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LA RICERCA DI UNA RAGIONEVOLE CEDEVOLEZZA DEL GIUDICATO

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INDICE

Premessa ... 1

CAPITOLO 1: IL GIUDICATO PENALE ... 3

1.1 Origini di un concetto ordinamentale ... 3

1.2 L’articolo 648 c.p.p. e la firmitas iudicati ... 6

1.3 La cosa giudicata formale ... 8

1.4 La cosa giudicata sostanziale; il divieto di bis in idem ... 10

1.4.1 Efficacia preclusiva del ne bis in idem: i presupposti applicativi e le valutazioni offerte dalla Consulta con sentenza n. 200/2016 ... 15

1.4.2 Eccezioni espresse, tenore e riconoscimento europeo del ne bis in idem ... 25

1.5 La funzione costituzionale del giudicato ... 33

1.6 L’incidenza del giudicato penale in sede civile ed amministrativa ... 39

1.7 Ruolo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali: la ricerca della base giuridica nel nostro testo costituzionale ... 47

1.7.1 Il post iudicatum rispetto alle sentenze della Corte EDU: la restitutio in integrum ... 57

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1.7.2 Gli apporti della Corte di Giustizia ... 59 1.8 Giudicato penale e revisione: rapporto di

regola-eccezione o di consustanzialità? ... 70 1.8.1 La revisione in peius del giudicato penale... 73 1.9 La scarna disciplina interna: articolo 2 c.p. e articolo 673 c.p.p. in un’ottica di bilanciamento tra intangibilità del giudicato e principio di uguaglianza ... 80 1.10 La rescissione: altro strumento straordinario che mette in discussione l’autorevolezza del giudicato ... 82 1.11 Esigenze di giustizia in fase esecutiva della sentenza: l’incidente di esecuzione ... 89

CAPITOLO

2:

LE

IPOTESI

ESPRESSE

DI

CEDEVOLEZZA ... 94

2.1 Giudicato penale ed amministrativo, il ruolo della giurisprudenza ... 94 2.2 Abolitio criminis: la disciplina normativa ... 99 2.3 Modifica di specie di pena da detentiva a pecuniaria: deroga al principio di resistenza del giudicato in caso di mutatio criminis. La rideterminazione in executivis ... 107 2.4 Sentenza della Corte Costituzionale che dichiara l’illegittimità costituzionale della norma penale incriminatrice ... 110 2.5 Norma incompatibile con il diritto comunitario ... 111

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CAPITOLO 3: LE NUOVE IPOTESI ELABORATE

DALLA GIURISPRUDENZA ... 115

Premessa ... 115

3.1 La parziale incostituzionalità dell’art. 630 c.p.p.: la Corte Costituzionale si pronuncia con sentenza 113/2011 ... 120 3.2 Sentenza di incostituzionalità che investe il trattamento sanzionatorio di un reato ... 138 3.2.1 Gli automatismi legati alla recidiva ... 140 3.2.2 La modifica del giudicato nel quantum in fase esecutiva: l’incidente di esecuzione ... 149 3.2.3 Dibattiti sugli effetti delle sentenze di incostituzionalità incidenti sul trattamento sanzionatorio rispetto ai giudicati pregressi ... 156 3.2.3.1 Un sostegno all’ampliamento dei poteri cognitivi del giudice dell’esecuzione: l’istituto della continuazione in fase esecutiva ... 165 3.2.3.2 Limiti che incontra il giudice dell’esecuzione della pena nell’ambito del reato continuato ... 183 3.2.4 La sentenza sulla Legge Fini-Giovanardi alla luce delle considerazioni della giurisprudenza ... 193 3.3 Abolitio criminis già intervenuta ma non dichiarata dal giudice della cognizione e non espressamente esclusa; apertura e limiti ad una emendabilità del giudicato a seguito di revivement giurisprudenziale ... 205

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3.4 Il ricorso per cassazione ex articolo 625-bis c.p.p.: da mezzo d’impugnazione straordinario a rimedio sempre meno eccezionale. Ampliamenti applicativi ribadiscono la

sempre minor resistenza della stabilità del giudicato .... 222

CONCLUSIONI: Il panorama de iure condito e le prospettive

de iure condendo ... 237

BIBLIOGRAFIA ... 242

GIURISPRUDENZA ... 247

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LA RICERCA DI UNA RAGIONEVOLE CEDEVOLEZZA DEL GIUDICATO

Premessa

“Per me libertà e giustizia sociale costituiscono un binomio inscindibile; non vi può essere vera libertà senza la giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà.”

Sandro Pertini

Le parole di Pertini rendono chiara quella che è l’intima relazione tra due valori fondanti di uno stato di diritto che possa realmente dirsi tale. È proprio l’individuazione della giustizia sociale ad essere stata, da sempre, fulcro della ricerca dei giuristi, e dell’uomo in generale. Fin dai primi accenni di organizzazione giuridica e giurisdizionale della società civile, la giustizia costituisce il frutto, e non solo il mezzo, di regolazione delle humanae res, giacché l’uomo è, di per sé stesso, fallibile. Solo attraverso l’espletazione della giustizia sociale, l’uomo è pienamente libero di autodeterminarsi, dando alla società il proprio contributo alla serenità, all’evoluzione di questa. In tal guisa, l’uomo ha cercato di dare una certa fermezza a quanto

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stabilito dagli organi di giustizia, qualsiasi fosse la loro struttura ed epoca di cogenza. Da qui la nascita dell’idea di “firmitas iudicati”, espressione del concetto di irrefragabilità del giudicato e, come conseguenza, di certezza del diritto. Firmitas che esprime altresì un profilo di “autorità”, proprio in ragione dell’autorevolezza e della superiorità degli organi da cui promana.

In questo elaborato, ci occuperemo di evidenziare la valenza dell’istituto del giudicato penale, alla luce del suo ruolo sociale di garanzia di una giustizia che sia non soltanto formale, bensì anche sostanziale; proprio in tal prospettiva, dunque, l’irrefragabilità che connaturerebbe tale dictum lascia spazio alla sua cedevolezza, la “forma” lascia spazio alla “sostanza”, il “diritto” lascia spazio alla “giustizia”.

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CAPITOLO 1: IL GIUDICATO PENALE

SOMMARIO: 1.1: Origini di un concetto ordinamentale.

1.2: L’articolo 648 c.p.p. e la

firmitas iudicati

. 1.3: La cosa

giudicata formale. 1.4: La cosa giudicata sostanziale; il

divieto di

bis in idem

. 1.4.1: Efficacia preclusiva del

ne bis

in idem

: i presupposti applicativi e le valutazioni offerte dalla Consulta con sentenza n. 200/2016. 1.4.2: Eccezioni

espresse, tenore e riconoscimento europeo del

ne bis in

idem

. 1.5: La funzione costituzionale del giudicato. 1.6:

L’incidenza del giudicato penale in sede civile ed amministrativa. 1.7: Il ruolo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali: la ricerca della base giuridica nel nostro testo costituzionale. 1.7.1: Il

post iudicatum

rispetto alle sentenze della Corte EDU: la

restitutio in integrum

. 1.7.2: Gli apporti della Corte di Giustizia. 1.8: Giudicato penale e revisione: rapporto di regola-eccezione o di consustanzialità? 1.8.1: La revisione

in peius

del giudicato penale. 1.9: La scarna disciplina interna: articolo 2 c.p. e articolo. 673 c.p.p. in un’ottica di bilanciamento tra intangibilità del giudicato e principio di uguaglianza. 1.10: La rescissione: altro strumento straordinario che mette in discussione l’autorevolezza del giudicato. 1.11: Esigenze di giustizia in fase esecutiva della sentenza: l’incidente di esecuzione.

1.1 Origini di un concetto ordinamentale

Difficile è individuare le origini esatte di un concetto tanto astratto come quello del giudicato. Ogni cultura, nel suo organizzarsi socialmente, sente la necessità fisiologica di dare un peso “autorevole” alle decisioni prese dagli organi adibiti, nelle forme e con le legittimazioni più variegate, a fare la giustizia del caso concreto e la giurisprudenza nelle sue forme più auliche. Da Democrito a Giustiniano, dalla Lex Romana al

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Medioevo, sino alle grandi codificazioni, la definitività di ciò che veniva stabilito da chi amministrava la legge e la giustizia, è sempre stata riconosciuta, ricercata, mai data per dubbia. Era ed è sempre stata una questione di politica giuridica, sociologia, potere. L’idea di giudicato, considerato intangibile ed assoluto prima, e passibile di essere messo in scacco poi, ha sempre costituito il fondamento di un sistema giuridico che volesse dirsi tale.

Per comprendere appieno l’essenza dell’istituto, bisogna partire da una ricostruzione e ricognizione, in primis terminologica, di due espressioni apparentemente equivalenti, ma in realtà radicalmente distinte: il giudicato e la cosa giudicata, termini che detengono una precisa autonomia ontologica, che prende le mosse dall’esperienza giuridica del diritto romano.

La parola “giudicato”, traduzione letterale del vocabolo “iudicatum”, esprime il dictum immutabile che individua la decisione definitiva ed irrevocabile emessa dall’organo giurisdizionale. In origine, la sentenza, per il solo fatto di essere stata pronunciata, determinava automaticamente il formarsi del giudicato; in seguito, evolvendosi il sistema processuale, con la nascita del giudizio d’appello, è venuto ad affermarsi il principio per cui il giudicato non si forma attraverso la mera emissione della sentenza, ma soltanto a seguito del compiuto esperimento

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di mezzi di impugnazione specifici: questo viene individuato come l’istante in cui sententia transit in iudicatum1. Da questo

momento in poi, sono giunti a distinguersi due profili, prima sostanzialmente coincidenti nell’irretrattabilità del risultato del processo: l’irrefragabilità del giudicato, attinente all’ irrevocabilità della sentenza, e il principio di ne bis in idem.

L’espressione “cosa giudicata”, dal latino “res iudicata”, assumeva, nel linguaggio giuridico romano, una precisa connotazione tecnica, andando a raffigurare la situazione fatta valere in giudizio dall’attore e contestata dal convenuto, che nel corso del processo veniva sottoposta al giudice e da questi decisa definitivamente. Pertanto, in ambito penale la cosa giudicata sta ad indicare la “materia del giudizio”2.

Nel corso dei secoli, e con l’evoluzione dei sistemi giurisdizionali e processuali, il rapporto intercorrente tra questi due termini e profili, venne ad assumere varie fattezze, a seconda, non si può tralasciare di considerarlo, del contesto storico di riferimento.

1 F. CORDERO, Procedura penale, Giuffrè Editore, Milano, 2006, p. 1102 2 F. CALLARI, La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, Giuffrè Editore, Milano, p. 12.

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1.2 L’articolo 648 c.p.p. e la

firmitas iudicati

Secondo il dettato del comma 1 dell’articolo 648 del codice di procedura penale “Sono irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione”.

L’irrevocabilità richiamata dal testo del codice consiste nell’acquisizione di “autorità” della cosa giudicata formale, a seguito dell’ormai avvenuto esaurimento della situazione giuridica processuale, ovvero quando sono divenute irretrattabili tutte le questioni utili e “necessarie” ai fini della condanna o, viceversa, del proscioglimento; dalla irrevocabilità discende fisiologicamente la “definitività” del contenuto del provvedimento. Tale definitività non è altro che la manifestazione sintomatica dell’assenza di necessità automatica di prosecuzione del processo penale. Il iudicatum o sentenza irrevocabile, si articola internamente, a livello concettuale e non solo, nella imperatività e nella immutabilità, profili effettuali strettamente connessi in quanto “il dictum penale non acquista forza di comando se non sia collaudato dalla acquiescenza del soccombente o, altrimenti, se non passi per una certa trafila di collaudi, dimodochè normalmente non è imperativo se non è

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immutabile e non è immutabile se non è imperativo”3. In questo

modo, il principio di irrefragabilità del giudicato penale riguarda sia il momento imperativo della decisione, che si esprime nel comando particolare, incarnato nel dispositivo del provvedimento, sia il momento logico del giudizio, che si concretizza nella motivazione, sede materiale dell’accertamento del fatto oggetto di giudizio. Proprio la motivazione del provvedimento, una volta avvenuto il passaggio in giudicato, perde i tipici effetti endoprocessuali, facendo acquistare al fatto in essa accertato un nuovo valore giuridico ed un’autonoma rilevanza ordinamentale, andando in tal modo a corroborare l’essenza della firmitas iudicati4. La motivazione, infatti, fissa

quel momento in cui certezza ed esistenza, distinguibili dal punto di vista logico, vengono ad identificarsi sul piano del processo nel rapporto tra giudizio e realtà sostanziale, dimodochè “la realtà accertata deve tenersi per realtà esistente”5.

3 F. CARNELUTTI, Contro il giudicato penale , in Riv. Dir. Proc., 1951, I, p.290

4 G. CHIOVENDA, Sulla cosa giudicata, Società Editrice Foro Italiano, p.406 si può dire che “raggiunto col divenire definitiva della sentenza l’accertamento della volontà della legge, l’ordinamento giuridico non spezza e dimentica l’apparato logico che servì a raggiungerlo, come l’artista spezza ed oblia la creta di cui prima si servì per la rappresentazione della sua idea. Non scompare agli occhi del diritto il ragionamento ed ogni traccia dei suoi possibili errori”.

5 A. CRISTIANI, La revisione del giudicato nel sistema del processo penale italiano, Giuffrè Editore, p.39.

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1.3 La cosa giudicata formale

Considerato che il processo, che sia penale o civile, non è altro che una sequenza di atti e di azioni, in cui ciascuno di questi costituisce la conseguenza del precedente e al tempo stesso la premessa del successivo, risulta logico dedurre che quello che sarà il provvedimento culminante di tutto l’iter procedimentale, dovrà essere dotato di forza ed autorità tali da potersi considerare di per sé definitivo, in quanto “espressione piena dell’attività giurisdizionale, che si cristallizza”6. Tale

cristallizzazione viene individuata nella cosa giudicata formale, avente la precisa finalità di impedire una pluralità indefinita di sentenze sullo stesso oggetto, nell’ambito dello stesso procedimento penale. Proprio questa è la ratio che ha da rinvenirsi nel dettato del comma 1 del suddetto articolo 648 c.p.p.; se infatti non si prevedesse un limite al diritto-potere di impugnazione riconosciuto alle parti, si assisterebbe ad una reiterazione potenzialmente infinita di sentenze de eadem quaestione, cosa impensabile in un sistema di diritto preoccupato di assicurare proprio la certezza del diritto medesimo, inteso come accertamento giurisdizionale e come presupposto della “giusta pena” e della rieducatività di quest’ultima. Vediamo, quindi, come dietro quello che è definito come principio di

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intangibilità del giudicato, ci siano scelte tecniche del legislatore, unitamente a scelte di carattere politico, per ottenere un riconoscimento sociale dell’autorità del dictum intangibile. Il richiamo alla parola “autorità” non è casuale, in quanto, etimologicamente parlando, il latino “auctoritas” deriva dal verbo latino “augere”, che significa “accrescere”, “aumentare”, “rafforzare”; tale considerazione etimologica ci porta obbligatoriamente a considerare l’espressione come sinonimo di “accrescimento e sublimazione del valore giuridico dell’accertamento giudiziario”7.

Dunque, ecco che prende forma il concetto di cosa giudicata formale, che trova la sua espressione tecnico-procedurale nell’irrevocabilità delle sentenze definitive, richiamata all’articolo 648 c.p.p. del 1988.

A tal riguardo, il primo comma del sopra citato articolo, vede nel fatto che si tratti di provvedimento emesso nell’ambito di un giudizio, e che contro di esso non possa ammettersi impugnazione diversa dalla revisione, le condizioni per la realizzazione compiuta di tale irrevocabilità; al comma 2 il legislatore ha, invece, voluto puntualizzare il momento logico-temporale del passaggio in giudicato, vincolando l’acquisizione dello status normativo di irrevocabilità alla “più o meno residua

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possibilità di proporre impugnazione”, per cui il “passaggio in giudicato del provvedimento si perfeziona per l’inerzia o l’acquiescenza dei titolari del diritto di doglianza”8.

1.4 La cosa giudicata sostanziale; il divieto di

bis in idem

Prendendo atto quindi della cosa giudicata formale come condizione fondamentale per salvaguardare l’incontrovertibilità dell’accertamento giudiziario, bisogna considerare che questa necessita, per ottenere completa realizzazione, di vedere tale sua autorità corroborata e protetta da un istituto giuridico capace di assicurare e conservare la sostanziale intangibilità del risultato processualmente definitivo. Tale istituto è rappresentato dalla cosa giudicata sostanziale, che, con la sua efficacia di vincolo negativo, impedisce così l’instaurazione di una pletora inutile, nonché antigiuridica, di processi de eadem re. Sostanzialmente, dunque, la cosa giudicata sostanziale viene ad identificarsi con il divieto di bis in idem, il quale trova espressione normativa nell’articolo 649, comma 1, c.p.p. Il legislatore, con questa struttura codicistica, ha reso cosa giudicata formale e divieto di bis in idem un tutt’uno che concorre a “chiudere il cerchio delle

8Cass., VI, 2 ottobre 2002, Lombardo, in Cass. Pen., 2004, p. 165; Cass., 15 febbraio 2002, Bartelloni, in Giur.it., 2003, c.156.

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garanzie idonee ad assicurare l’intangibilità del risultato del processo”9.

Bisogna però tenere in considerazione il fatto che a lungo la dottrina, nelle sue articolazioni più disparate, ha fondato la sua concezione del ne bis in idem e dell’assolutezza del giudicato sul presupposto per cui oggetto del processo penale e, quindi, anche del relativo giudicato, sarebbe il “dovere punitivo” o ius puniendi, che nascerebbe in capo allo Stato a fronte della condanna pronunciata in sede di giudizio; sulla scia di tale premessa, talune correnti dottrinali attribuivano al prodotto del processo una valenza panprocessuale o erga omnes, quasi come se si volesse trovare, o ancor meglio giustificare, un collegamento tra funzione general-preventiva e special-preventiva, prendendo spunto, risulterà chiaro, dalla logica civilistica, e riducendo così la responsabilità penale ad un’obbligazione di diritto pubblico in cui il soggetto attivo, creditore della pena, sarebbe lo Stato, mentre il soggetto passivo o debitore della pena sarebbe il cittadino condannato. Questo portò problemi riguardanti la “definizione della natura e dell’ampiezza degli effetti del giudicato, la cui autorità si mostra assoluta, equivalente a quella della legge stessa, pur consistendo al contempo in una forza

9 G. DE LUCA, Giudicato, II) diritto processuale penale, Enciclopedia giuridica Treccani, p.1

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proibitiva, preclusiva appunto nella consunzione processuale dell’azione penale derivante da un determinato reato”10; i

risvolti dubbi che ne conseguirono riguardavano i concorrenti estranei al giudizio, nonché la restrizione di tale effetto preclusivo alle sole sentenze di assoluzione per insussistenza del fatto, “tranne per ciò che concerne la sussistenza materiale del fatto e la dichiarazione di estinzione del reato per causa obiettiva”11, nonché quelle di proscioglimento per insufficienza

di prove.

Come sostiene Stefano Ruggeri, “il ne bis in idem, almeno per come configurato dall’art. 649 c.p.p., non dipende da altro che dalla sentenza nuda e cruda”12, proseguendo poi con

l’affermare criticamente che la concezione mitizzante di questo momento processuale è dovuta essenzialmente alla scarsa attenzione dedicata alla natura dell’istituto, costituendo questo non l’unica manifestazione della cosa giudicata penale, “ma senz’altro la più pura, in quanto consistente in una preclusione neutra ed in quanto, perciò, testimonianza di un ciclo del giudizio che comunque si chiude: la qual cosa mostra altresì quanto poco corretta sia la configurazione del ne bis in idem in

10 S. RUGGERI, Giudicato penale ed accertamenti non definitivi, Giuffrè Editore, p. 279

11 V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, IV, terza edizione aggiornata ed accresciuta, Utet, p. 593.

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chiave negativa e quale effetto ulteriore, ossia ontologicamente distinto, rispetto ad altri tipi di giudicato”13.

Sempre Ruggeri affronta poi il problema rappresentato dalla relazione che intercorre talvolta tra litispendenza e giudicato; queste due “facce problematiche” sono invero intimamente correlate, facendo parte di un unico grande problema, che consiste fondamentalmente nella plurima esposizione dell’imputato a procedimenti penali per lo stesso fatto. Dunque, risulterebbe quantomeno illusorio, secondo l’autore, “pensare di risolvere la questione della forza preclusiva del giudicato se resta comunque consentito che si proceda ad una doppia persecuzione dell’imputato; anzi, le carenze della disciplina del giudicato si accentuano proprio per l’assenza di una chiara normativa sulla litispendenza”14.

La questione, pertanto, verte sulla applicabilità o meno dell’art. 649, comma 2, c.p.p. qualora inizi un secondo processo su di un fatto, oggetto però già di un processo non ancora conclusosi. Appare chiaro che un’applicazione diretta dell’art. 649, comma 2, c.p.p. non è praticabile; tuttavia, la Corte di legittimità ha risolto la questione optando per un’interpretazione analogica della norma de qua.

13 S. RUGGERI, Giudicato penale ed accertamenti non definitivi, p. 295. 14 S. RUGGERI, Giudicato penale ed accertamenti non definitivi, p. 298.

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Secondo le Sezioni Unite infatti, deve farsi in primis una distinzione tra l’ipotesi in cui i due processi nei confronti della stessa persona riguardo il medesimo fatto pendano di fronte a sedi giudiziarie distinte, e quella, invece, in cui i processi siano pendenti all’interno della medesima sede giudiziaria.

Nella prima ipotesi rappresentata, infatti, si ha un conflitto positivo di competenza, causato appunto dalla simultanea cognizione di una identica questione ad opera di giudici differenti; situazione da risolversi nei modi consueti15. Questo

meccanismo opera qualora siano stati investiti della medesima questione giudici dello stesso ovvero di distinti distretti di corte d’appello, diversamente competenti per territorio16 o per

materia17; dunque nessun ricorso al ne bis in idem risulta

praticabile.

Diversamente avviene per quanto concerne la seconda ipotesi, poiché, essendo unico l’ufficio procedente, non avrebbe senso parlare di conflitto; analoga conclusione si ha nel caso in cui due processi siano pendenti dinanzi alla stessa sede, ma in gradi differenti. Applicare o meno l’art. 649 c.p.p. in questo caso

15 Ex art. 28, comma 1, lett. b), c.p.p. si prevede che uno dei due giudici declini la propria competenza in favore dell’altro; in caso di persistenza, poi, del conflitto, deve esserne investita la Corte di Cassazione, ex artt. 29-32, c.p.p.

16 Ad esempio due tribunali o due giudici di pace.

17 Ad esempio un tribunale ed un giudice di pace o un tribunale ed una corte d’assise.

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è il punto cruciale della questione sottoposta alla Cassazione, la quale ha precisato che la norma in esame “costituisce solo uno specifico punto d’emersione del principio di ne bis in idem, che invece permea l’intero ordinamento”18. Sulla scorta di ciò, nel

pensiero così come espresso dalla voce unita delle Sezioni, ove manchi una sentenza irrevocabile, ad imporre una declaratoria di impromovibilità non è tanto l’art. 649 c.p.p., limitato entro confini più angusti, quanto la regola del ne bis in idem, desumibile dalla macchina processuale nel suo complesso.

1.4.1 Efficacia preclusiva del

ne bis in idem

: i presupposti

applicativi e le valutazioni offerte dalla Consulta con sentenza n. 200/2016

Ovviamente, perché operi l’efficacia preclusiva attribuita alla cosa giudicata sostanziale, devono sussistere, dal punto di vista tecnico, due presupposti: uno di natura soggettiva, l’altro di natura oggettiva.

Il primo è rappresentato dalla identità tra la persona sottoposta a procedimento penale già conclusosi con provvedimento passato ormai in giudicato, e quella che si vorrebbe sottoporre ad un nuovo procedimento penale (concetto

18 F. CAPRIOLI - D. VICOLI, Procedura penale dell’esecuzione, seconda edizione, Giappichelli Editore, p. 67.

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di eadem persona); identità, questa, che deve sussistere, però, anche tra situazioni processuali, posto che nulla esclude che, per esempio, chi sia stato imputato in un certo processo, possa essere sottoposto ad un nuovo procedimento penale per il medesimo fatto, ma in veste di responsabile civile o di civilmente obbligato alla pena pecuniaria19.

Il secondo presupposto è invece costituito dall’identità tra il fatto già oggetto di decisione di una sentenza irrevocabile ed il fatto in relazione al quale si vorrebbe instaurare un nuovo procedimento penale. In questo senso, problematica si è rivelata l’individuazione di un criterio valido per definire la medesimezza del fatto, ossia se questa sia da rinvenirsi considerando la sua accezione naturalistica, ovvero, piuttosto, la sua qualificazione giuridica. Ad offrire risposta a tale questione è il testo dello stesso articolo 649 c.p.p. nell’inciso in cui riporta “neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo”; d’altronde, costituendo il titolo nient’altro che la qualificazione giuridica del fatto naturale, di conseguenza, anche il nomen iuris risulta irrilevante ai fini della determinazione dell’identità tra i

19Se invece, i concorrenti nello stesso reato, sono rimasti estranei al processo conclusosi con sentenza irrevocabile, il divieto di bis in idem non opera. In dottrina, il giudice del procedimento a carico del concorrente può rivalutare il comportamento del soggetto già giudicato, anche se unicamente al fine di accertare la sussistenza ed il grado di responsabilità dell’imputato da giudicare (P. TONINI, Manuale di procedura penale, Giuffrè Editore, p. 807).

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due fatti presi in esame. Occorre peraltro precisare che una eventuale diversa valutazione normativa potrebbe condurre ad ammettere rinnovazioni dell’accusa relative alla stessa condotta, andando così a confliggere con la ratio del principio di ne bis in idem.

Tuttavia, rinvenire l’identità tra fatti sulla scorta di una mera realtà materiale e naturale, comporta l’ulteriore complicanza del dover considerare il fatto come, secondo la teoria generale del reato, “elemento materiale”, costituito a sua volta dall’unione imprescindibile di “condotta”, “evento” e “nesso causale”; questa lettura ha portato la giurisprudenza a considerare non operante il divieto di bis in idem nelle ipotesi in cui anche solo uno dei tre fattori componenti l’elemento materiale venga a differire20. Oggi la dottrina maggioritaria

ritiene, come nella vigenza del vecchio codice, che per aversi l’operatività del divieto di bis in idem sia sufficiente la sola identità di condotta dell’agente, sia essa attiva od omissiva; a sostegno di tale tesi, il tenore del medesimo articolo 649 c.p.p., nell’inciso in cui riporta le parole “neppure se questo viene diversamente considerato […] per il grado”, lasciando al nesso causale una minore rilevanza ai fini dell’applicabilità di tale istituto.

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Non rientra invece nel campo di applicazione del principio in argomento, il caso in cui lo stesso fatto risulti plurioffensivo, costituendo violazione di più norme penali incriminatrici, dando così luogo a concorso formale di reati21, a condizione che la

sentenza irrevocabile già intervenuta non abbia dichiarato l’assoluzione dell’imputato con le formule “perché il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso”. Nell’ipotesi di concorso formale di reati, infatti, la fattispecie potrà essere riesaminata sotto il profilo di una diversa violazione di legge derivante dallo stesso fatto, dove unico limite consiste proprio nella necessaria non incompatibilità del secondo giudizio con il primo.

Recentemente, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 200/2016, si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale avanzata dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino proprio contro l’art. 649, nella parte in cui “limita l’applicazione del principio di ne bis in idem all’esistenza del fatto giuridico, nei suoi elementi costitutivi, sebbene diversamente qualificato, invece che all’esistenza del medesimo fatto storico”, riferendosi anche all’art. 117, comma 1, Cost., in relazione con l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.

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La questione di dubbia legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. è sorta spontaneamente, giusto che il giudizio a quo, essendo imperniato sull’accusa di omicidio volontario a carico del titolare della multinazionale Eternit, andava a sottoporre nuovamente il medesimo soggetto ad un secondo procedimento penale, nonostante fosse già intervenuta una sentenza assolutoria per prescrizione dei reati già addebitatigli.

Secondo l’interpretazione dell’art. 649 c.p.p., fatta alla luce del diritto vivente, non ci sarebbe stata nessuna violazione del divieto di secondo giudizio, in quanto l’articolo in riferimento considera, per la sua operatività, la medesimezza del “fatto giuridico”; in quest’ottica, essendo diverse le fattispecie incriminatrici che si assumono violate22, non si sarebbe profilata

alcuna violazione del ne bis in idem, attesa la diversità strutturale che intercorre tra le due norme e, dunque, tra le rispettive imputazioni.

Tuttavia, se si adotta l’interpretazione fornita dalla Corte EDU, ecco che la questione si rivela di non facile soluzione.

22 Nel “processo Eternit” all’imputato erano stati contestati i delitti contro l’incolumità pubblica quali: omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro ex art. 437 c.p., aggravato dal manifestarsi di malattie-infortunio e di disastro innominato doloso ex art. 434 c.p., aggravato poi dall’evento “disastro” di cui al capoverso.

Nel “processo Eternit-bis”, invece, il medesimo imputato viene raggiunto dall’accusa di omicidio volontario delle 258 morti registrate tra i dipendenti ed i residenti delle zone limitrofe alla fabbrica causate dall’incontrollata esposizione all’amianto negli anni ’70 e ’80.

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Infatti, stando a quanto disposto dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione, nell’individuare un’eventuale violazione del divieto di secondo giudizio dovrebbe farsi riferimento non al “fatto giuridico”, e quindi alla denominazione giuridica che viene data ad una determinata condotta, bensì al “fatto storico”, ossia alla dimensione naturalistica e materiale con cui la fattispecie si manifesta, da determinarsi in base al contesto spazio-temporale del caso di specie.

La Consulta, ha infine optato per un’interpretazione rispettosa del richiamato art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione, abbracciando così la teoria dell’idem factum, e ha così dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale”23.

Proseguendo, la Corte Costituzionale ha poi rilevato, costituendosi la nozione di fatto storico dell’insieme di condotta, evento e nesso causale, che “non v’è alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella sua dimensione empirica, si restringa all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se

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non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente”24. Il criterio del ne bis in idem ,

spiega poi la Corte, è affrontato dalla Corte europea con una certa relatività, “nel senso che esso patisce condizionamenti tali da renderlo recessivo rispetto ad esigenze di carattere sostanziale. Questa circostanza non indirizza l’interprete, in assenza di una consolidata giurisprudenza europea che lo conforti, verso letture necessariamente orientate nella direzione della più favorevole soluzione dell’imputato, quando un’altra esegesi della disposizione sia comunque collocabile nella cornice dell’idem factum”25. Secondo il collegio, tra l’altro, il criterio

dell’idem legale, a livello ordinamentale interno, appare troppo debole a fronte del panorama di garanzie costituzionali, in quanto “solo un giudizio obbiettivo sulla medesimezza dell’accadimento storico scongiura il rischio che la proliferazione delle figure di reato, alle quali in astratto si potrebbe ricondurre lo stesso fatto, offra l’occasione per iniziative punitive, se non pretestuose, comunque tali da porre perennemente in soggezione l’individuo di fronte a una tra le

24 C. Cost., sent. 200/2016, § n. 4 del “Considerato in diritto”. 25 C. Cost., sent. 200/2016, § n. 6 del “Considerato in diritto”.

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più penetranti ed invasive manifestazioni del potere sovrano dello Stato-apparato”26.

Tra le garanzie offerte dal tenore della Carta Fondamentale, si annovera certamente il “principio di civiltà giuridica, oltre che di generalissima applicazione”27, il quale

trova espressione nel ne bis in idem e che, se non venisse rispettato, come richiama la stessa Corte, “proietterebbe l’ombra della precarietà nel godimento delle libertà connesse allo sviluppo della personalità individuale, che si pone, invece, al centro dell’ordinamento costituzionale”28.

In coerenza con ciò, la Corte ha istruito il giudice rimettente, sostenendo che “sulla base della triade condotta-nesso causale-evento naturalistico, il giudice può affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione empirica29, sicché non dovrebbe esservi dubbio, ad

esempio, sulla diversità dei fatti, qualora da un’unica condotta scaturisca la morte o la lesione dell’integrità fisica di una persona non considerata nel precedente giudizio, e dunque un

26 C. Cost., sent. 200/2016, § n. 7 del “Considerato in diritto”. 27 Ordinanza 150/1995.

28 Qui la Corte richiama: sent. 1/1969 e sent. 219/2008.

29 Questa è la concezione di “fatto storico” assunta dalla Corte EDU a seguito della sent. Zolotoukhine c. Russia, pronunciata nel febbraio 2009.

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nuovo evento in senso storico”30; conseguenza di siffatta

considerazione consiste, pertanto, nell’insussistenza del ne bis in idem in riferimento alle persone offese nel processo Eternit-bis che non comparivano nell’ambito del primo processo.

Per altro verso, la Consulta si preoccupa di puntualizzare che fulcro della questione non sta tanto nello stabilire la superiorità dell’interpretazione della Corte EDU ovvero del diritto interno, bensì, piuttosto, nell’avere certezza del fatto che la prima non obblighi ad applicare sempre e comunque la nozione di medesimo fatto più favorevole all’imputato, “posto che la garanzia del ne bis in idem non assume tratti di assolutezza”31.

D’altro canto, la Corte sembra lasciare aperto uno spiraglio per ciò che concerne le persone che invece erano già parti offese nel processo Eternit, lasciando al giudice a quo il compito di “accertare se la morte o la lesione siano già state specificamente considerate, unitamente al nesso di causalità con la condotta dell’imputato, cioè se il fatto già giudicato sia nei suoi elementi materiali realmente il medesimo, anche se diversamente qualificato per il titolo, per il grado e per le circostanze”; la complessità di tale operazione consiste nel fatto

30 C. Cost., sent. 200/2016, § n. 12 del “Considerato in diritto”. 31 C. Cost., sent. 200/2016, § n. 6 del “Considerato in diritto”.

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di dover valutare l’identità del fatto storico alla luce degli elementi che hanno rappresentato la base fattuale del primo processo a carico del titolare della multinazionale in questione per fondare l’accusa nella quale consisteva la prima imputazione.

Ulteriore questione era il possibile contrasto tra ormai sovvenuto giudicato ed esercizio dell’azione penale con riferimento a fattispecie in concorso formale con i reati già oggetto di condanna; di fronte a ciò, la Consulta sancisce l’obbligo in capo all’autorità giudiziaria e dello stesso giudice a quo di “porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all’esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione. A tale scopo è escluso che eserciti un condizionamento l’esistenza di un concorso formale, e con essa, ad esempio, l’insieme degli elementi indicati dal rimettente nel giudizio principale (la natura del reato; il bene giuridico tutelato; l’evento in senso giuridico)”32, in quanto, come sostiene

la Corte “è facilmente immaginabile che all’unicità della condotta non corrisponda la medesimezza del fatto, una volta che si sia precisato che essa può discendere dall’identità storico-naturalistica di elementi ulteriori rispetto all’azione o

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all’omissione dell’agente”33. Peraltro, la circostanza che i reati

concorrano formalmente non sembrerebbe interferire con l’area coperta dall’art. 649 c.p.p., nonostante il fatto, denunciato dalla Corte, che il diritto vivente abbia “saldato il profilo sostanziale implicato dal concorso formale dei reati con quello processuale recato dal divieto del bis in idem, esonerando il giudice dall’indagare sulla identità empirica del fatto, ai fini dell’applicazione dell’art. 649 c.p.p.”34.

1.4.2 Eccezioni espresse, tenore e riconoscimento europeo del

ne bis in idem

Appare doveroso puntualizzare, per esigenze di completezza nell’esporre un argomento tanto importante come quello del divieto di bis in idem, che sempre l’articolo 649 del c.p.p. riporta espressamente due eccezioni alla sua operatività: la prima riguarda le sentenze di proscioglimento pronunciate per difetto di condizioni di procedibilità, nel qual caso, l’esercizio successivo dell’azione penale, e quindi l’inizio di un nuovo iter procedimentale, non può dirsi precluso qualora la condizione di procedibilità, prima insussistente, venga ad esistenza; la seconda eccezione riguarda invece la sentenza che dichiari l’avvenuta

33 C. Cost., sent. 200/2016, § n. 12 del “Considerato in diritto”. 34 C. Cost., sent. 200/2016, § n. 10 del “Considerato in diritto”.

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estinzione del reato per morte dell’imputato, qualora successivamente si accerti che la morte di quest’ultimo sia stata erroneamente dichiarata, in quanto la sentenza pronunciata viene considerata, allo stato della situazione, una “pseudo-sentenza”, ed, in quanto tale, inidonea a formare giudicato35.

Accanto alle ipotesi espresse di inapplicabilità del principio ex art. 649 c.p.p., la giurisprudenza ha elaborato un’ulteriore ipotesi di eccezione al divieto, rappresentata dal caso in cui alla irrevocabilità della sentenza sia sopravvenuta la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma diversa da quella incriminatrice, che però abbia concorso alla determinazione della misura della pena; “di fronte a siffatta evenienza, compete al giudice dell’esecuzione una rivalutazione pro reo della misura della pena inflitta con la sentenza passata in giudicato, alla luce della scomparsa dall’ordinamento della norma indicata”36.

In conclusione, l’istituto del giudicato penale è volto a conseguire un accertamento definitivo, il quale rappresenta lo scopo ultimo dell’attività giurisdizionale, realizzando l’esigenza fondamentale dell’ordinamento alla certezza delle situazioni giuridiche. Difatti, il divieto di secondo giudizio ex art. 649 c.p.p. deve intendersi riferito non solo alla mera sottoposizione

35 F. CALLARI, La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, p. 144. 36 Cass. Sez. Un., sent. n. 42858/2014.

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della stessa persona ad un nuovo procedimento penale a seguito di un reiterato esercizio dell’azione penale, bensì anche alla iscrizione del nominativo della medesima persona nel registro delle notizie di reato per uno stesso fatto storico. In quest’ottica, non è consentito alcun accertamento penale diverso da quello strettamente necessario per verificare se si tratti di identità del fatto storico già oggetto di decisione giurisdizionale. Rimane inoltre da precisare che il vincolo del precedente giudicato si applica anche a provvedimenti che abbiano contenuto di sentenza, ma che non ne presentino la forma37.

Non solo; al principio espresso all’articolo 649 c.p.p. si aggiunge, inoltre, la norma sancita ex art. 669 c.p.p., rubricata “Pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona”, la quale contempla un’ulteriore ipotesi di controllo sul titolo esecutivo e, soprattutto, permette la sua esatta individuazione qualora sia sovvenuta una violazione del riconosciuto ne bis in idem, risolvendo così il contrasto tra giudicati creatosi in conseguenza.

L’art. 669 c.p.p. fornisce, infatti, criteri di valenza pratica che permettono di non sottoporre l’imputato, già raggiunto da plurime sentenze irrevocabili, ad anche una pluralità di

37 Si fa riferimento a quanto affermato dalla Cass. IV, n. 24222/2015 relativamente all’ ordinanza di riparazione per l’ingiusta detenzione.

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esecuzioni delle stesse. Pertanto, in ossequio al primo comma della norma de qua “il giudice ordina l’esecuzione della sentenza con cui si pronunciò la condanna meno grave, revocando le altre”. Principio di esecutività della decisione più favorevole, dunque, che ad ogni modo presuppone l’identità della materia oggetto di decisione, ma che non si applica solo ed esclusivamente alle sentenze ed ai decreti penali, bensì anche alle ordinanze in materia cautelare, esecutiva, di prevenzione e rieducazione.

La disciplina offerta è puntualissima, in quanto il legislatore dà soluzione al “concorso” di più sentenze di condanna ovvero decreti, sentenze di non luogo a procedere, di proscioglimento, distinguendo, poi, a seconda che queste abbiano comminato la medesima pena ovvero pene differenti: nel caso di identità della pena comminata, anche se con diverse durate, si applica il sopra citato primo comma; se invece, le pene irrogate divergono, il comma 2 sancisce la facoltà, in capo all’interessato, di indicare al giudice dell’esecuzione la pena da applicare e, quindi, la sentenza da considerare come titolo esecutivo effettivo.

Qualora però, l’interessato non si avvalga della facoltà di specifica indicazione della sentenza da eseguire, ecco che entrano in gioco i “criteri di opportunità” dettati dal medesimo

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articolo ai commi 3 e 4, in virtù dei quali, se a creare il contrasto sono pena detentiva e pena pecuniaria, sarà quest’ultima a trovare esecuzione, mentre se a concorrere sono pene detentive o pecuniarie di specie diversa, si eseguirà la pena che presenti la minore entità per il condannato, e così via, sempre in un’ottica di minor gravosità della pena nei confronti del reo, fino a prevedere una sorta di precedenza temporale, per la quale, tra due provvedimenti che applichino pene identiche, troverà esecuzione quello divenuto irrevocabile per primo. Canoni risolutivi che si applicano anche “se il fatto è stato giudicato in concorso formale con altri fatti o quale episodio di un reato continuato”, nel qual caso, il giudice dell’esecuzione dovrà enucleare, dal complesso della pena irrogata, “la determinazione della pena corrispondente” al singolo reato giudicato di per sé stesso, per poi applicare i criteri offerti dai primi commi dell’articolo.

Nel caso in cui, invece, siano emesse più sentenze di proscioglimento per uno stesso fatto nei confronti della stessa persona, il giudice dell’esecuzione ordina l’esecuzione della decisione più favorevole, revocando le altre “se l’interessato […] non indica la sentenza che deve essere eseguita”, assicurando così prevalenza alla volontà dell’interessato. Non solo; infatti, il giudice dell’esecuzione, nell’ipotesi prevista al

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comma 7, deve decidere quale tra le sentenze di proscioglimento sia la più favorevole tenendo conto delle formule stabilite dall’ordinamento e dei relativi effetti tipici, anche se, tuttavia, dovrà comunque disporre l’exequatur della sentenza di condanna, ove il proscioglimento sia stato pronunciato “per estinzione del reato verificatasi successivamente alla data in cui è divenuta irrevocabile la decisione di condanna”38; se, diversamente, a

concorrere sono una sentenza di non luogo a procedere ed una sentenza pronunciata in giudizio o un decreto penale di condanna, sarà ordinata “comunque l’esecuzione della sentenza giudiziale o del decreto”39, poiché la prevalenza della sentenza di

proscioglimento su quella di condanna è sempre condizionata dal passaggio in giudicato di una decisione assolutoria, cosa che, però, mai avviene per la sentenza di non luogo a procedere.

Ovviamente, la disciplina contenuta nell’articolo in esame non potrà trovare applicazione qualora la questione del ne bis in idem sia stata presentata dalle parti e risolta negativamente ad opera del giudice della cognizione.

Per finire, in tema di diritto pattizio europeo, la Corte EDU, con decisione del 4 aprile 2014 ha dato conferma del tenore del principio di ne bis in idem affermando, nell’ambito

38 Comma 8 del medesimo articolo. 39 Comma 9 del medesimo articolo.

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della sentenza Grande Stevens e altri c. Italia, che “non è conforme alla Convenzione l’applicazione di due distinte sanzioni per lo stesso fatto illecito, purché si tratti di sanzione amministrativa che presenti carattere sostanzialmente penale40

relativamente alla stessa persona, con il limite, in materia fiscale dei tributi armonizzati con il diritto eurounitario ed altresì con esclusione delle sanzioni amministrative di matrice civilistica41”.

Una tale affermazione ad opera della Corte EDU, ha comportato un ampliamento dell’ambito applicativo del sopra analizzato art. 669 c.p.p., individuando una violazione del ne bis in idem nell’irrogazione di una sanzione penale ed una sanzione amministrativa riconducibile a materia penale, nonostante la diversa qualificazione nell’ordinamento interno42. Come epilogo,

la Corte ha sancito che, una volta che la Commissione nazionale per la società e per la borsa43 abbia irrogato sanzioni previste

per l’illecito amministrativo, l’avvio di un processo penale in ordine ai medesimi fatti costituisce violazione del ne bis in idem44. Strumento che ha permesso l’approdo a decisione furono

40 Richiamo a Cass. III, n. 19334/2015. 41 Richiamo a Cass. III, n. 31378/2015.

42 La normativa interna di riferimento è costituita dal d.lgs. n. 58/1998, che descrive illecito penale ed illecito amministrativo, rispettivamente, agli artt. 185 e 185-ter de medesimo.

43 Consob.

44 Nel caso di specie, i ricorrenti erano stati sanzionati dalla Consob nel 2007 per un illecito amministrativo, e sottoposti, per il medesimo fatto, a procedimento penale; all’analisi delle sanzioni da applicare risultava che

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i cc.dd. “Criteri di Engel”, individuati per definire l’essenza penale di uno specifico provvedimento45.

La sentenza CEDU non è considerata una novità della giurisprudenza della Corte europea; tuttavia, ponendola in relazione al nostro ordinamento, ed in particolar maniera con l’art. 669 c.p.p., si può rinvenire una ulteriore ipotesi di intervento sul titolo esecutivo nel caso in cui l’interessato venga sottoposto a più procedimenti sanzionatori riconducibili alla materia penale.

La decisione della Corte di Strasburgo ha in questo modo sancito un principio di derivazione apparentemente internazionale, ma da applicare limitatamente all’area Schengen, escludendosi pertanto la sua connotazione di diritto internazionale consuetudinario al di fuori di tale area. Il tenore della decisione non deve indurre a pensare alla prevalenza del principio di ne bis in idem in ogni contesto e caso; infatti, il ne bis in idem, nella sua connotazione internazionale, vede la sua vigenza e prevalenza condizionata dalla sua previsione a livello

queste fossero da considerare come sanzioni penali, visto che il target di queste era, al tempo stesso, repressivo e preventivo.

45 Si tratta di criteri discretivi consistenti nella qualificazione dell’infrazione, natura dell’infrazione ed intensità della sanzione comminata; la pronuncia che ne costituisce l’origine è la nota sent. 5100/71, Engel c. Paesi Bassi, emessa in data 8 giugno 1976 dalla Corte europea dei diritti umani.

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di diritto pattizio, così da permettere anche il conseguente riconoscimento della sentenza straniera ai fini dell’esecuzione46.

Perciò, non dobbiamo cadere in tale errore, che risulterebbe da una considerazione poco approfondita del tema, giusto che in realtà, il ne bis in idem internazionale è una “anomala struttura normativa, in bilico tra le due discipline differenti del diritto penale e del diritto internazionale […] che esclude la rinnovabilità del procedimento avente ad oggetto un fatto già giudicato in via definitiva con sentenza straniera di condanna o di proscioglimento, emanata da un’autorità giudiziaria appartenente ad un ordinamento giudiziario diverso da quello potenzialmente competente a procedere in idem”47.

1.5 La funzione costituzionale del giudicato

Date le coordinate storiche ed i concetti basilari sul tema del giudicato, appare chiaro quanto sia importante, a quest’altura del discorso, sottolineare l’importanza dell’istituto in relazione al nostro testo costituzionale.

Il mutamento di prospettiva realizzato in Costituzione, imperniata sulla centralità della persona e dei suoi diritti

46 Nel nostro ordinamento, ex art 739 c.p.p.

47 M. N. GALANTINI, Il principio del “ne bis in idem” internazionale in materia penale, Giuffrè Editore, 1984, p. 6.

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inviolabili, ha ricevuto una effettiva traduzione legislativa con la previsione a livello codicistico della “flessibilità” dell’istituto del giudicato, assicurata da precetti normativi in tema di revisione, nonché altri istituti che legittimano interventi che modifichino o revochino il titolo esecutivo costituito, come sappiamo, dalla sentenza. La sempre più matura coscienza sociale e giuridica della rilevanza dei diritti fondamentali, e quindi, dell’importanza delle garanzie sostanziali e processuali, ha portato il tema dell’intangibilità del giudicato penale al centro di numerose discussioni, in quanto nel processo penale, il bene che più spesso rischia di essere compromesso è proprio la libertà personale, diritto fondamentale riconosciuto ad ogni individuo.

Tutela della equità processuale e salvaguardia del giudicato penale, sono pertanto i “terreni di gioco” di sperimentazioni in grado di mettere in crisi il dogma del giudicato48.

Come più volte affermato dalla Consulta, il principio di intangibilità del giudicato penale “trova fondamento nell’insopprimibile esigenza di certezza e di stabilità dei rapporti

48 P. TROISI, Flessibilità del giudicato penale e tutela dei diritti fondamentali, in Riv. Dpc, p. 2, che richiama A.A. DALIA - M. FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, CEDAM, 2013, p. 706.

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giuridici definiti da una sentenza irrevocabile”49. In altri termini,

“la certezza del diritto , ove se ne voglia ammettere la rilevanza costituzionale, trova la sua guarentigia, ma anche i suoi limiti, nell’istituto della cosa giudicata”50. Su questa scorta,

l’intangibilità del giudicato penale non assurge tanto a principio di rango costituzionale, quanto piuttosto, a principio inerente ed incardinante l’intero sistema processuale, in quanto rivolto a tutelare il valore costituzionalmente garantito della certezza giuridica.51

Il giudicato, categoria giuridica che involge certezza del diritto e stabilità delle decisioni giudiziarie, rinviene numerosi referenti, ovviamente, nella nostra Carta Fondamentale, in primis nell’articolo 24, dove viene enucleato il diritto alla tutela giurisdizionale, seguito poi dall’attribuzione del ruolo supremo di giudice di legittimità alla Corte di Cassazione (articolo 111, comma7), non dimenticando l’esigenza costituzionalmente garantita della ragionevole durata del processo ex articolo 111, comma 2.

Ora, dato che tutto il processo è fisiologicamente diretto al giudicato, in quanto, come dice Leone “è nella natura delle cose

49 C. Cost., ord. 29 ottobre 1999, n.413, in Giur. Cost., 1999, p. 3178. 50 C. Cost., sent. 22 marzo 1971, n. 55, in Giur. Cost., p. 573, con osservazione di S. SATTA, Limiti di estensione dell’art. 24 della Costituzione (a proposito della sentenza n. 55 del 1971).

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e nei limiti delle umane possibilità che ad un certo momento – esperiti tutti i rimedi predisposti a rimuovere le cause di ingiustizia - il processo sbocchi nella decisione irrevocabile, come le onde agitate di un fiume anelano a sfociare nella riposante quiete dell’estuario”52, se è vero che la certezza in

ambito civilistico è diretta alla salvaguardia della “pace sociale” e alla stabilità delle relazioni umane, nel processo penale questa assume una pregnanza peculiare, in quanto vuole rispondere all’obbiettivo di garantire la sicurezza dei diritti nonché le libertà del singolo, sottraendolo così ad una teoricamente infinita ed arbitraria persecuzione penale.

È in questo senso che si avverte l’essenziale funzione individual-garantista del giudicato penale, inteso come momento conclusivo della situazione di incertezza che ha dato origine alla vicenda processuale; la funzione costituzionale del giudicato penale si rinviene, pertanto, nella fusione di queste due prospettive, collettiva ed individuale.

Pertanto, il tenore dell’articolo 2 della Costituzione, che recita “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, fa

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emergere in modo prepotente la necessità di tutelare i diritti inviolabili, anche a fronte dell’interesse dell’ordinamento alla stabilità delle decisioni giudiziarie, che pertanto non si considera più come un valore assoluto. Tale tutela, conseguentemente, non si dissolve col formarsi del giudicato, ma è corroborata da quanto prescritto dall’articolo 24, comma 4, della Carta Fondamentale, secondo cui “la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”.

Considerando, inoltre, il principio di inviolabilità della libertà personale, che trova la sua espressa formulazione nell’articolo 13 della Carta Fondamentale, si comprende come l’articolo 27, comma 2, Cost., laddove prevede che “l’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva”, ponga proprio la sentenza di condanna definitiva come condizione per superare la presunzione di non colpevolezza e legittimare così l’inflizione della pena e la limitazione della libertà personale.

Perché l’ordinamento dia effettiva esecuzione al principio di legalità e concretizzi al tempo stesso la funzione general e special-preventiva, ma anche alla funzione rieducativa della pena, è necessario, infatti, effettuare un adeguato bilanciamento tra tutela dei diritti costituzionali e sovranazionali ed esigenze di certezza; in tal senso il legislatore ha provveduto a redigere il

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testo dell’articolo 111, comma 2, Cost., che recita “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”, e nondimeno il comma 7 del medesimo articolo, secondo cui “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali o speciali, è sempre ammesso il ricorso per Cassazione per violazione di legge”.

Dunque, proprio in attuazione del disposto degli articoli sopra richiamati, di fronte all’ingiusta limitazione della libertà personale e all’ingiusto superamento della presunzione di non colpevolezza, la Costituzione non solo prevede, bensì impone l’attuazione post iudicatum di rimedi funzionali a ripristinare legalità e giustizia.

In quest’ottica, lo stesso divieto di bis in idem, pur costituendo un limite alla reiterazione dell’azione penale, non può impedire una modifica in melius del giudicato intervenuto, qualora si tratti di offrire una tutela effettiva a diritti di rango costituzionalmente riconosciuto.

In conclusione, appare evidente come il giudicato, rispondente ad esigenze di garanzia e collettiva e individuale, nel momento in cui si dimostri lesivo rispetto a tali prerogative essenziali, cessa di giovare sia al singolo, sia alla comunità, e

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pertanto, necessita di perdere il suo peso autorevole, recedendo5354.

1.6 L’incidenza del giudicato penale in sede civile ed

amministrativa

Dopo aver considerato l’istituto del giudicato ed i suoi caratteri fondanti e peculiari, è bene sottolineare che, ovviamente, la pronuncia avutasi in sede penale, una volta raggiunta la stabilità che caratterizza il giudicato, può avere riflessi anche in altri giudizi, quali il civile, l’amministrativo, il disciplinare.

In tutti i sistemi si è posto il problema del riflesso della sentenza penale sull’azione di danno esercitata separatamente in sede civile e, con uno sguardo più generale, se tale sentenza abbia o meno una assoluta valenza pregiudiziale.

53 C. Cost., 9 aprile 1987, n. 115, in Riv. Pen., 1987, p.719, rimarcava la necessità che il principio di intangibilità del giudicato fosse “rettamente inteso”: “è proprio l’ordinamento stesso che è tutto decisamente orientato a non tener conto del giudicato, e quindi a non mitizzarne l’intangibilità, ogniqualvolta dal giudicato resterebbe sacrificato il buon diritto del cittadino”.

54 Cass. Sez. Un., 26 settembre 2001, n. 624, Pisano, cit. “L’intangibilità del giudicato, il cui fondamento è di natura eminentemente partica, può essere sacrificato in nome di esigenze che rappresentano l’espressione di superiori valori costituzionali”.

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Trattandosi, il nostro, di un ordinamento “misto”, e vigendo il principio di separazione delle giurisdizioni, la sentenza penale di condanna o, viceversa, di assoluzione, non ha sempre un’influenza diretta sulla sede civile, ma dipendentemente dal momento in cui sia stata esercitata azione davanti al giudice civile.

Infatti, a norma dell’art. 75, comma 2 “l’azione civile prosegue in sede civile se non è trasferita nel processo penale o è stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile”, dove tale trasferimento in sede penale, per permettere l’“intoccabilità” della decisione maturata in sede civile, deve essere quindi successivo rispetto alla invece “tempestiva” proposizione di azione civile nell’apposita sede di giudizio.

Viceversa, se si esercita l’azione civile in modo “intempestivo”, ovvero a seguito della pronuncia della sentenza penale di primo grado, o perché il danneggiato che si sia costituito parte civile abbia poi deciso di trasferire l’azione in sede civile, il processo penale ha precedenza di svolgimento, costringendo ad una sospensione del processo civile fino alla pronuncia culmine del giudizio penale in itinere. In questo caso infatti, si conferisce alla sentenza penale una valenza pregiudiziale, nonché efficacia pregiudicante rispetto alla

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definizione del processo civile, così come riconfermato agli artt. 651, 652, 653, 654 c.p.p.

Questi quattro articoli rappresentano, così, nella volontà del legislatore, un’eccezione “programmata” al princìpi di autonomia e di separazione dei giudizi penale e civile; per ciò stesso, dunque, non sono contemplabili interpretazioni analogiche.

Tra tutti, punto fermo è rappresentato dall’art. 652 c.p.p., a norma del quale, solo la sentenza penale di assoluzione, in quanto incide nel merito, ha efficacia di giudicato anche nei giudizi civile ed amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno.

Tuttavia, la vincolatività della sentenza assolutoria si atteggia in modo diverso a seconda della sede extrapenale in cui prosegue la controversia in causa.

Nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni o il risarcimento del danno, l’assoluzione ha efficacia di giudicato per quanto riguarda l’accertamento che “il fatto non sussiste”, che “l’imputato non lo ha commesso” o che “il fatto è stato compiuto in adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima” nei confronti del danneggiato o del soggetto costituitosi, o che abbia avuto la possibilità di costituirsi, parte civile, salvo che l’azione risarcitoria sia stata esercitata da subito

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in sede civile, senza esercizio del diritto al trasferimento della stessa nel processo penale.

Combinando inoltre i disposti degli artt. 75 e 652 c.p.p., appare evidente come l’efficacia della sentenza di assoluzione nei giudizi di danno sia relazionata alla condotta processuale del danneggiato, per cui il giudicato penale esplicherà il suo riflesso in sede civile solo se costui non ha manifestato preventivamente la propria volontà di far valere la questione dinanzi al giudice civile; il tutto ovviamente con finalità deflattive della costituzione di parte civile.

Analogo discorso si può fare in caso sia stata pronunciata una sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, figura di non punibilità introdotta all’art. 131-bis c.p. dal d.lgs n. 28/2015.

A contrario, nel caso in cui la sentenza all’esito del processo sia di condanna, il danneggiato può sempre usufruirne, giacché questa, una volta divenuta irrevocabile, esplica la sua efficacia nei giudizi civili ed amministrativi promossi sia nei confronti dell’imputato, sia del responsabile civile citato o intervenuto, quantunque solo limitatamente alla sussistenza del fatto, alla illiceità penale di quest’ultimo e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Sicché, in questo caso, non risulta ovviamente più contestabile l’accertata responsabilità penale dell’imputato,

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ormai condannato, rimanendo in capo al giudice civile solo la possibilità di valutare il grado della colpa e l’eventuale concorso del danneggiato, essendo, queste, questioni non colpite dalla vincolatività della sentenza penale passata in giudicato.

Da puntualizzare che l’art. 404 c.p.p. ha implicazioni sugli effetti ascrivibili all’art. 652 c.p.p., in quanto questi non si palesano se la sentenza si basi su “prova assunta con incidente probatorio a cui il danneggiato dal reato non è stato posto in grado di partecipare”; stessa dinamica involve la figura del responsabile civile, in base a quanto previsto dall’art. 86, comma 2, c.p.p. Ciò al fine, come appare chiaro, di garantire sempre una effettiva organizzazione della difesa del soggetto danneggiato e del responsabile civile.

Per quel che concerne, invece, il rapporto tra giudicato penale e giudizio disciplinare, questo presenta significative divergenze rispetto alla disciplina offerta dagli artt. 651, 652 e 654 c.p.p.

Fulcro della disciplina è fornito dall’art. 653 del codice di rito, così come modificato dalla L. 97/2001, prospettando l’efficacia dispiegata nel giudizio disciplinare dalla sentenza irrevocabile di assoluzione e dalla pronuncia irrevocabile di condanna, rispettivamente al comma 1 e al comma 1-bis.

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