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I Sillabari e Le città invisibil

4.1 Partire dai minimi elementi o combinare i mondi possibili

Si è visto come, indagando il ruolo dei sensi nei Sillabari e in altri testi (soprattutto di tipo giornalistico) scritti da Parise negli stessi anni, emerga un particolare dispositivo che prevede un’osservazione/esplorazione della realtà empirica. Alla stessa provvisoria conclusione si arriva anche percorrendo un’altra via, ovvero tentando di inserire Parise nel contesto degli anni Settanta, e in particolare prendendo in esame Le città invisibili e i Sillabari. È infatti da alcune considerazioni fatte alla luce della lettura dei due testi che, passando per l’analisi del meccanismo di scrittura dei due autori, si possono teorizzare i “modelli filosofici” alla base della pagina, sulla quale si trasferisce la percezione del mondo. Si vedrà dunque come per Parise, ancora una volta, possa valere l’indagine fenomenologica come strumento per la comprensione di certi dispositivi testuali.

Il Sillabario n. 1 esce, nei “Supercoralli” di Einaudi, nell’ottobre 1972; un mese dopo la stessa collana pubblica Le città invisibili. Goffredo Parise e Italo Calvino possono essere accostati per una produzione letteraria che sembra avere molti aspetti in comune, a partire da un approccio di tipo visivo di cui è intrisa tutta la loro scrittura. Alla base, si tratta cioè degli stessi principi, ben riassunti da Calvino stesso all’interno della quarta lezione americana, dedicata appunto ruolo alla Visibilità:

diversi elementi concorrono a formare la parte visuale dell’immaginazione letteraria: l’osservazione diretta del mondo reale, la

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trasfigurazione fantasmatica e onirica, il mondo figurativo trasmesso dalla cultura ai suoi vari livelli, e un processo d’astrazione, condensazione e interiorizzazione dell’esperienza sensibile, d’importanza decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione del pensiero.336

La «parte visuale» dell’atto letterario è data quindi da un insieme di elementi, a partire dal contatto diretto con la realtà e poi la sua trasfigurazione, ma soprattutto da «un processo d’astrazione, condensazione e interiorizzazione dell’esperienza sensibile». Quest’ultimo punto mi pare di particolare interesse nel discorso che intenda confrontare il modus operandi dei due scrittori, partendo così da un forte zoccolo di vicinanza su cui si innestano, come si vedrà, notevoli divergenze. Si tratta sempre di un’esperienza sensibile, che necessita poi, dopo vari procedimenti, di essere interiorizzata (e infine traferita sulla pagina). Ci si soffermi in particolare sugli anni Cinquanta337 e Settanta, quando Parise e Calvino trovano, anche formalmente,

soluzioni simili; in realtà, prendendo in esame i Sillabari e Le città invisibili, ci si accorge della sostanziale differenza che contraddistingue le due modalità di scrittura e l’intendere il fatto letterario. Tale confronto si inserisce in un più ampio dibattito

336 I.CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988, ora in ID.,

Saggi 1945-1985, a cura di M Barenghi, Mondadori, Milano 1995, p. 702. Questo passaggio è citato da M. RIZZARELLI all’interno di uno studio su Calvino intitolato Sguardi dall’opaco. Saggi su Calvino e la visibilità,

Bonanno, Roma 2008. Rizzarelli indaga le modalità della visione all’interno dell’opera di Calvino, seguendo la pista più prettamente letteraria, ma accostandosi anche al mondo pittorico, fotografico e cinematografico. È dalla lettura di questo testo che sono nate molte riflessioni del presente lavoro, grazie alle indicazioni sul fondamentale ruolo della visibilità/visività all’interno di un’opera. Solo per indicare un itinerario, si pensi alla funzione del cinema, che sia in Calvino che in Parise ha enormemente influenzato la scrittura. Afferma infatti Rizzarelli a proposito di Autobiografia di uno spettatore: «fra queste pagine Calvino disegna la propria storia di spettatore sovrapponendo le prospettive della visibilità a quelle della scrittura in prima persona. Egli offre in tal modo uno dei frammenti del proprio autoritratto che sembra coincidere con una forma dello sguardo, con un modo di confrontarsi con la realtà maturato attraverso un apprendistato visivo in cui il cinema, con i suoi miti e i suoi fantasmi, ha svolto un ruolo fondamentale» (M.RIZZARELLI Sguardi dall’opaco. Saggi su Calvino e la visibilità, cit., p. 97).

337 Per quanto riguarda il confronto tra i due autori negli anni Cinquanta, si veda in particolare l’analisi di

Perrella in riferimento ai romanzi o racconti lunghi che è possibile comporre in trilogie. Perrella afferma infatti che «Il ragazzo morto e le comete, La grande vacanza e Il prete bello compongono la prima trilogia parisiana “sanguigna e violenta, ma positiva nel fondo”, mentre Il fidanzamento, Atti impuri e Il padrone formano la seconda, “amara cupa ed essenziale e negativa agli effetti sentimentali”. Anche Calvino, negli anni Cinquanta, dà vita a due trilogie: quella “colorata” dei Nostri Antenati (Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente) e quella “grigia” (parallela, e non successiva come in Parise), de La vita difficile (La formica argentina, La speculazione edilizia e La nuvola di smog)» (S.PERRELLA, Parise, Calvino e due diverse costellazioni, in Les Illuminations d’un écrivain. Influences et recréations dans l’œuvre de Goffredo Parise, a cura di Paolo Grossi, Presses universitaires, Caen 2000, pp. 43). Di là da un’omogeneità tematica riscontrabile in effetti all’interno della singola trilogia, mi pare tuttavia che il principio unificatore sia differente in ogni gruppo di testi, e che dunque la comparazione tra i due autori vada fatta non tanto sulla possibilità di riunire le opere in trilogie, piuttosto sulla scelta dei temi e sul modo di affrontarli.

Capitolo IV – I Sillabari e Le città invisibili

che coinvolge le riflessioni sulla politica e sulla mutazione antropologica della società italiana, in rapporto all’etica della scrittura: la stessa semplicità che segna i Sillabari testimonia la necessità, da parte di Parise, di valersi di una scrittura chiara, in grado di farsi sintomo di libertà democratica338.

Entrambi i testi sembrano nascere dalla necessità di “smuovere il mondo”: si è visto come per Parise il progetto dei Sillabari emerga dal bisogno di parole semplici, che possano avvicinarsi all’essenzialità della vita senza passare per termini difficili anche alla pronuncia («rivoluzionarizzare»), di fronte alla povertà di sentimenti dell’uomo contemporaneo. Anche la scrittura delle Città invisibili sembra essere spinta dalla necessità di frapporsi al processo di pietrificazione del mondo, come spiega lo stesso Calvino nella prima lezione americana, riguardo la Leggerezza:

cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle.

In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa.339

Sia Parise che Calvino tentano, attraverso la scrittura, di modificare seppur impercettibilmente una configurazione della realtà che li spaventa. E in questo processo inseriscono il proprio io biografico in maniera velata, trasformandolo in letteratura340. Belpoliti afferma, a proposito delle Città invisibili, che «si tratta di un

libro autobiografico, di quel particolare autobiografismo che è sempre personale, ma

338 Tale necessità, come si vedrà meglio più avanti, è spiegata da Parise nell’articolo Perché è facile scrivere

chiaro («Corriere della Sera», 15 luglio 1977), in risposta all’intervento di Franco Fortini intitolato Perché è difficile scrivere chiaro dell’11 luglio 1977.

339 I.CALVINO, Lezioni americane [1988], Mondadori, Milano 2002, p. 8.

340 Penso, a questo proposito, a quella che Giglioli definisce la «possibilità di mettere da un canto, fino a

ridurlo una funzione del linguaggio tra le altre, il proprio Io biografico. A parlare di sé son buoni tutti. Parlarne fino a cancellarsi, a scomparire dal quadro, a farsi frase, periodo, dettato, questo invece è letteratura» (D. GIGLIOLI, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Quodlibet, Macerata 2013, p. 92).

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allo stesso tempo assolutamente privo di self»341. Ancora: «sono il libro più

psicologico di Calvino, quello in cui i fatti minuti dell’esistenza sono passati al vaglio dell’autobiografia, senza che però l’autore abbia stretto alcun patto autobiografico con il proprio lettore. Come a dire: in questo diario ci sono io, ma non sono io»342.

Se è indubbio che nei Sillabari gli elementi autobiografici siano più esposti e riconoscibili, mi pare che tuttavia avvenga lo stesso processo.

Nella già citata lettera di Calvino a Parise, scritta dopo la lettura del Sillabario

n. 1 (lettera del 9 maggio 1973), Calvino capta alcuni nuclei fondamentali del testo

(l’originalità sia tematica che stilistico-formale, la scelta di alcuni dettagli e non altri, il particolare «taglio» delle frase che diventa stile), forse proprio perché in quegli stessi anni sta tentando di portare avanti un’operazione simile. I punti di contatto tra

Le città invisibili e i Sillabari sembrano infatti notevoli, sia per i contenuti che per la

forma, ma andando più a fondo nei dispositivi e nei “sistemi di pensiero” all’origine della costruzione della pagina, ci s’imbatte in una sostanziale distanza343.

Partendo dal fondamentale contributo di Mengaldo in riferimento alle Città

invisibili344, e soffermandosi sui grandi temi che reggono il testo, si nota inizialmente

una notevole affinità con l’opera di Parise: le categorie individuate da Mengaldo come tratti peculiari del testo di Calvino valgono, a mio parere, anche come principi di funzionamento dei Sillabari.

Mi riferisco innanzitutto all’ambiguità che sta alla base di entrambi i libri: nell’opera di Calvino tale categoria, attiva a più livelli (si pensi solo ai luoghi in cui si trovano le città, continuamente enigmatici), si realizza pienamente «nella situazione

341 M.BELPOLITI, Settanta, Einaudi, Torino 2010, p. 224. 342 Ivi, p. 225.

343 A tale proposito, si vedano ancora le riflessioni di Perrella riguardanti il confronto delle due opere

negli anni Settanta: rilevandone la forte differenza, afferma infatti, a proposito delle Città invisibili e del Sillabario n. 1: «oggi credo che si possa dire con un margine di approssimazione che entrambe le opere sono il frutto prezioso e nutriente di un lungo e sfibrante corpo a corpo con la possibilità di raccontare delle storie al di fuori della dittatura del romanzo. […] Parise lavora più allo scoperto di Calvino: sceglie la forma del sillabario; e ci si affida per scandire nel tempo i suoi temi. Non ha paura dell’arbitrarietà; anzi la vezzeggia, se ne lascia trasportare senza farle resistenza. […] Calvino, al contrario, teme l’arbitrarietà. Ogni libero e arbitrario frammento che la sua mente produce, deve incasellarlo in una cornice. In lui a prevalere è la pulsione all’ordine» (S.PERRELLA, Parise, Calvino e due diverse costellazioni, in Les Illuminations d’un écrivain. Influences et recréations dans l’œuvre de Goffredo Parise, cit., pp. 49-50).

344 Mi riferisco a P.V.MENGALDO,L’arco e le pietre (Calvino, «Le città invisibili»), in ID., La tradizione del

Capitolo IV – I Sillabari e Le città invisibili

psicologica del personaggio Kublai Kan: quella per cui la vittoria si rovescia in sconfitta, il compimento della storia in fine della storia, la pienezza in vuoto»345. Nei Sillabari l’ambiguità può essere utilizzata come chiave di lettura di ogni brano: se è

vero che l’incipit, caratterizzato dallo schema minimale che tende ad assolutizzare la realtà, presenta una situazione generica priva di oscurità, fin dalle righe successive si trova quasi sempre la descrizione di persone o circostanze che potrebbero essere definite ambigue. Si intende qui un’accezione del termine non legata all’idea di indeterminatezza o confusione (al contrario: sono messi in risalto certi particolari molto puntuali), bensì alla possibilità che un personaggio, un’azione o un sentimento possano essere validi in modo più o meno contraddittorio. A livello retorico questa tendenza, si è visto, si attua nella figura della correctio, espressa da

anzi, insomma o cioè, in realtà, ma: «…con molta invidia, ma era un’invidia particolare

perché era più ammirazione che invidia» (Felicità); «un nano, non era precisamente un nano, ma…» (Ozio); «il sole era escluso, ma forse un po’ di calore da qualche parte c’era» (Pazienza, Primavera). A fianco della correctio, a enfatizzare l’ambiguità, si pone l’ossimoro, che così Mengaldo definisce a proposito della pagina parisiana: «insolubile e tragica compresenza di opposti che si distruggono a vicenda in tanta massima letteratura moderna, qui l’ossimoro sfuma piuttosto, con una sorta di accettazione ironica e post-tragica, verso il non classificabile, l’indecidibile, a e insieme non a»346. Ecco alcuni tra i numerosissimi esempi: «che non l’amava più pure

amandola moltissimo» e «spiegare… qualcosa che egli sapeva inspiegabile» (Affetto); «un cane di nome Bobi che aveva e non aveva un padrone» (Anima); «esprimendo approvazione, ma anche disapprovazione» (Allegria); «segnali che, senza alcuna spiegazione, contenevano già la spiegazione» (Antipatia); «un sospetto, insieme funebre e vitale» (Bacio); «egli si lasciò un po’ ferire e un po’ no» (Dolcezza); «l’uomo che osava e non osava» (Famiglia); «capì benissimo anche senza capirlo» (Italia); «Decise (ma la sua decisione, com’è naturale, non era poi così decisa…)» (Povertà); «a

345 Ivi, p. 432.

346 P.V.MENGALDO, Dentro i Sillabari di Parise, in ID., La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit., pp. 405-

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fiotti abbondanti e regolari come in chiaro ma anche oscuro accordo con il cuore» (Roma).

Da tale vivissima categoria dell’ambiguità («le cose felici si ripetono e non si ripetono», a un uomo può capitare di smettere di amare pur amando tantissimo, o una donna può, inarcando la schiena, andare a posare la fronte contro i vetri di una finestra, «con passi dolorosi e danzanti»), hanno origine, conseguentemente, quelle dell’intercambiabilità e della reversibilità delle cose. La prima mi pare infatti attiva sia nelle Città invisibili che nei Sillabari: gli elementi descrittivi delle varie città si rivelano appunto sostituibili e permutabili, e allo stesso modo, nei brani di Parise vige una “non-necessarietà” delle cose e delle persone.

Altro grande tema dominante che mette in comunicazione i due libri è l’assenza di narratività: i racconti potrebbero essere letti seguendo un qualsiasi ordine. Come afferma Mengaldo, si tratta, a proposito del testo di Calvino di:

una struttura che volta come non mai le spalle alla dimensione «narrativa» e libera completamente il saggista che è in Calvino: si potrebbe dire che nelle Città Invisibili, la «narrativa», questo speciale tipo di narrativa, non è altro che la forma criptica del saggio. Questa assenza di narratività non è solo palese nel procedere del libro per riquadri autonomi e intercambiabili, nella subordinazione del narrato al dialogato, del racconto a un racconto rivissuto, di secondo grado; ma ancor più nella totale mancanza di sviluppo e svolgimento, di «azione» (è quasi un romanzo di avventure cui siano state sottratte le avventure, di cui resta solo il diagramma virtuale e come l’ombra), nella sospensione temporale che caratterizza i racconti di Marco e i relativi commenti fuori quadro.347

Le città sembrano sempre separate e lontane l’una dall’altra (non si dà mai una visione d’insieme): allo stesso modo, i brani dei Sillabari non presentano un legame narrativo, sebbene siano disposti in ordine alfabetico.

Inoltre, per entrambi i libri si potrebbe affermare che il vero protagonista è il tempo. Come riassume perfettamente Belpoliti, Le città invisibili, formalmente incentrate sul fattore spaziale, «sono in realtà un libro sul “tempo” – “il tempo come sistema nervoso dello spazio” (N. Silvestrini) -, come la misura dei sentimenti, della

Capitolo IV – I Sillabari e Le città invisibili

loro forza e della loro durata»348. Tale affermazione vale anche per i Sillabari: più

volte la critica349 si è soffermata sul protagonismo dell’elemento temporale, e basta

ricordare la riflessione di Ginzburg, ritenuta dallo stesso Parise una delle più mirate e acute. La già citata recensione, che sarà poi riproposta, arricchita dal confronto con il Sillabario n. 2, come Postfazione alla riedizione mondadoriana del 1982, mette infatti in rilievo l’uso dei tempi verbali (per Parise, così attento alla costruzione sintattica della frase, non può non essere di fondamentale importanza il verbo, senza il quale nessuna frase può costituirsi), notando che tale aspetto formale distintivo diventa spia del motore più intimo dell’opera. È l’uso dell’imperfetto, afferma Ginzburg, a rivelarsi il perno e al tempo stesso la strategia del testo. Il tempo, dunque, o meglio l’aspetto transitorio di tutte le cose, risulta essere il nucleo sul quale i Sillabari si sono formati, come somma di eventi intermittenti, caotici, spesso inafferrabili.

La serie di istanti variabili che, si è visto, pare essere un punto di contiguità tra i due testi, è inserita nel disordine del mondo, di fronte al quale i due scrittori reagiscono però in modi molto diversi. Se è vero che a proposito del livello formale si ritrova una soluzione molto simile (la favola allegorica cui approda Calvino mi pare vicina all’exemplum dei Sillabari), le premesse da cui muovono gli scrittori si rivelano del tutto distanti: come è stato ampiamente illustrato dalla critica, Calvino, attraverso la scrittura, cerca un metodo attraverso cui razionalizzare una realtà caotica e inafferrabile, la quale diventa così, in un qualche modo, dominabile, mentre Parise non sembra interessato alla costruzione di un ordine fittizio350. Come afferma

Zanzotto a proposito dei Sillabari,

348 M.BELPOLITI, Settanta, cit., p. 229.

349 Da ricordare, tra le altre, la riflessione di La Capria: «vanno e vengono i giorni, vanno e vengono i

casi degli uomini, e questo andare e venire è il vero tempo dei racconti dei Sillabari. Il tempo è anche l’ossessione di sapere che le cose finiscono, che tutto finisce e che è proprio questa fine inaccettabile irreparabile e senza senso, a rendere impossibile il possesso della vita» (R.LA CAPRIA, Letteratura e salti mortali, cit., p. 164).

350 Come afferma giustamente Belpoliti: «Sillabario n. 1 non è, come Le città invisibili, un romanzo di

frantumi, dal momento che Parise, a differenza di Calvino, non sente il bisogno di ricomporre mentalmente il Mondo, l’Universo, in una Totalità. Per Parise ogni frammento dell’esistenza, ogni attimo, contiene il Tutto: la vita, sembrano dire i suoi personaggi, si esperisce solo nei dettagli, o meglio nelle sfumature, nelle nuances, nelle piccole cose all’apparenza senza alcun senso. Parise conosce

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venendo meno la fiducia in una enciclopedia totale e globalizzante, si è preferito selezionare temi significativi, organizzandoli nelle forme di dizionari più o meno lacunosi. Ma quello che Parise avrebbe potuto presentare come dizionario, è stato invece da lui qualificato come «sillabario». In realtà questo sillabario è anche un dizionario: ma la differenza tra sillabario e dizionario è importantissima. Infatti il dizionario reca in sé l’ombra dell’enciclopedia, portatrice dell’organica autorità del sapere, infine richiama ad una forma di onniscienza (qui riguardante l’esperienza delle passioni). Il sillabario, invece, riporta all’incertezza, all’auroralità infantile, che sente le passioni, ma non riesce ancora a sgrovigliarle l’una dall’altra, e ne tartaglia o improvvisa i «nomi», li sillaba. Ed è proprio questo, e solo questo, che oggi si può fare, dopo il grande sconvolgimento (anche se si crede di saperla più lunga), tuttavia cercando di muovere al di là, verso nuovi spazi e sintesi. Ma oggi come oggi è possibile soltanto questo «sguardo all’indietro» che non passa attraverso una trasparenza «normale», ma quasi attraverso la rifrazione di uno specchio di Alice. Se ne ha tutta una serie di ondeggiamenti che provocano un fenomeno di spiazzamento e divaricazione, tale da generare di per se stesso una qualche novità, un nuovo «riconoscimento»: e in ogni caso si è ben lungi da quella che avrebbe potuto essere una pura e semplice operazione regressiva.351

In Parise dunque, caduta la fiducia in un progetto totale, la scrittura diventa il tentativo di ri-sillabare e ri-provare i sentimenti, pur nella loro continua incertezza e inconoscibilità. Se entrambi i libri possono essere letti come lo sforzo di descrivere, o perlomeno inventariare, i sentimenti352 attraverso la lente temporale, è evidente

che Calvino intende astrarre la rappresentazione delle città attraverso un impianto logico fortissimo, mentre Parise vuole piuttosto cogliere un sentimento tramite legami percettivi liberi: la realtà viene prelevata, distillata da un flusso, senza la pretesa della creazione di una norma. Afferma ancora Ginzburg: «lo sguardo è svagato e attonito perché consapevole che dopo aver radunato un’ampia dose di particolari su un fatto, o su una persona, o sui gesti d’una persona o di un gruppo di

l’abbandono, e la grazia che persegue nei suoi racconti è frutto del caso, non può essere in alcun modo costruita a tavolino, non è il risultato di una contrainte» (M.BELPOLITI, Settanta, cit., p. 233).

351 A.ZANZOTTO, Su I Sillabari di Goffredo Parise, in I Sillabari di Goffredo Parise, Atti del Convegno 4-5

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