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Il reclutamento, l’organizzazione e la rappresentanza del lavoro

Come abbiamo visto nel precedente capitolo, i quattro poli chimici furono costruiti in tempi differenti lungo tutti gli anni Cinquanta. Dal semplice punto di vista territoria- le, i petrolchimici possono essere suddivisi in tre gruppi che corrispondono alle tre im- prese di appartenenza, ovvero la Montecatini, l’Edison e l’ENI. Questa suddivisione ha

il merito della chiarezza, ma ha anche il difetto di non mettere in luce le relazioni e le diverse collocazioni nella rete delle singole iniziative industriali. Per questo motivo ab- biamo preferito seguire una griglia discorsiva e di analisi tale da mettere in risalto i di- versi ruoli delle singole imprese, e di ciascuno degli «organizzatori della produzione»199.

Per analizzare l’organizzazione aziendale – come andremo a vedere in questo capitolo – è utile scomporre una rete complessa di dipendenze, in modo tale da agevolare la com- prensione di quei processi – contributi, spinte e freni – che concorsero all’introduzione e all’adattamento delle nuove tecniche organizzative venute da oltre oceano.

Prima di tutto presentiamo brevemente quali erano le caratteristiche salienti dell’industria petrolchimica, relativamente all’organizzazione aziendale. L’industria chimica occupava negli anni Cinquanta un posto molto avanzato nel campo della meccanizzazione, specialmente se confrontato con gli altri settori industriali, prima di tutto quello metalmeccanico.

I materiali entravano in ciclo molto rapidamente e subivano trasformazioni e lavo- razioni in fasi successive quasi senza soluzione di continuità e con “polmoni” inter- medi spesso molto limitati. Le apparecchiature e i macchinari che permettevano la realizzazione dei vari “processi” chimici erano di svariati tipi: pompe, compressori, turbine, colonne, reattori, scambiatori, ecc. Questi erano raggruppati in impianti o re- parti tra loro collegati da una giungla di tubazioni e particolari strumentazioni che, in- serite in molteplici punti del ciclo, ne permettevano il controllo e l’autoregolazione.

Se si volesse inserire uno stabilimento chimico nel quadro dell’industria “tradizio- nale”, lo si potrebbe pensare come costituito da una grossa linea di fabbricazione, ar- ticolata in una grande quantità di “posti di lavoro” attraverso i quali passano le varie materie prime e ausiliarie fino a diventare prodotti finiti o sottoprodotti, senza arresti o tempi di attesa. Si potrebbe dire che il “tempo ciclo” era tutto “tempo macchi-

199 L’espressione è di Giulio Sapelli (G. SAPELLI, Gli «organizzatori della produzione» tra struttura

d’impresa e modelli culturali, in Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, pp. 591-696

(Storia d’Italia, annale n. 4), ripubblicato in G. SAPELLI, Economia, tecnologia e direzione d’impresa in Italia, Torino, Einaudi, 1994, pp. 173-306).

na”200. Una sorta di catena di montaggio, dove ogni singolo reparto rappresenta un

anello della catena.

In un’industria petrolchimica era proprio il ciclo di produzione a determinare i modi e i tempi del lavoro e non viceversa. Il lavoro era svolto da squadre disseminate in una vasta area produttiva201.

Per rendere l’idea di cosa significava concretamente lavorare in un’industria petrol- chimica, riportiamo il racconto di un operaio turnista presso un reparto per la fabbri- cazione del PVC della Sicedison di Porto Marghera.

Giuseppe Orlandin era stato assunto nell’agosto del 1956. Appena ingaggiato lo mandarono al reparto CV3 – cloruro di vinile polimero (PVC) –, ma Orlandin era stato

assunto per andare CV6 – che era in costruzione – dove veniva realizzata la polimera-

zione in emulsione202. Dopo poco lo trasferirono al CV6. Come si svolgeva il suo la-

voro? Orlandin ricorda che all’inizio erano in quattro lavoratori per turno: uno alla sospensione, uno all’emulsione, uno all’essiccatore e un insaccatore. In più l’addetto all’«impiantino» dell’acqua deionizzata e l’addetto alle pulizie: «quindi come organico addetto all’autoclave eravamo in quattro per turno, eravamo i primi sedici al CV6»203.

Noi – racconta sempre Orlandin –

avevamo il CVM gas, si caricava in autoclave. L’autoclave si presentava vuota, si chiudeva il fondo, si caricavano 6.000 litri di acqua, perché l’autoclave aveva una capacità di 14 metri cubi, dopo si caricavano degli additivi in polvere, bicarbonato, solfato di zolfo o bisolfito per eliminare l’ossigeno; dopodiché una volta fatto tutto questo si caricava il CVM in base alla formula204.

Inoltre avevano il compito di trasformare la formula per la produzione del CVM

espressa in chilogrammi in litri a seconda della densità del momento – in base alla temperatura cambiava il peso specifico. Portavano i chilogrammi in litri in modo da poter caricare il materiale liquido, perché il «CVM resta liquido fintanto che non rag-

giunge una pressione di un chilo e due, un chilo e tre; sotto questa pressione diventa gas. Allora si carica». L’autoclave era composta da un recipiente dentro un altro – una “camicia” – e tra le pareti vi passava dell’acqua calda quando si caricava. Il processo di raffreddamento avveniva attraverso una minore entrata di vapore e la presenza di

200A. BURGAZZI, Programmazione delle manutenzioni nell’industria chimica, «Produttività», XIII (1962), n. 1, p. 24.

201 Ovviamente all’interno dei complessi industriali lavoravano anche altre figure più “tradizionali”, come ad esempio gli addetti all’officina meccanica o quelli al reparto di insaccaggio.

202 Cfr. l’intervista a Giuseppe Orlandin riportata in E. TREVISAN, “La mia vita con il CVM”, in N.

BENATELLI, G. FAVARATO, E. TREVISAN, Processo a Marghera. L’inchiesta sul Petrolchimico il CVM e le morti degli operai. Storia di una tragedia umana e ambientale, Portogruaro, Nuova dimensione-Associazione Ga-

briele Bortolozzo, 2002, p. 33. 203 Ibid., p. 41.

maggiore acqua fredda, «però l’acqua dentro in autoclave doveva restare sempre fra i 52 e i 55 gradi. Appena si rilevava che l’indicatore sul diagramma segnava un caduta di pressione,

dovevamo subito aprire la valvola e caricare [il] CVM, ma velocemente, fino a quando si riusciva a portare la pressione al livello giusto, e poi si caricava a quantità costante, tan- ti litri a minuto, secondo come andava la temperatura, perché se tendeva a salire si ca- ricava di più, se scendeva allora si caricava meno e si aumentava un po’ la temperatura della “camicia”, dell’acqua, in modo da ottenere un diagramma costante tra temperatu- ra e pressione205.

Quando poi erano passate circa sei-sette ore il CVM liquido si era trasformato in

polimero

c’era poca pressione, si vedeva la pressione che diminuiva e questa era la fase finale. Ed era il momento più brutto perché all’improvviso partiva e andava su di pressione che faceva tremare anche i tubi, delle volte bisognava aprire tutto, la prima caduta di pressione e l’ultima finale erano i punti più pericolosi206.

Non che potesse esplodere – perché c’erano le valvole di sicurezza – però «si ri- schiava di perdere tutto il carico. E allora quando la pressione arrivava a un chilo e mezzo, due si degassava e il gasometro, fino a quando arrivava a mezzo chilo di pres- sione». Fatta scendere la pressione, si apriva l’autoclave:

Sul boccaporto che era ovale (in alto) e aveva sedici bulloni, se ne lasciavano fissi solo quattro, dopo si cominciava ad allentarne due e poi gli altri fintanto che si sentiva sof- fiare, allora si aspettava un poco. Però capitava che quello soffiava sempre anche al massimo del raffreddamento, ma la massa interna era tutta resina ed era troppo caldo e ci voleva un sacco di tempo per raffreddarla. E allora un po’ alla volta si aprivano tutti i bulloni. Il CVM usciva come d’estate il calore sull’asfalto. Una volta che era sceso si prelevava subito un campione, si mandava a fare le analisi e intanto noi, tramite le pompe, scaricavamo le autoclavi e mandavamo il prodotto all’essiccamento. Alla fine si chiudeva il fondo, si ricaricava e si ripeteva. In ventiquattro ore si facevano due carichi e mezzo se tutto andava bene […]207.

La conversione del «CVM era al 91 per cento. E allora se io caricavo 6.000 litri,

uscivano 5 tonnellate e mezzo» di PVC. Successivamente gli addetti all’essiccamento

aspiravano con una pompa ad alta pressione dal serbatoio per essiccarlo, oppure con un atomizzatore – una turbina che faceva 15.000 giri al minuto – «dentro a questo ci- clone enorme c’erano 180 gradi. Entrava aria calda e in fondo, dove c’erano tutte le varie turbine che muovevano l’aria, c’era l’ultima che la tirava fuori. Doveva essere sempre sotto vuoto, perché i due flussi si equivalevano come forza, venivano regolati

205 Ibid. 206 Ibid.

con una serranda»208. Di questi carichi la squadra di Orlandin ne compiva tre al gior-

no:

A parte quelli che erano in sala quadri: là bisognava saper leggere le temperature, le pressioni, si dovevano fare delle percentuali. Anche durante la lavorazione si doveva sapere più o meno quanto CVM c’era ancora da polimerizzare in base alle chilocalorie che venivano asportate. C’era un registratore, io sapevo per esempio che un chilo di CVM faceva tot calorie, quante calorie ha sviluppato in totale? Bisognava saper fare questo conto209.

Proponiamo un esempio di come era distribuito l’organico di un importante repar- to, ma questa volta il reparto del polistirolo della Montecatini idrocarburi di Ferrara. L’organico del reparto – distribuito in 5 piani – nel 1960 era composto da 34 operai turnisti e 30 manovali giornalieri. Per ogni turno c’erano 3 quadristi per la Sala quadri di cui il caposala specializzato e 2 operai qualificati con mansioni di lettura e controllo produttivo, 2 operai qualificati per la vigilanza della Sala estrusioni che intervenivano a ogni intoppo dell’impianto, infine nella Sala colore c’erano 2 operai qualificati ad- detti alle trafile e taglierine, un operaio comune addetto al lubrificatore, un operaio qualificato addetto al forno, del quale controllava il funzionamento e la pressione, e un perito chimico che fungeva da assistente210.

Ad esempio, intorno al 1960 alla Sicedison di Mantova, i servizi di produzione erano composti da 6 reparti che erano svolti da un minimo di 20 dipendenti – il re- parto del dicloretano (cloro ed etilene) – a un massimo di 200 dipendenti – il reparto del dodicilbenzolo (serviva per la fabbricazione dei detersivi), per un totale di 630 di- pendenti. Quello dei servizi generali – guardie e fattorini, laboratorio di analisi, pom- pieri di stabilimento, antinfortunistica, magazzino e reparto spedizioni e il laboratorio di analisi – occupava ben 680 dipendenti. Invece i servizi ausiliari erano composti da 5 reparti: la centrale termica, il laboratorio chimico, l’officina meccanica e quella elet- trica e gli impiegati della direzione e dell’ufficio del personale, per un totale di 390 di- pendenti. Come si può ben notare la stragrande maggioranza dei dipendenti della Si- cedison di Mantova non era addetta direttamente alle lavorazioni.

Per quanto riguarda le qualifiche l’industria petrolchimica richiedeva una maggio- ranza di addetti “specializzati” – operai specializzati, operai qualificati e manodopera specializzata – a discapito della manodopera comune. Sempre alla Sicedison di Man- tova e sempre intorno al 1960, c’era il 49,51% di operai qualificati, il 26,41% di operai specializzati, il 13,35% di manodopera specializzata, il 3,45% di intermedi di II catego-

ria, il 2,78% di manodopera comune e l’1,73% di intermedi di I categoria211. Si tenga

208 Ibid., p. 40. 209 Ibid.

210ASCGIL, AC, 1960, b. 20, fasc. 230. Gruppo Montecatini. La fabbrica Montecatini di Ferrara, p. 32. 211 Nostre elaborazioni da: IMSC, ACGIL, CDLT-MN, b. 83, fasc. 1, Quadro generale situazione “Si- cedison-Mantova”, 17 ottobre 1961, p. 1.

comunque conto che la questione delle qualifiche e dei passaggi di qualifica era una costante delle rivendicazioni sindacali, quindi le differenze da industria ad industria petrolchimica potevano essere consistenti, come ad esempio alla Montecatini di Fer- rara, sempre restia a concedere i passaggi di qualifica212.

Come si potrà intuire, nell’industria petrolchimica la configurazione del lavoro fa- ceva sì che non ci si trovasse di fronte né a una aristocrazia operaia né alla fierezza del mestiere; non c’era quindi il cottimo, la catena di montaggio, ecc.

L’industria italiana degli anni Cinquanta assunse «un atteggiamento ambivalente nei confronti del flusso di tecniche e di idee proveniente dagli Stati Uniti». Il trasferimen- to tecnologico avvenne in forme «caute e sobrie», attraverso le quali si riuscì a recepi- re «quanto di meglio» l’industria americana aveva da offrire sfuggendo a tentazioni puramente imitative e permettendo così di evitare a una parte dell’industria italiana l’«ubriacatura fordista» degli anni Sessanta e Settanta213. La forza di penetrazione del

modello americano era «nelle cose»214, come aveva previsto e auspicato il responsabile

dell’Economic cooperation administration (ECA), Paul Hoffman, secondo il quale gli

europei dai loro viaggi negli Stati uniti

avrebbero ricevuto una formazione di base della tecnologia americana […] al loro ri- torno a casa essi avrebbero fatto del loro meglio per introdurre nelle loro aziende […] le tecniche che avevano imparato […]. Essi imparano che questo è un paese di scaffali pieni e di negozi pieni di merci, resi possibili da un’elevata produttività e da buoni sala- ri e che tale prospettiva può essere emulata altrove da quanti lavoreranno in questa stessa direzione215.

In effetti, lo sviluppo economico degli anni del boom – 1951-1963216 – fu basato

sulla crescita della produttività217, ma a questa non corrispose un altrettanto importan-

212ASCGIL, AC, 1960, b. 20, fasc. 230. Gruppo Montecatini. La fabbrica Montecatini di Ferrara, pp. 7-8.

213D. BIGAZZI, Modelli e pratiche organizzative nell’industrializzazione italiana, in L’industria cit., p. 982. 214 Ibid., p. 976.

215 Cit. in J. MCGLADE, Lo zio Sam ingegnere industriale. Il programma americano per la produttività e la ripre-

sa economica dell’Europa occidentale (1948-1958), «Studi storici», XXXVII (1996), n. 1, p. 22.

216 Nel periodo tra il 1951 e 1958 il prodotto interno lordo annuo ebbe una crescita media del 5,8%, e nel triennio successivo toccò addirittura il 7%. Durante quel ciclo, che proseguì fino al 1963, l’Italia assunse i tratti caratteristici di un paese pienamente industrializzato (PETRI, Storia economica

d’Italia cit., p. 189).

217 «In generale, si può ritenere che col termine «produttività» si indichi il rapporto tra una qualche misura dei prodotti ottenuti e una qualche misura dei fattori produttivi immessi nella produzione. Tale rapporto, in pratica, si presenta come l’espressione della “efficienza” aziendale, che appunto si misura – di solito – raffrontando i risultati di produzione ottenuti ai mezzi impiegati per ottenerli» (S. MON- TARETTO MARULLO, L’aumento della produttività ed i suoi fattori, «Produttività», VIII (1957), n. 2, p. 145). Montaretto Marullo era il Capo Servizio relazioni col personale della Sicedison (L’addestramento

nell’industria. Atti del Primo Congresso internazionale su l’«Addestramento nell’Industria», Rapallo, 3-8 febbraio 1958, Milano, Franco Angeli, p. 42 (Collana di Studi sul Lavoro, n. 20)).

te incremento dei salari e la disoccupazione restò alta fino al 1958: solo con gli ultimi anni la situazione si invertì218. Inoltre anche la distanza con le pratiche operative delle

fabbriche americane risultava enorme.

La produttività poteva essere considerata – affermò nel 1952 un dirigente della Montecatini – come una funzione, matematicamente intesa, di un certo numero di va- riabili che, tutte, influivano sul risultato finale. Queste erano identificabili ne: i capitali, le materie prime, la mano d’opera, il progresso tecnico, l’organizzazione e i mercati di consumo. Ma «quale è la posizione dell’industria italiana di fronte a questa equazio- ne?»219. Secondo il dirigente l’Italia era stretta in un cerchio che

è formato dalla povertà di materie prime del nostro suolo e del nostro sottosuolo, è formato da enormi difficoltà frapposte alla esportazione della nostra produzione, dalla mancanza di capitali e dall’alto costo del denaro per finanziare gli acquisti all’estero, da una esuberanza di mano d’opera determinata dal nostro sviluppo demografico, da una estensione sempre crescente dell’intervento, diretto o indiretto, dello Stato, che assu- mendo programmi e compiti industriali (fino alla delicatissima industria farmaceutica), porta a carico dei contribuenti gli oneri derivati dalla difficile situazione delle aziende amministrative e sottrae alla libera iniziativa attività che potrebbero creare nuove fonti di lavoro220.

L’esponente della Montecatini proseguì nella disamina giungendo ad affermare che le uniche parti del programma di aumento della produttività americana che si poteva- no adottare in Italia erano quelle riferite all’organizzazione e alla formazione del per- sonale, ovvero i programmi job methods e job instructions del Training within Industry (TWI)221.

Questo perché, per quanto riguardava il piano direttamente organizzativo,

la visione unitaria e totalizzante che aveva portato alla definizione di un systematic man-

agement veniva frammentata e ridotta a un «pacchetto di strumenti», prendendo così

quasi alla lettera un’espressione (kit of tools) ricorrente nel gergo dei programmi di assi- stenza tecnica dell’ECA: all’acquisizione progressiva delle tecniche di pianificazione, di

218 Secondo Fabrizio Barca, il tasso di crescita della produttività – tra il 1951 e il 1958 – fu del 4,6% annuo, ma le retribuzioni crebbero solo dell’1,3% l’anno. La disoccupazione si attestò media- mente all’8% fino al 1958. Soltanto negli ultimi anni del miracolo economico la disoccupazione scese (3,4%) e i salari salirono (5,8%) (F. BARCA, Compromesso senza riforme nel capitalismo italiano, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi cit., p. 39 tab. 5).

219R. TODISCO, La relazione del prof. Renato Todisco al convegno di Milano, in Comitato nazionale per la produttività, Problemi e prospettive della vita aziendale, vol. 1, Roma, 1953, p. 397 (Milano, 16-20 giugno 1952).

220 Ibid., pp. 398-399.

221 Più in generale si tenga conto che secondo Segreto «la grande industria si “americanizzò”, so- prattutto nelle strutture organizzative e del management, avviando un lento processo […] di ridefinizio- ne delle relazioni industriali in fabbrica alla luce della filosofia statunitense delle human relations» (L. SE- GRETO, Americanizzare o modernizzare l’economia? Progetti americani e risposte italiane negli anni Cinquanta e

definizione di obiettivi, di controllo della produzione faceva riscontro una resistenza tenace a modificare l’empirismo, la discrezionalità e l’autoritarismo che dominavano le relazioni sociali a livello di reparto222.

Strumento principale di questo “pacchetto” fu il TWI. Si trattava di un programma di

addestramento sviluppato dalle imprese americane in un periodo di emergenza – la Se- conda guerra mondiale – per risolvere il problema della rapida formazione dei nuovi capi223. Questo metodo era articolato in tre corsi base – oggi si chiamerebbero fasi –, da

svolgere in successione, job instruction, job relations e job methods224, ma nell’applicazione ita-

liana venne inizialmente invertito l’ordine dei programmi.

Venne privilegiato il corso di job relations che puntava all’introduzione nei reparti della logica e dello stile delle human relations. Questa scelta fu avvalorata dall’organo che per primo ne aveva promosso la diffusione – il Comitato nazionale per la produt- tività (CNP)225 – che in base al «quale sembrò di doversi ritenere che la situazione dei

rapporti industriali» in Italia «dovesse richiedere una bonifica sul terreno dei rapporti propriamente umani tra i capi ed i dipendenti»226. Su questa volontà di “bonifica” ve-

nivano poi forniti ai capi gli strumenti (job instruction) per formare a loro volta gli ope- rai alle loro dipendenze, per poi passare infine ai metodi di lavoro (job methods), in cui l’obiettivo era quello di individuare miglioramenti che «difficilmente potrebbero esse- re rilevati dagli uffici tecnici […] che devono dedicare il loro tempo allo studio di modifiche sostanziali»227. Quest’ultimo corso scendeva quindi sul terreno del proces-

so lavorativo per attivare dal basso la raccolta di suggerimenti. Il suo svolgimento fu molto meno frequente degli altri, «evidentemente nella convinzione che avrebbe tro- vato scarso riscontro, come era avvenuto per i ripetuti tentativi di mettere in funzione le “cassette dei suggerimenti”»228.

Con queste cassette quali suggerimenti si potevano dare? La casistica era varia. Ad esempio alla Sicedison si potevano incontrare indicazioni relative ai «metodi di lavo- ro», ai «Macchinari, impianti, materiali», alla «produzione», o ancora alle «condizioni di lavoro». In cambio il presentatore del suggerimento riceveva un premio dal capo del reparto di appartenenza. Se non lo aveva firmato doveva far pervenire all’ufficio del

222BIGAZZI, Modelli e pratiche organizzative cit., p. 982.

223L.D. KORB, R. RICCARDI, Teoria e pratica dell’addestramento nell’industria, Milano, Franco Angeli, 1956, p. 25 (Collana di Studi sul lavoro, n. 14).

224E. PAULI, Il metodo TWI per la formazione pratica dei capi, Milano, Franco Angeli, 1955, pp. 117-141 (Collana di Studi sul lavoro, n. 1).

225 Sul CNP si veda: G. BIANCHI, Il Comitato nazionale per la produttività: 1951-1955, «Annali della fon- dazione Giulio Pastore», XXII (1993), pp. 398-426. Si veda anche: SEGRETO, Americanizzare o moderniz- zare l’economia? cit., pp. 55-83.

226KORB, RICCARDI, Teoria e pratica dell’addestramento nell’industria, p. 27. 227PAULI, Il metodo TWI per la formazione pratica dei capi cit., p. 125.

228BIGAZZI, Modelli e pratiche organizzative cit., p. 967. Sulle cassette dei suggerimenti si veda: P.L.

MUTI, I suggerimenti del personale e la “cassetta delle idee”, «Fattore umano», III (1958), n. 5, pp. 343-353 e

personale – «anche in forma indiretta, per esempio tramite l’assistente sociale che è tenuto alla riservatezza» – la ricevuta e per la stessa via veniva corrisposto il premio:

In casi particolari sarà il Direttore stesso che consegnerà il premio.

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