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Il post iudicatum rispetto alle sentenze della Corte

CAPITOLO 1: IL GIUDICATO PENALE

1.7 Ruolo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e

1.7.1 Il post iudicatum rispetto alle sentenze della Corte

EDU: la

restitutio in integrum

Accanto alla necessità di garantire ai cittadini una giustizia “giusta” dal punto di vista sostanziale, non possiamo mancare di considerare la parallela esigenza di garantire alle persone sottoposte a procedimento penale una giustizia che sia tale anche dal punto di vista delle garanzie procedurali riconosciute dagli ordinamenti interni e, ancor più in un panorama generale, dall’ordinamento europeo. Particolare attenzione riserviamo al caso in cui ad essersi pronunciata sia la Corte di Strasburgo, con sentenza che acquisti autorità di giudicato. Ora, si ponga a premessa il valore delle sentenze di tale organo sovranazionale,

in quanto diventano “direttamente produttive di diritti ed obblighi nei confronti delle parti, vale a dire sia rispetto allo Stato, che è tenuto a conformarsi al dictum della stessa Corte e ad eliminare tempestivamente le conseguenze pregiudizievoli della verificata violazione, sia rispetto al cittadino, al quale non può negarsi il diritto alla riparazione, nella formula pecuniaria ovvero nella forma specifica della restitutio in integrum mediante la rinnovazione del giudizio diretta a ristabilire il diritto del richiedente ad un procès èquitable”70; con queste parole, la

Cassazione ha sancito appunto l’incompatibilità logica e fisiologica del diritto alla rinnovazione del giudizio sancita in sede di Corte EDU e persistente efficacia del giudicato, che si vede pertanto neutralizzato fino alla nuova decisione irrevocabile formatasi all’esito del nuovo processo.

Considerando peraltro il dettato dell’articolo 46, comma 1, CEDU, rubricato “Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze” il quale impone una obbligazione di risultato in capo agli Stati membri dell’Unione e che siano stati parte del processo svoltosi dinanzi ad essa, sancendo l’impegno delle “Alte Parti contraenti a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte”, si può supporre in prima battuta un’equivalenza tra “diritto alla restitutio in integrum” e “diritto

alla ripetizione del processo considerato non equo”; in secondo luogo si va sostanzialmente ad introdurre una sorte di “quarto grado di giudizio”, giacché la Corte EDU, fissa un dictum di fronte al quale si paralizza l’esecuzione della pena in via definitiva. In altri termini, si pongono problemi circa l’esecuzione delle sentenze della Corte EDU rispetto al rapporto con il giudicato interno, in quanto l’istituto della restituzione in termini è teso a porre il ricorrente in una situazione equivalente, per quanto possibile, a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata violazione della Convenzione., rimettendo così in discussione il giudicato già formatosi sulla vicenda giudiziaria.

1.7.2 Gli apporti della Corte di Giustizia

Se lo scenario che ci si presenta in sede di Corte EDU appare variegato, quello che invece troviamo in seno alla Corte di Lussemburgo è ancora più variopinto, in quanto il contesto normativo, già a partire dal valore che rivestono i Trattati nel sistema delle fonti, è chiaramente diverso.

L’ordinamento comunitario ha infatti riconosciuto in più occasioni il principio di certezza del diritto, caposaldo del nostro sistema giuridico, ma è anche fondato sul principio di supremazia del diritto comunitario, riconosciuto dagli Stati aderenti all’Unione.

In un tal contesto, la Corte di Giustizia riveste un ruolo nomofilattico, dove le sue sentenze consentono agli Stati membri di sviluppare una interpretazione conforme ai princìpi stabiliti in questa sede, e facendo così avvicinare l’ordinamento comunitario ad un sistema di common law, conferendole “un potere maggiormente accentratore e regolatore su tutti gli stati membri”71 il che porta, tuttavia, ad una necessaria opera di

ridefinizione dei limiti degli istituti che invece sarebbero propri del civil law.

Anzitutto, risiedendo lo scopo dell’attività della Corte nell’assicurare l’esatta osservanza del diritto comunitario ad opera degli Stati membri, non si prevede la necessità di un previo esaurimento dei rimedi interni per accedere ad un suo giudizio, ed anzi il rinvio pregiudiziale che i giudici nazionali fanno ha natura incidentale rispetto al giudizio che si svolge davanti alle corti nazionali, e questo proprio per garantire che il decisum che verrà pronunciato presenti requisiti di conformità al diritto che accomuna gli Stati membri dell’Unione. Inter alia, le decisioni della Corte di Giustizia dispiegano efficacia vincolante per il giudice rimettente72, nonché operano “in via retroattiva,

71 A. L. MARCONI, Ruolo della Corte di Giustizia e valore del giudicato, in Rapporti tra giudicato interno e la primazia del diritto dell’Unione, in Questionegiustizia, p. 3.

nel senso che riguarda ogni rapporto giuridico già sorto, purché non esaurito”73; si può dire quindi che le decisioni prese nel suo

seno hanno efficacia vincolante per la controversia in esame, ma che al tempo stesso esplichino una efficacia creativa del diritto nei confronti degli stati in relazione ai casi futuri aventi oggetto analogo, ponendosi quindi il problema degli effetti di queste sentenze sui rapporti esauriti in quanto coperti dal giudicato. Tra l’altro, affermare la vigenza dei princìpi di supremazia e di primato del diritto comunitario significa anche affermare il primato dell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia, ingenerandosi, in caso contrario, una responsabilità in capo agli Stati tanto nei confronti della Corte quanto nei confronti dei cittadini. Conseguenza pratica dell’impostazione comunitaria appena descritta consiste nella notevole influenza che la giurisprudenza della Corte di Giustizia, e le sue decisioni, esercita sui legislatori nazionali, legati all’obbligo di rispettare tali norme sovranazionali, facendo sorgere profili critici inerenti il raccordo tra le varietà di normative ed istituti, quali, tra questi, quello del giudicato.

Ora, nonostante l’importanza ormai ampiamente riconosciuta dalla stessa Corte al principio di intangibilità del

73 U. COREA, Il giudicato come limite alle sentenze della Corte Costituzionale e delle corti europee, in Judicium, p. 45, richiama BIAVATI, Diritto processuale, p. 439.

giudicato, necessitandosi di uno sforzo per trovare un equilibrio tra le opposte esigenze di assicurare, da un lato, il primato e l’applicazione effettiva del diritto comunitario, e per preservare l’affidamento delle parti insieme alla certezza del diritto dall’altro, a Lussemburgo si è ritenuto in più occasioni di dover apporre deroghe a tale assolutezza.

Tuttavia, è doveroso sottolineare che la Corte di Giustizia, nello scardinare l’istituto del giudicato in alcune sue decisioni, non pone delle regole di applicazione generale, bensì sembra muovere dal caso concreto, effettuando un bilanciamento degli interessi in gioco, comportandosi “più come un organo amministrativo che come un organo giurisdizionale”74.

Il percorso svolto dalla Corte di Lussemburgo è ampio. Passando per la sentenza Kobler75, dove il giudicato relativo ad

un provvedimento giurisdizionale viene sì ritenuto fermo, ma comunque ingenerante una responsabilità risarcitoria in capo allo Stato emittente per violazione di una norma di diritto comunitario76;

74 A. L. MARCONI, Ruolo della Corte di Giustizia e valore del giudicato, p. 7.

75 Corte di Giustizia, 30 settembre 2003, C-224/01.

76 Il caso concerneva un docente universitario che non si era visto riconoscere il diritto ad una indennità di anzianità, che veniva attribuita solo ai docenti con 15 anni di servizio nel territorio austriaco, vantando però il sig. Kobler il quantitativo di anni richiesto, ma in paesi altri dell’Unione. La Corte attribuiva quindi responsabilità allo Stato, anche

in questa sentenza, la Corte parte dalla “fondamentale premessa che il giudicato nazionale può essere considerato nella sua duplice veste di accertamento e di comando, cioè di precetto cui le parti devono attenersi nel caso devoluto alla cognizione del giudice. Se questo è vero, allora la Corte di Giustizia dimostra di restringere l’essenza del giudicato alla sola parte del comando, quando il contenuto precettivo sia fonte di danno ingiusto risarcibile, al pari di una legge o di un provvedimento amministrativo anticomunitario. Per il resto, non tocca il valore del giudicato”77.

Ed ancora, in occasione della sentenza Kühne&Heitz78, con la

quale invece ha stabilito la recessione del giudicato e l’obbligo per l’autorità amministrativa di ritornare sulla propria decisione confermata con provvedimento passato in giudicato, con il compito di tenere in considerazione la sentenza interpretativa

nonostante il fatto che il danno fosse ascrivibile ad una decisione di ultima istanza.

77 I. SANDULLI, Verso l’affermazione di un diritto “euro-unitario”, in Rapporti tra giudicato interno e la primazia del diritto dell’Unione, p. 18-19. 78 Corte di Giustizia, 13 gennaio 2004, C-453/00. Assunto del caso di specie:Kühne&Heitz NV contro ProductschapvoorPluimee en Eieren per pagamento di restituzioni all’esportazione; secondo le dichiarazioni del primo, il Productschap aveva concesso le restituzioni all’esportazione corrispondenti alla sottovoce e aveva versato i relativi importi. Tuttavia, quest’ultimo aveva poi riclassificato i beni merce in questione, chiedendo il rimborso della somma versata, provocando il reclamo da parte di Kühne&Heitz, oggetto però di rigetto, comportando l’appello avverso questo. La Corte d’appello, ritenendo l’interpretazione del diritto comunitario in materia incerta, sottopose la questione alla Corte di Giustizia.

della Corte di Lussemburgo sovvenuta poi a favore dell’interessato soccombente nei confronti della pubblica amministrazione, dichiarando che “la certezza del diritto è inclusa tra i princìpi generali riconosciuti nel diritto comunitario. Il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza e da ciò deriva che il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo”79. Con

tal epilogo la Corte ha riconosciuto, pur se implicitamente, che la tutela dell’affidamento e le regole sull’irrefragabilità del giudicato non valgono nei rapporti non paritetici tra privato e pubblica amministrazione, confermando in questo modo la concezione sostanzialistica e sociale del giudicato, che non assurge solo a strumento per sostenere la “ragion di Stato”, ma anche e soprattutto come mezzo attraverso il quale il cittadino può ottenere una tutela ferma ed effettiva, e quindi anche la certezza, al termine della specifica controversia.

Tuttavia, nella vasta gamma di pronunce della Corte di Giustizia, particolare importanza riveste la nota sentenza

Lucchini80, giacché con essa è stata scardinata l’autorità della

cosa giudicata, destando la preoccupazione della dottrina sul punto. Con questa, infatti, si dichiarava che “il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 c.c. italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione delle Comunità europee divenuta definitiva”81.

In questa sentenza la Corte di Lussemburgo ha seguito due rationes decidendi, poiché pone sulla bilancia sia il richiamo agli stati membri, e di conseguenza anche ai giudici nazionali, di rispettare l’obbligo derivante dal TUE e di garantire la piena efficacia del diritto comunitario, sia poi il fatto, rappresentato, nel caso di specie, dalla competenza esclusiva della Commissione in tema di aiuti, seppur controllata ovviamente dal giudice comunitario. Il risultato di tale bilanciamento consiste nella retrocessione di giudice e di giudicato nazionale in tali fattispecie, dato che “questo principio è vincolante

80 Corte di Giustizia, 18 luglio 2007, C-119/05.

nell’ordinamento giuridico nazionale in quanto corollario del principio di preminenza del diritto comunitario”82. Proprio

questa competenza riservata agli organi comunitari sta alla base della disapplicazione, in questo caso, dell’art. 2909 c.c.

Ovviamente, una sentenza di tale orientamento poneva il problema di “circoscrivere la portata di tale affermata cedevolezza, onde evitare che il giudicato possa ridursi a mero flatus vocis”83. All’indomani di tale decisione, infatti, maturava in

seno alla dottrina ed anche alla giurisprudenza della Cassazione la preoccupazione che il giudicato risultasse cedevole anche quando oggetto di controversia fossero le stesse norme imperative comunitarie. A tal riguardo, si è avanzata la tesi secondo la quale, nel ragionamento della Corte di Giustizia fosse implicita una differenziazione tra le “controversie di diritto comunitario aventi ad oggetto diritti disponibili delle parti, e quelle che invece coinvolgono le norme imperative dell’ordinamento comunitario, il cui primato dovrebbe essere assicurato anche a scapito del giudicato interno”84; in tal guisa,

però, sembra quasi che il giudicato, come dice l’autore in

82 Corte di Giustizia, C-119/05, § n. 62.

83 U. COREA, Il giudicato come limite alle sentenza della Corte Costituzionale e delle corti europee, p. 60.

84 U. COREA, Il giudicato come limite alle sentenze della Corte Costituzionale e delle corti europee, p. 62.

riferimento, rimanga invalicabile solo “entro il recinto nazionale”.

Attualmente pare che prevalga la tesi per la quale la Corte di Giustizia abbia “corretto il tiro”, rimarcando l’eccezionalità della Causa C-119/05 per quanto riguarda la sua incidenza sulla ripartizione di competenze, e ribadendo al tempo stesso come la giurisprudenza europea rimanga stabile nell’affermare che non vi sia alcun obbligo per i giudici nazionali di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità alla cosa giudicata. Nel dire ciò, la corte lussemburghese nota anche che, per quanto sia vigente il principio di autonomia procedurale dei singoli Stati, questa è comunque sempre soggetta ai criteri di equivalenza e di effettività.

Guardando dunque alla giurisprudenza maturata in Corte di Giustizia, possiamo notare che anche solo il mero fatto di mettere in continua discussione la struttura e la valenza del giudicato interno, è sintomo della necessità di ridimensionare i limiti della portata assunta ultimamente dalla exceptio rei iudicatae, individuati dalla Corte nell’impossibilità di opporre il giudicato tra le parti quando da ciò deriverebbe una violazione del diritto comunitario in tema di competenze esclusive

dell’Unione85, il maggior rilievo di una interpretazione

comunitariamente corretta delle norme processuali nazionali, arrivandosi a rideterminare i limiti del giudicato86, ancorché, nel

caso appena citato, la Corte non abbia sancito la cedevolezza del giudicato nazionale, in quanto ne vengono riformulati i limiti in auge al c.d. “effet utile”, con l’effetto di rendere tale sentenza interpretativa un caso di ius superveniens ad efficacia retroattiva87. Dalle pronunce non si capisce però in virtù di cosa

il giudicato nazionale debba cedere a fronte di quello comunitario. Infatti, secondo la Corte di Giustizia, tutte le volte che deve venir meno la stabilità o intangibilità del giudicato, ci si trova di fronte a delle eccezioni a quel principio, anche perché altrimenti, se si riconoscesse valore assoluto alla cedevolezza del giudicato, si creerebbe una falla irrecuperabile nell’ambito della teoria del controlimiti costituzionali elaborata dalle varie corti interne ai singoli stati.

85 Come si evince dal tono della sent. Lucchini.

86 Ci si riferisce a Corte di Giustizia, sent. 3 settembre 2009, C-2/08, Olimpiclub, dove oggetto di controversia era la corretta interpretazione del diritto comunitario in tema di IVA concernente un’annualità fiscale non ancora accertata con provvedimento giurisdizionale definitivo. 87 Conseguenza di ciò consiste nell’impossibilità per i giudici nazionali di fare riferimento al principio di “frammentazione dei giudicati” in materia tributaria; secondo tale principio ogni periodo d’imposta conserverebbe una propria autonomia, con la creazione di distinti rapporti giuridici tra contribuente e fisco a seconda dell’anno di riferimento, andando così ad impedire o quantomeno ad ostacolare le dinamiche elusive/evasive in tema di IVA. L’indirizzo interpretativo appena descritto è stato recepito nel nostro ordinamento con le sentt. n. 25320/2010 e 18907/2011 della C. Cass., V.

Stando così le cose, chiedendoci quali potrebbero essere le conseguenze della decisione della Corte di Giustizia di disapplicare l’art. 2909 c.c., arriviamo a capire la soluzione a media via adottata a Lussemburgo. Infatti, se così fosse, il giudice nazionale potrebbe legittimamente temere che la pronuncia interpretativa comunitaria leda un principio ordinamentale interno, dovendo intervenire la Corte Costituzionale, valutando la prevalenza del diritto alla certezza delle relazioni giuridiche sancite con provvedimento irrevocabile oppure del principio di effettività della tutela giurisdizionale, logicamente conforme alla primauté del diritto comunitario.

In quest’ottica, ne gioverebbe in termini di “sensibilizzazione” la figura del magistrato, che verrebbe chiamato più spesso a ragionare in termini di interpretazione o meglio, di raccordo con l’interpretazione europea, per ottenere una effettiva integrazione eurounitaria88, rinvigorendo lo stesso

principio di effettività. Il giudice nazionale, passerebbe

88 Di recente a tal proposito la L. 18/2015 ha modificato l’art. 2, comma 3, della L.117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati nell’ordinamento italiano, includendosi nelle ipotesi di “colpa grave” la violazione del diritto comunitario, e in quelle di “grave violazione di legge” la “violazione manifesta della legge e del diritto comunitario”, specificandosi l’obbligo di considerare la mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.

dall’essere un mero applicatore della legge, ad un esperto di diritto eurounitario.

1.8 Giudicato penale e revisione: rapporto di regola-

eccezione o di consustanzialità?

Altro strumento impugnatorio straordinario esperibile nei confronti di una decisione che abbia acquisito carattere di irreversibilità è costituito dalla revisione, descritta come un istituto capace di “scongiurare il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze della verità e della giustizia reale”89. In gioco, come già abbiamo accennato, sono i princìpi di

certezza del diritto, stabilità delle relazioni giuridiche, ed esigenze di giustizia sostanziale.

Posta la mitizzazione dell’irrefragabilità del giudicato penale, a scudo delle esigenze di certezza e stabilità del diritto, la dottrina tradizionale configurava il rapporto tra giudicato e revisione come una rigida antitesi, nella quale il giudicato, con la sua intangibilità, costituiva la regola, mentre la revisione ne costituiva l’eccezione; motivo questo, posto a fondamento dei limiti di stretta necessità, rapportati ad una “eccezionale gravità

89 A. DE MARSICO, Diritto processuale penale, Casa editrice Jovene, 1966, p. 328.

dell’ingiustizia”90, proprio in virtù della concezione di

immodificabilità della sentenza divenuta definitiva in conseguenza del carattere di “verità legale” attribuitole91.

Guardando la questione in modo più approfondito, ed andando oltre la lettera della legge, si evidenzia invece una relazione dinamica tra i due istituti processuali; dinamicità che costringe ad allontanare l’idea tradizionale di giudicato come principio assoluto. Infatti, se è vero che l’istituto del giudicato è finalizzato a garantire la certezza del diritto e al tempo stesso la giustizia sostanziale promanante dagli organi giurisdizionali, allora proprio tale firmitas non può impedire né precludere la possibilità di configurare un mezzo processuale che rimedi alla discrasia tra accertamento contenuto nella sentenza irrevocabile e contenuto materiale inerente nuovi elementi fattuali, esterni all’iter di formazione del giudicato sulla vicenda in esame. In altri termini, come descritto da Leone, il giudicato penale, costruito per la difesa dei diritti della società intesa come insieme di individui, non può e non deve collassare in una “paurosa preclusione alla luce della verità e della giustizia”92.

90 A. DE MARSICO, Lezioni di diritto processuale penale, terza edizione, Casa editrice Jovene, 1955, p. 7.

91 F. CALLARI, La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, p. 213. 92 G. LEONE, Il mito del giudicato, p. 198.

Proprio per questo, la revisione è un “procedimento di critica straordinaria”93, che si erge unicamente sull’insorgenza

di nuovi elementi fattuali non considerati dal giudice, in quanto conosciuti solo successivamente, e che si dimostrano inconciliabili con la verità processuale accertata, nonostante la loro cristallizzazione all’interno della sentenza, portando così ad una rinnovazione della fase di merito, chiaramente nell’esclusivo favor del condannato.

Ciò dimostra che nella vita del giudicato può sovvenire un momento in cui, dinanzi ad un novum, se venisse mantenuta ferma la fissità del dictum irrevocabile, la funzione stessa dell’istituto ne risulterebbe snaturata.

Pertanto, si può concludere che tra giudicato penale e revisione intercorra un rapporto non solo dinamico, bensì anche dialettico, tale da farli considerare come due istituti autonomi, non antitetici, ma al contrario, complementari, tali da corroborarsi vicendevolmente, difendendo così le stesse priorità, quali appunto certezza del diritto, stabilità, giustizia sostanziale.

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