prigioniero del proprio «villaggio», Clifford contrappone «a complex, historical subject, neither a cultural type nor a unique individual».105 Un «ex-centric native»106.

Nell‘ottica di una riscrittura delle logiche della ricerca antropologica, che moltiplichi «the hands and discourses of writing culture», Clifford individua nel viaggio un‘immagine organizzatrice per la cultura, ovvero il suo cronotopo:

[…] the chronotope of culture (a setting or scene organizing time and space in representable whole form) comes to resemble as much a site of travel encounters as of residence; it is less like a tent in a village or a controlled laboratory or a site of initiation and inhabitation, and more like a hotel lobby, urban café, ship, or bus. If we rethink culture and its science, anthropology, in terms of travel, then the organic, naturalising bias of the term ‗culture‘ – seen as a rooted body that grows, lives, dies, and so on – is questioned. Constructed and disputed historicities, sites of displacement, interference, and interaction, come more sharply into view.107

Il cronotopo del viaggio fornisce, per Clifford, una prospettiva comparativa, e insieme critica, che invita a riflettere sulle complesse interconnessioni fra dislocamenti e

89 localizzazioni culturali, ‗margine‘ e ‗centro‘, culture che viaggiano e culture localizzate, «routes» e «roots».

La nozione del viaggio ha anche un valore paradigmatico per le molteplici stratificazioni e bias culturali che connotano il termine travel. Clifford ammira soprattutto «its historical taintedness, its associations with gendered, racial bodies, class privilege, specific means of conveyance, beaten paths, agents, frontiers, documents and the like».108 Nella sua straordinaria polisemia discorsiva, che coinvolge

i quattro aspetti cruciali dell‘esperienza interculturale – il dislocamento fisico e mentale, l‘incontro, il conflitto e l‘apprendimento – il «viaggio» sembra costituirsi come metafora della comunicazione (e/o formazione) interculturale, nonché della nozione stessa di cultura.

E di questa metafora intendiamo servirci per sfumare la linea di demarcazione fra insider e outsider nella narrativa odeporica. D‘altra parte, le intersezioni fra le cultur-e, il viaggio e la scrittura di viaggio non sono poche né marginali: il displacement, l‘intertestualità e il dialogismo appaiono infatti tra i loro più evidenti punti di confluenza. Senza contare uno dei significati dell‘in-contro odeporico – lo scontro – epitomizzato dai frequenti incidenti comunicativi e dalle negoziazioni obbligate fra traveller e host, fino a comprendere anche le costruzioni e i discorsi delle ideologie dominanti che l‘intertestualità del travelogue testimonia. Questo ulteriore comune denominatore ha per noi una speciale rilevanza, avendo adottato, per l‘esegesi del diario di viaggio, un approccio ermeneutico e dialogico (Bachtin, Bredella, Delanoy Kramsch, Burwitz-Melzer, et al.), focalizzato sui «conflitti» e sulle «voci discordanti» all‘interno del testo e del con-testo classe.

Gli informant cliffordiani, oltre che coincidere con i numerosi host incontrati dallo scrittore-viaggiatore, sono in un certo senso anche i potenziali ‗contatti‘ degli studenti

90 in transito per soggiorni-studio o scambi interculturali. Per questi studenti, il cronotopo del viaggio può essere un‘alternativa a immagini di cultura più ovvie come la tradizione e l‘identità, e può fungere da cartina di tornasole per concetti meno ovvi, come quello del nativo-viaggiatore. E può ricordare loro che ogni ‗straniero‘ che incontrano è prima di tutto un travel-mate. Non un rappresentante o, ancor meno, un «detenuto» della propria cultura, né un‘eccezione deviante. Non un «estraneo» di improbabile accessibilità, ma un individuo attraversato da contraddizioni, ibridismi e stravaganze e, malgrado ne sia inconsapevole, sempre in divenire. Non un «membro» esclusivo della comunità di provenienza, ma – oggi più che mai – un cittadino del mondo (global citizen).

Ripensare, come invitano Clifford ed altri,109 alla comunicazione interculturale

come «travel relations», trova anche una perfetta sinergia con la metafora dei flussi culturali di Ulf Hannerz. Per l‘antropologo svedese, come per Clifford, le culture transnazionali sono «structures of meaning, carried by social networks which are not wholly based in any single territory».110 Si tratta di culture che ‗viaggiano‘ su reti di

comunicazione globali e i cui membri sono quindi assimilabili a ‗viaggiatori‘, poiché, seppur socializzati in una (o più) comunità, intrattengono frequenti contatti con membri di culture altre, contribuendo alla creazione e diffusione di estesi «social network».

Per la centralità dell‘elemento processuale e critico, la nozione di culture as travel è, a ben guardare, un ampliamento del concetto di culture as a verb di Brian Street, con il quale condivide l‘impostazione costruttivista, dialogica ed ermeneutica. In particolare, l‘insistenza geetziana sull‘inter-azione di «interpretazioni» come qualità fondante della cultura, da Fredrik Barth esplicitata in quattro fondamentali assunti, è uno dei cardini teoretici che informa la nostra indagine. Barth sintetizza così i punti focali di tutti gli

91 approcci anti-sistemici di orientamento ermeneutico, a prescindere dalle tante e diverse metafore culturali (travel, verb, flux, translation, network, web, ecumene globale, semiosfera, etc.):

a) il significato è sempre attribuito e non esiste per se stesso o in natura;

b) non si distribuisce equamente fra le popolazioni, e non è un paradigma condiviso su scala globale;

c) la sua distribuzione dipende dal posizionamento sociale degli attori;

d) gli eventi sono «the outcome of interplays between material causality and social interaction, and thus always at variance with the intentions of individual actors».111

Al di là delle intenzioni delle parti dialoganti, e senza negare la forza sovversiva dell‘agency individuale, le sovrastrutture del potere e dell‘autorità agiscono per conto degli attori attraverso il particolare posizionamento sociale che essi mantengono nelle (inter-)azioni comunicative. I significati culturali così ‗contrattati‘, vengono ricomposti in una struttura coerente – solida come una «barriera corallina» – e saldati da ingranaggi di potere e di egemonia molto difficili da ossidare.

Della medesima, ‗solida‘ materia, sono fatte tutte le immagini e i discorsi che dalla memoria collettiva rifluiscono nelle pagine dei diari di viaggio, per far parte dell‘edificio di quella che generalmente si dà come ‗autentica‘ ricostruzione della cultura visitata, o, per dirla con Clifford, come «frutto puro». Un paradigma postmoderno – critico e costruttivista – deve appunto servire a smantellare queste sedimentazioni di gusci corallini – vuoti e privi di vita – che tanto somigliano alle rappresentazioni dell‘Altro (e del Sé).

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