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Il rapporto in absentia con Merleau-Ponty

3.1 «Noi ci siamo dentro»: visione e percezione

La vera filosofia consiste nel reimparare a vedere il mondo, e in questo senso una storia raccontata può significare il mondo

con altrettanta «profondità» che un trattato di filosofia. (M.MERLEAU-PONTY)217

Si è visto come, attraverso la fenomenologia, la poetica di Parise possa essere in un qualche modo ripensata: se la scienza dei fenomeni, in campo filosofico, ha come oggetto tutto quello che appare alla coscienza, e affinché ciò sia possibile è necessario cogliere le cose in se stesse - così come si presentano al nostro sguardo e al nostro corpo - , ecco che l’analogia con la scrittura parisiana mostra una nuova chiave di lettura. È infatti sull’aspetto sensoriale che la fenomenologia, così come è intesa e sviluppata da Merleau-Ponty, pone l’accento: in Parise si ritrova proprio la medesima dimensione, come si è osservato a proposito di alcuni racconti dei

Sillabari (Amore, Famiglia, Felicità, Solitudine). Si tratta di restituire un’esperienza che

sia il più possibile intatta, di mettere cioè il lettore, anche naturalmente attraverso scelte stilistiche, in condizione di rivivere il fenomeno descritto (la situazione, il sentimento, la sensazione passeggera). Il pensiero di Merleau-Ponty sembra allora

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valere come grande idea filosofica alla base dei testi di Parise, in particolare dei

Sillabari. Come suggerisce infatti Merleau-Ponty stesso:

L’opera di un grande romanziere è sempre sorretta da due o tre idee filosofiche. Come per esempio l’Io e la Libertà in Stendhal, in Balzac il mistero della storia come apparizione d’un senso nel caso delle vicende, in Proust l’implicarsi del passato nel presente e la presenza del tempo perduto. La funzione del romanziere non consiste nel tematizzare queste idee, ma nel farle esistere dinanzi a noi al modo stesso delle cose. Non spetta a Stendhal di discorrere sulla soggettività, a lui basta renderla presente. Ma è nondimeno sorprendente che, quando s’interessano deliberatamente alle filosofie, gli scrittori riconoscano tanto male le loro parentele.218

In effetti, seguendo quest’ipotesi di lettura, nei brani parisiani si concretizza la fenomenologia declinata in accezione merleau-pontiana (e, in questo senso, poco importa che nella biblioteca di Parise non sia presente alcun testo di Merleau- Ponty)219; se si dovessero cioè ritrovare quelle «due o tre idee filosofiche» che

sorreggono la sua opera, di certo tra queste la fenomenologia avrebbe un posto importante. D’altronde, si tratta sempre «di fissare una certa posizione rispetto al mondo, di cui la letteratura e la filosofia come la politica non siano che differenti espressioni»220.

Introducendo il pensiero di Merleau-Ponty proprio a partire dal suo primo libro, la tesi di dottorato dal titolo La struttura del comportamento [1945], dove si trova già gran parte dei temi poi sviluppati, Ghilardi e Taddio affermano che l’opera «si delinea come una inesausta riscrittura del fenomeno»221, e spiegano:

riscrivere ciò che appare indica il tentativo di non congelare in un’unica prospettiva la cosa osservata, ma di abitare il paradosso e l’ambiguità che legano i fenomeni osservati senza la pretesa di ricondurli a una metafisica in grado di spiegarne la struttura, semplificando e isolando i singoli aspetti come se ogni parte del fenomeno possedesse un’unità di senso autonoma. […] In Merleau-Ponty la descrizione precede la spiegazione. Ne emerge un pensiero in grado d’interrogare le cose nella loro tacita

218 M.MERLEAU-PONTY, Senso e non senso, cit., p. 45.

219 Tuttavia, come afferma Giosetta Fioroni: «sinceramente… penso Goffredo conoscesse senz’altro

Merleau-Ponty, ma non ho prove e ricordi precisi» (Intervista a Giosetta Fioroni, in Appendice).

220 M.MERLEAU-PONTY, Senso e non senso, cit., pp. 45-46.

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presenza, un pensiero capace di cogliere l’origine del senso iscritto nella percezione.222

L’operazione di abitare l’ambiguità del fenomeno osservato rinunciando ad una spiegazione complessiva, sembra in effetti coincidere con il lavoro di Parise nei confronti della materia da narrare, e anche qui si può a giusto titolo affermare che «la descrizione precede la spiegazione». Ma come volgere in pratica l’atto descrittivo? Quali strumenti utilizzare nel momento in cui si tenta appunto di interrogare gli eventi per poi ricondurli sulla pagina? La via è quella della percezione, quale fil rouge che attraversa e costruisce l’intero pensiero di Merleau-Ponty. Opponendosi dunque alla tradizione metafisica che fa esistere la soggettività a partire dal cogito e dalla dicotomia tra soggetto e oggetto, Merleau-Ponty pone al centro del proprio pensiero il primato della percezione quale fondamento stesso della nostra idea di verità. Come spiega infatti nella

Premessa alla Fenomenologia della percezione:

in ogni momento il mio campo percettivo è riempito di riflessi, di scricchiolii, di fugaci impressioni tattili che io non sono in grado di connettere in modo preciso al contesto percepito, e che tuttavia pongo immediatamente nel mondo, senza mai confonderle con le mie fantasticherie. […] Il reale è un tessuto solido, non attende i nostri giudizi per annettersi i fenomeni più sorprendenti e per respingere le nostre immaginazioni più verosimili. La percezione non è una scienza del mondo, non è nemmeno un atto, una presa di posizione deliberata, ma è lo sfondo sul quale si staccano tutti gli atti ed è da questi presupposta.223

Altrove, afferma in modo ancora più esplicito che percepire significa cogliere una struttura completa della cosa, e non i singoli dati visivi, tattili, uditivi: si tratta di «un’unica maniera di esistere che parla contemporaneamente a tutti i miei sensi»224.

Va d’altronde distinto lo studio della percezione, quale possibilità di dare un senso a uno stimolo, e quale attività specifica della coscienza, dallo studio del mondo percepito, quale costruzione a posteriori della coscienza. La fenomenologia dunque, opponendosi sia all’introspezione che alla filosofia trascendentale, studia

222 Ibidem.

223 M.MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, cit., p. 19.

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l’apparizione dei fenomeni alla coscienza: si tratta allora di imparare a guardare le cose nel loro formarsi quali fenomeni, all’interno di una relazione continua tra soggetto, mondo e oggetto (nel quale naturalmente rientrano anche i ricordi, la memoria, le esperienze vissute) . L’attenzione privilegiata alla dimensione percettiva permette infatti, come si accennava, di superare il dualismo tra soggetto e oggetto: è proprio la fenomenologia, quale «studio delle essenze» e «filosofia tutta tesa a ritrovare quel contatto ingenuo con il mondo»225, che consente di congiungere

soggettivismo e oggettivismo, proprio perché «il mondo fenomenologico non è essere puro, ma il senso che traspare all’intersezione delle mie esperienze e di quelle altrui, grazie all’innestarsi delle une sulle altre: esso è quindi inseparabile dalla soggettività e dall’intersoggetività»226. Soggetto e oggetto, al pari di anima e corpo,

non possono essere disgiunti: come spiega Paci nell’Introduzione a Senso e non senso, «il soggetto non è un osservatore assoluto, distaccato dal mondo; l’oggetto non è una realtà trascendente, distaccata dal modo con cui gli uomini lo percepiscono»227.

Ancora, il primato della percezione porta l’indagine verso un interesse per la pittura quale attività dello sguardo: secondo Merleau-Ponty la pittura è intimamente legata alla modalità percettiva, mostrando in modo particolarmente netto un lato ingenuo, spontaneo, e non filtrato. Ed è proprio un testo dedicato alla pittura, Il dubbio di

Cézanne, raccolto in Senso e non senso, a contenere alcune osservazioni molto utili per

comprendere certi meccanismi presenti nei Sillabari. Si tratta di un saggio in cui, descrivendo alcuni tratti della vita e dell’opera di Cézanne, l’autore inserisce la pittura all’interno della riflessione fenomenologica, partendo dal principio secondo cui per ogni artista (compreso il filosofo) sia necessario sì esprimere un’idea, ma soprattutto risvegliare le esperienze che permetteranno di penetrare nelle altre coscienze. In apertura al brano è citata una confessione del pittore che testimonia la sua enorme difficoltà nel lavorare, nel dipingere, nella possibilità di fare qualsiasi lento progresso. Sono poi ricordati sommariamente alcuni episodi significativi della sua vita: Merleau-Ponty si sofferma sul carattere dell’artista, affermando che proprio

225 M.MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, cit., p. 15. 226 Ivi, p. 29.

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l’estrema attenzione al colore e alla natura indicherebbe «una fuga dal mondo umano, l’alienazione della sua umanità»228. Poi, iniziando ad approfondire le prime

tappe dell’opera, Merleau-Ponty afferma, trattando dei suoi rapporti con l’Impressionismo:

i suoi primi quadri, fin verso il 1970, sono sogni dipinti […]. Nascono dai sentimenti e vogliono in primo luogo provocare sentimenti. Sono dunque quasi tutti dipinti a grandi linee e offrono la fisionomia morale dei gesti più che il loro aspetto visibile. Agli Impressionisti, ed in particolare a Pissarro, Cézanne deve di aver inteso poi la pittura, non come la incarnazione di scene immaginate o la proiezione esterna dei sogni, ma come lo studio preciso delle apparenze, non tanto come un lavoro di studio quanto come un lavoro aperto alla natura, e d’aver lasciato la fattura barocca, che cerca anzitutto di rendere il movimento, per i piccoli tocchi giustapposti e i tratteggi pazienti. Ma s’è presto separato dagli Impressionisti. L’Impressionismo voleva rendere nella pittura la maniera medesima in cui gli oggetti ci colpiscono la vista e aggrediscono i nostri sensi […]. La composizione della tavolozza di Cézanne fa presumere che egli si dia un altro scopo […]. L’uso dei colori caldi e del nero mostra che Cézanne vuole rappresentare l’oggetto, ritrovarlo dietro l’atmosfera […]. Bisognerebbe quindi dire che egli ha voluto ritornare all’oggetto senza abbandonare l’estetica impressionista, che prende modello dalla natura.229

Pensando a un parallelo con la modalità narrativa di Parise, in particolare con i Sillabari, sono qui da notare alcuni espressioni particolarmente incisive, quali «lo studio preciso delle apparenze», «i piccoli tocchi giustapposti», «i tratteggi pazienti», come in parte si è già visto. In effetti, con le dovute cautele, mi pare che inizi qui a delinearsi la descrizione di un metodo artistico, valido sia per la pittura che per la scrittura, che parte da un’attenzione particolare alla cosa vista per giungere a una resa puntuale di certi dettagli. Ritornando ad esempio sulla descrizione della pennellata di Cézanne (quei «piccoli tocchi giustapposti»), non si può non pensare alle descrizioni dei personaggi dei Sillabari, date dall’accostamento di alcuni particolari spesso collegati tra loro in modo discontinuo, senza l’intenzione di creare

228 M.MERLEAU-PONTY,Il dubbio di Cézanne, in ID., Senso e non senso, cit., p. 29. 229 Ivi, pp. 29-30.

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un’immagine completa della figura. Basti osservare la presentazione dei dieci protagonisti di Amicizia per comprendere pienamente questa tendenza230:

Le dieci persone erano: Gioia, una donna con dolci occhi ebraici, pieni di qualcosa di antico e religioso che era il senso della famiglia. Carlo, marito di Gioia, alto e biondo con lineamenti quadrati e occhi quasi bianchi un poco fantascientifici. Adriana, alta e buona, un pochino ansiosa di essere sempre buona, ma non in anticipo né in ritardo. Mario, marito di Adriana, con molte fragilità vaganti negli arti e nel volto, ma con una testa rotonda piena di bisogno di affetto che riscattava tutto. Guido, il meno «adulto», che sciava senza «stile» dicendo ai dirupi: «Io ti batto», e li batteva; perché lì vicino c’era Silvia, una ragazza-donna dai tratti mongoli, la erre moscia, che egli amava (e contemplava) da molti anni, di una bellezza così grande che ogni persona guardata da lei sorridente si sentiva caduca e mortale. Silvia però (senza la presenza di Silvia i dieci non si sarebbero mai trovati insieme per caso) amava: Filippo, un uomo che somigliava ad Achille ma anche a Patroclo, perché «umano», avendo dedicato la sua vita a Silvia. L’ottavo era: Dabcevich (basta così). Poi Pupa, la più sconosciuta di tutti, che abitava molti mesi in montagna, aveva occhi gialli con piccole e grandi macchie nere come il sole e sciava in modo volante e pieno di silenzio, due cose forse sviluppate in quei luoghi durante la sua infanzia per vivere e difendersi dalla neve come gli scoiattoli e le lepri. E infine un altro uomo che sapeva fare una cosa sola nella vita, cioè osservare nei particolari (sempre mutevoli) gli altri nove e il tempo, sperando e studiando il modo, senza che nessuno se ne accorgesse, che tutte queste cose fossero in armonia tra di loro.231

Anche qui sembra che si voglia «ritornare all’oggetto»: i personaggi sono colti attraverso brevi tocchi ritraenti un aspetto particolare della loro persona, interiore e/o esteriore (da sottolineare lo strano rapporto causa-effetto tra l’azione di Guido di battere i dirupi e la presenza di Silvia). Proseguendo nella lettura del saggio di Merleau-Ponty, i punti di contatto con la pagina dei Sillabari sembrano moltiplicarsi,

230 Si noti che questo tipo di presentazione dei personaggi, come sottolinea anche Perrella, sembra cara a

Parise fin dalle prime opere. Si veda ad esempio nella Grande vacanza: «I presenti erano: il vecchio paralizzato di nome Giacomo (Giacomo Pertile, molto probabilmente un cognome falso), l’altro vecchio rapato, Antonio, un altro ancora di nome Giacomo. Tra le signore: Lei, con la coccarda, chiamata semplicemente Signora; una donna di mezza età con lenti enormi, nervosissima, i capelli tagliati corti come una bambina, un’altra donna sui cinquant’anni di nome Vittoria, l’unica vestita di chiaro con un grembiule di tela rossa e un voluminoso plico infilato in seno. Una signora di nome Maria, vecchissima e curva, che non parlava mai se non per dire qualche frase in un italiano molto stentato: era nata nei dintorni ma aveva vissuto molto in America con un marito che la bastonava e la obbligava a fare la serva di una grande amante. Per ultimi, in ordine di arrivo, un robustissimo vecchio con una lunga barba aperta a metà, colletto e polsi di celluloide, bombetta. E la nonna. Il primo Giacomo, per evitare confusioni con il secondo veniva chiamato Pertile, il vecchio in bombetta signor Colonnello» (Op. I, p. 185).

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in particolare in riferimento alle riflessioni riguardanti il rapporto tra realtà e sensazione, e l’assenza di frattura tra «sensi» e «intelligenza». L’autore afferma, attraverso le parole di Émile Bernard, che la pittura di Cézanne «sarebbe un paradosso: ricerca della realtà senza abbandono della sensazione, senza altra guida che la natura dell’impressione immediata, senza precisare i contorni, senza circoscrivere il colore nel disegno, senza comporre la prospettiva né il quadro»232.

Ed è proprio l’impressione immediata a costruire le descrizioni dei protagonisti di

Amicizia: ecco perché di un personaggio può essere delineato un solo tratto (ad

esempio gli occhi ebraici di Gioia, unico dato che Parise offre della donna): probabilmente è il solo elemento ad avere creato nell’autore un’impressione, come se fosse il solo segno fissato nel ricordo. Ancora, Merleau-Ponty riporta una riflessione di Cézanne secondo cui «l’arte è un’appercezione personale. Io pongo tale appercezione nella sensazione e domando all’intelligenza di organizzarla in opera»233: solo così la materia potrà essere dipinta, attraverso una continua «fedeltà

ai fenomeni». Si tratta dunque di eludere la dicotomia tra sensazione e pensiero, e di tentare invece una rappresentazione della materia nel suo prendere forma, nel suo darsi spontaneamente:

noi percepiamo le cose, ci intendiamo su di esse, siamo ancorati a esse e solo su queste fondamenta di “natura” costruiamo delle scienze. Cézanne ha voluto dipingere questo mondo primordiale, ed ecco perché i suoi quadri danno l’impressione della natura alla sua origine. 234

La volontà di Cézanne di riprodurre una realtà fatta di percezioni è d’altronde sottolineata dal pittore stesso in una delle lettere all’amico Émile Bernard, dove afferma:

la letteratura si esprime con astrazioni, mentre il pittore concretizza per mezzo del disegno e del colore le sue sensazioni, le sue percezioni. Non si è né troppo scrupolosi, né troppo sinceri, né troppo sottomessi alla natura; ma si è più o meno padroni del proprio modello e soprattutto dei

232 M.MERLEAU-PONTY,Il dubbio di Cézanne, cit., p. 31. 233 Ibidem.

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propri mezzi d’espressione. Penetrare quello che si ha davanti e perseverare a esprimersi quanto più logicamente è possibile.235

Quel mondo primordiale, o della percezione, è reso, spiega Merleau-Ponty, da una «prospettiva vissuta», che non può coincidere con quella geometrica o fotografica. Attraverso infatti gli esempi di alcune opere, si mostra che le deformazioni prospettiche eseguite sulla tela, così come le contaminazioni di colore, «contribuiscono […] a dare l’impressione di un ordine nascente, di un oggetto che sta comparendo, che sta coagulandosi sotto i nostri occhi»236. L’unico modo dunque

per rendere il mondo nella sua “verità”, nella sua densità, è quello di creare il disegno dal colore: solo così si arriverà alla totale fusione di vista e tatto (di cui si parlerà meglio in seguito), nel tentativo di esprimere quel che esiste, la cosa vissuta. «Noi vediamo la profondità, il velluto, la morbidezza, la durezza degli oggetti – Cézanne dice perfino: il loro odore»237. Per Cézanne, e direi anche per Parise,

ritrarre un personaggio o una situazione, al pari di un oggetto, non significa togliergli il pensiero (al limite, sarà rimosso ogni tipo di psicologismo), bensì provare a renderlo così come viene percepito, con tutte le sue lacune, le sue zone d’ombra, e le sue deformazioni. Ancora una volta, non ha senso contrapporre anima e corpo, pensiero e visione: «gli altri spiriti ci si offrono solo incarnati e aderenti a un volto e a gesti»238. Infine, l’invito di Cézanne a dipingere il minuto del mondo che passa

nella sua realtà, mi pare coincidere precisamente con il metodo fissato da Parise nella scrittura dei Sillabari:

si trattava, dopo aver dimenticato tutte le scienze, di riafferrare, valendosi di tali scienze, la costituzione del paesaggio come organismo nascente. Occorreva saldare le une alle altre le visioni di tutti i punti di vista particolari che lo sguardo assumeva, riunire quel che viene disperso dalla versatilità degli occhi, “congiungere le mani erranti della natura”, diceva Gasquet.239

235 M.DORAN, Cézanne. Documenti e interpretazioni, Donzelli, Roma 2006, p. 31. 236 M.MERLEAU-PONTY,Il dubbio di Cézanne, cit., p. 33.

237 Ivi, p. 34. 238 Ibidem. 239 Ivi, p. 36.

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È Merleau-Ponty stesso a proporre un parallelo con la scrittura: «come la parola non assomiglia a quel che designa, la pittura non è un’illusione»240. Si

tratterebbe cioè di evitare le apparenze per raggiungere il centro delle cose, sempre passando attraverso l’esperienza, sulla cui centralità si sofferma anche Rilke: all’interno di una delle Lettres sur Cézanne (testo che tra l’altro fa parte della biblioteca di Parise241), afferma che «la transformation en chose, l’exaltation de la réalité

rendue indestructible à travers l’expérience que le peintre a de l’objet, voilà où il situait la fin de son plus intime travail»242. Rilke prosegue poi con la descrizione di

una sorta di disputa, all’interno dell’animo del pittore, tra il momento della percezione visiva e quello in cui viene utilizzato ciò che è stato percepito:

je suppose que le deux processus, chez lui, celui de la perception visuelle, si sûre, et celui de l’appropriation, de l’utilisation personnelle du perçu, se contrariaient d’être trop conscients ; ils élevaient la voix (si l’on peut dire) en même temps, pour se couper continuellement la parole et se quereller.243

È il momento in cui, a fronte di una limpida percezione visuale, tale materiale va utilizzato e reso in forma artistica (o letteraria). Come afferma ancora Merleau-Ponty, «un pittore come Cézanne, un artista o un filosofo, devono non solo creare ed esprimere un’idea, ma anche ridestare le esperienze che la radicheranno nelle altre coscienze»244. In conclusione al saggio, prima delle riflessioni sulla libertà

e su Leonardo, è così indicata la via della condivisione, dell’unione che l’opera ha il potere di creare tra gli uomini, la sua possibilità di vivere «indivisa in parecchi spiriti, presuntivamente in ogni spirito possibile, come un’acquisizione per sempre»245.

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