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Il Transnationalismo e i Diaspora Studies a confronto

I.6 Il transnazionalismo

I.6.3 Il Transnationalismo e i Diaspora Studies a confronto

L’attenzione che i critici nell’ambito degli studi transnazionali hanno rivolto ai Diaspora Studies, è dovuta al fatto che le due teorie letterarie si basino sull’interesse per il movimento dei migranti. Nell’introduzione ad una raccolta di saggi riguardanti la cosiddetta ‘Diasporic Literature’, Mark Shackleton analizza il concetto di diaspora partendo dalle implicazioni epistemologiche del termine: «The notion of diaspora in particular has been productive in its attention to the real-life movement of peoples throughout the world, whether these migrations have been through choice or compulsion. But perhaps of even greater significance to

97 postcolonial theory has been the consideration of the epistemological implications of the term – diaspora as theory».335

Il termine diaspora, che ha origini molto più antiche rispetto a quello di transnazionalismo, viene “dal greco διασπορά ‘dispersione’, dal verbo διασπείρω ‘disseminare’. In generale dispersione specialmente di popoli che, costretti ad abbandonare la loro madrepatria, si disseminano in varie parti del mondo […].”336

Le diaspore storicamente più note sono quelle dei popoli ebraici e armeni ma, col passare del tempo, il termine è stato attribuito anche ad alcune minoranze religiose europee. Dal 1970 in poi il concetto di diaspora, abbandonando la sola accezione religiosa, ha subito un’inflazione e viene interpretato in diversi modi. Secondo Gabriel Sheffer, la sua diffusione è consequenziale al sorprendente aumento di interesse per la migrazione e la capacità di integrazione dei migranti nei paesi di accoglienza.337 John Lie, invece, parla di un cambiamento di prospettiva: dalla migrazione internazionale alla diaspora transnazionale.338 Ad ogni modo, Thomas Faist, in un saggio dal titolo Diaspora and Transnationalism: What Kind of Dance Partners? (2010), individua almeno tre caratteristiche che gli studi transnazionali hanno usato per definire la diaspora. La prima caratteristica riguarda le cause che causano la migrazione o la dispersione; la seconda implica una terra di partenza ed una di destinazione; infine, la diaspora deve occuparsi

335 Shackleton, M., Diasporic Literature and Theory – Where now?, Cambridge Scholars Publishing,

Cambridge, January 11, 2008 , p. XII.

336http://www.treccani.it/vocabolario/diaspora/

337 Sheffer G., “Whether the study of ethnic diasporas? Some theoretical, definitional, analytical and

comparative considerations” in Prévélakis, G. (dir.), Les Réseaux des Diasporas, L’Harmattan, Paris, 1996.

338 Lie J., “From international migration to transnational diaspora”, Contemporary Sociology, Vol. 24,

98 anche dell’integrazione dei migranti e/o delle minoranze nei paesi di insediamento. Le nozioni più antiche di diaspora prevedevano, infatti, che i soggetti/gruppi diasporici creassero nette barriere con le società di arrivo impedendo, così, ogni possibilità di assimilazione politica, economica e culturale.339 Alla luce di queste affermazioni sarebbe più corretto usare il sostantivo plurale e parlare di ‘diaspore’. Gli studiosi si concentrano sull’analisi delle cause sociali dei movimenti dei popoli, sul ritorno delle comunità diasporiche nelle madrepatrie e sulla possibilità di integrazione dei migranti nella società di arrivo. Mentre Faist afferma che l’assimilazione nelle culture di arrivo, costituirebbe la fine delle diaspore,340 Bruneau, invece, focalizza l’attenzione sull’integrazione dei migranti e definisce la diaspora come un “patchwork of families, communities and religious network”341 all’interno dello stato-nazione.

Per quanto riguarda invece il rapporto con il transnazionalismo, è opportuno precisare che, anche se i Diaspora Studies e i Transnational Studies condividono l’interesse per l’attraversamento dei confini dei migranti, il termine diaspora è stato spesso usato per indicare i gruppi umani che vivono al di fuori della propria madrepatria (a volte anche immaginaria, come nel caso dei discendenti degli africani deportati in tutto il mondo durante lo schiavismo), mentre il transnazionalismo è utilizzato sia per far riferimento ai legami socio-culturali che i migranti

339

Faist T., ‘Diaspora and transnationalism: What kind of dance partners?’, in Diaspora and

Transnationalism Concepts, Theories and Methods, Bauböck R. & Faist T. (eds.), Amsterdam

University Press, Amsterdam,2010, p.12, corsivo mio.

340 Id, p. 13. 341

Bruneau M., ‘Diasporas, Transational Spaces and Communities’, in R. Bauböck, Th. Faist (eds),

Diaspora and Transnationalism: concepts, theories and methods, Amsterdam University Press,

99 tessono in tutti i paesi, che per le reti sociali delle organizzazioni internazionali. I pareri degli studiosi non sono uniformi a tal proposito e Dufoix, nel suo volume Diasporas (2008), afferma che la diaspora ed il transnazionalismo sono ‘quasi’ twin concepts.342

Secondo lo studioso, la differenza tra i due risiederebbe nel fatto che i Diaspora Studies non si limitano all’ambito accademico; essi hanno alle spalle una lunga tradizione politico-culturale e per questo motivo sono diventati «a global word that fits the global world».343 A ribaltare questa visione sono Keck e Sikkink che, in Activists Beyond Borders: Advocacy Networks in International Politics (1998), affermano che la diaspora e il transnazionalismo – intesi come concetti e fenomeni osservabili – non necessariamente coincidono con quella che viene chiamata la società globale o transnazionale.344 Sulla distinzione tra i due approcci si esprimono anche Khagram e Levitt in una raccolta di saggi dal titolo The Transnational Studies Reader: Interdisciplinary Intersections and Innovations (2008), spiegando che mentre i Diaspora Studies hanno come punto di partenza concetti come ‘comunità’ e ‘dispersione’, i Transnational Studies trovano terreno fertile negli studi sociali.345 A tal riguardo, è interessante un’altra riflessione di Bruneau, il quale parla di diasporism e transnationalism e chiama in causa la nozione di ‘spazio’:

Diaspora implies a very strong anchoring in the host country and sometimes, when the home country is lost or is not accessible (as with the Greeks of Asia Minor, Armenians or Tibetans), a clear-cut

342 Dufoix S., Diasporas, University of California Press, Berkeley, 2008. 343 Id. p. 108.

344 Keck M.E., Sikkink K.,Activists beyond Borders: Advocacy Networks in International Politics,

Cornell University Press, Ithaca, 1998.

345 Khagram S. & P. Levitt, The Transnational Studies Reader: Interdisciplinary Intersections and

100 break with it. This is compensated, in the host country, by the

creation of territorial markers, places of memory, favoured by an ‘iconography’ fixing the link with the home country. That gives some kind of autonomy from host and origin societies to the diasporic social formation compared to the transnational community. In transnational spaces and territories of mobility, this break does not take place, nor is there the need to be rerooted elsewhere on the host territory. Any particular family has two parallel lives in two or more nation-states: the home country is dominated and the host countries, where the family has migrated, are dominant.346

Quindi, secondo l’analisi di Bruneau, mentre uno spazio ‘diasporico’ si riferisce maggiormente ai rapporti tra patrie e nazioni ospitanti e alla rottura che alcune comunità possono attuare con il paese di origine, quello ‘transnazionale’ chiama in causa tutti i paesi e le culture che i migranti vivono, facendo dei confini geografici una risorsa a cui attingere per dare un senso alla loro identità multiforme. Lo spazio, in questo caso, diventa elemento centrale per riflettere sulla realtà del XXI secolo in cui, le posizioni degli studiosi si ampliano. Jackson, Crang e Dwyer, in un saggio dal titolo Transnationalism and the Spaces of Commodity Culture (2003), affermano che lo spazio della transnazionalità comprende non solo le geografie materiali o il commercio di beni e servizi transnazionali, ma anche le geografie simboliche e immaginarie. La riflessione dei tre geografi inglesi, Jackson, Crang e Dwyer, basata sulla studio della Britishness, intende lo spazio transnazionale come qualcosa di complesso, multidimensionale, il cui approccio include il superamento di gruppi etnici specifici:

[It] actively destabilizes traditional views of ‘Britishness’ by refusing to restrict the transnational to members of specific

346

Bruneau M., ‘Diasporas, Transational Spaces and Communities’, in R. Bauböck, Th. Faist (eds),

Diaspora and Transnationalism: concepts, theories and methods, Amsterdam University

101 ethnically defined minority groups. This more expansive view of

transnationality also recognizes its historical antecedents and wider contemporary resonances. […] the definition of transnationalism, mov[es] beyond specific ethnically defined or spatially dispersed ‘transnational communities’, to a more encompassing notion of transnational space.347

L’analisi effettuata dai tre geografi offre l’immagine dello spazio transnazionale come dimensione ideale in cui gli individui possono anche avere affinità residuali con le identità di migranti di generazioni precedenti, o identità derivanti dalle loro esperienze transnazionali.348 La precisazione di Brah, infine,risulta inerente a questa indagine poiché afferma che il concetto di diaspora deve essere utilizzato come supporto analitico che permetta una critica del discorso delle fixed origins e tenga conto del desiderio di soggetti coinvolti di crearsi una nuova “casa”, distinto dal desiderio di casa come nostalgico mito della madrepatria.349

347 Crang P., Dwyer C. and Jackson P., ‘Transnationalism and the Spaces of Commodity Culture’, in

Progress in Human Geography, vol. 27, 2003, pp. 438-456.

348 Id.

103

CAPITOLO II

CARYL PHILLIPS E IL TEATRO

II.1 La genesi della scrittura e del teatro di Caryl Phillips

Alla fine degli anni ’70, Caryl Phillips, appena ventenne, lavorò per tre estati consecutive come macchinista teatrale al Festival Internazionale di Edimburgo. Questa esperienza lo avvicinò al mondo del teatro ancora più di quanto avessero fatto gli studi letterari a Oxford; da quel momento, iniziò a dedicarsi assiduamente alla scrittura teatrale. In un saggio dal titolo I Could Have Been a Playwright (2006), Phillips racconta che tutte le mattine lavorava alla piccola macchina da scrivere portatile che la madre gli aveva regalato e che, ben presto, quello che stava scrivendo sarebbe diventata la sua prima pubblicazione.350 Il manoscritto a cui lo scrittore si riferisce in questi ricordi è lo stage play intitolato Strange Fruit. L’opera, che inaugura la sua carriera artistica, venne rappresentata nel 1980 in Inghilterra al Crucible Theatre di Sheffield e pubblicata l’anno successivo. A Strange Fruit (1980) seguì la pubblicazione di altri due testi teatrali, Where There is Darkness (1982) e The Shelter (1984).351 Non è un caso se il debutto di Phillips avvenne come drammaturgo poiché il teatro era il genere che meglio conosceva: «The theatre was in my blood long before I knew I wanted to write, but once I had decided that I wanted to write inevitably it was to the theatre

350 Davis G. V., Fuchs A., Staging New Britain, Aspects of Black and South Asian British Theatre

Practice, P.I.E.- Peter Lang, Bruxelles, 2006, p.38.

351

L’ultimo testo teatrale pubblicato da Caryl Phillips col titolo di Rough Crossings (2007) non è stato inserito in questo lavoro di tesi sotto consiglio diretto dello scrittore poiché si tratterebbe di un adattamento dal romanzo di Simon Schama commissionatogli da terzi e non una produzione propria.

104 that I turned».352 In realtà, già durante gli studi universitari di letteratura inglese, Phillips nutriva la grande ambizione di diventare regista teatrale. Si cimentò, infatti, nella direzione di alcune pièces dei suoi autori preferiti come Shakespeare, Ibsen, Pinter e Tennessee Williams.353

Per capire a pieno il significato della scrittura teatrale di Caryl Phillips, è doveroso aprire una breve parentesi biografica. Infatti, l’instabilità familiare fu il fattore che spinse Phillips a riversare nell’arte scrittoria le insicurezze di una vita che già da bambino si divideva tra diverse culture. Lillian e Malcom Phillips inoltre non resistettero alle pressures of migration, ovvero le difficoltà dovute all’atto migratorio e al conseguente senso di sradicamento tipico di chi è costretto a lasciare la terra madre. Infatti, a poco meno di otto anni dal loro arrivo in Inghilterra, si separarono. La disgregazione familiare, influenzò profondamente Caryl che, insieme ai fratelli, visse trasferito di settimana in settimana tra “new set of people”354 presso alcune white families, fino a quando la madre non ottenne il loro definitivo affidamento. A tal proposito, in un articolo dal titolo Caryl Phillips: Reading My Way Back to the Past, and the Moors (2015), lo scrittore racconta uno dei periodi più bui della sua esistenza, proprio mentre l’Inghilterra viveva un momento molto fiorente. Ricorda la Gran Bretagna degli anni ’60, infatti, come una nazione che iniziava a riemergere dalle macerie del secondo dopoguerra: la censura teatrale era stata abolita, l’aborto e l’omosessualità non erano più considerati attività

352 Bell R., “Worlds Within: An Interview with Caryl Phillips”, Callaloo, 14.4 (1991), p.

579.

353 Cfr. Davison C.M., “Crisscrossing the River: An Interview with Caryl Phillips”, Ariel, 25.4 (1994),

p. 56.

354 Jaggi M., “Rites of Passages. A Conversation with Caryl Phillips”, Guardian, November III, 6-7

105 criminali, le gonne delle adolescenti si accorciavano e i capelli si allungavano. L’Inghilterra vinse un campionato mondiale di calcio (1966) e i Beatles cominciavano l’ascesa verso il successo.355

Oltre a questi eventi famosi e positivi, Phillips ne cita uno personale che traumatizzò la sua adolescenza:356 seppure abbia provato a rimuoverlo dalla sua memoria, lo scrittore ricorda con dolore le due interminabili settimane che trascorse nel Nord dell’Inghilterra, e più precisamente a Silverdale, in quello che egli stesso chiama «a camp for underprivileged children».357

In una vita caratterizzata da molta solitudine, quelli che Phillips definisce i “twin rails of reading and writing”,358 ovvero la lettura e la scrittura, costituiranno le coordinate interiori della sua esistenza, i punti fermi da cui partire e a cui approdare, capaci di colmare i vuoti e le incomprensioni familiari. Phillips, infatti, non riuscì ad essere sostenuto dal padre nella sua passione letteraria e provava sconforto nel fatto che il genitore si considerasse figlio dell’impero coloniale britannico: «[…] imaginative writing played no part in my father’s colonial education as a subject of British Empire. My father rudimentary schooling never embraced poetic conceits such as those I seemed determined to undulge in. This also contributed to open a gap between us. My father was an immigrant, this he much understood.»359 Quella che è stata definita dallo scrittore come un’infanzia che non lasciò ricordi felici360

fu consolata non 355 http://www.theguardian.com/books/booksblog/2015/sep/08/caryl-phillips-reading-my-way-back-to- the-past-and-the-moors 356 Id. 357 Id.

358 PhillipsC., A New World Order,Vintage,Londra, 2001, p. 4. 359

Jaggi M., “Crossing the River. Caryl Phillips talks to Maya Jaggi”, Wasafiri, 20, (Autumn 1994), p. 26.

106 solo dai libri ma anche dal cinema. Il grande schermo rappresentava per Phillips una passione che stimolava la sua immaginazione, considerata unica amica e forza creatrice.361 A tal proposito, in A New World Order (2001), rivela le sensazioni che la sala cinematografica gli suscitava:

[…] I sit in the dark and imagine, for my immagination is my only true childhood friend. I like to write. I have fallen in love with adjectives; ‘glisten’, ‘glimmer’ and ‘glitter’ are my favourite words. And I love stories. At the end of the screening, I stand while the national anthem is played. I stand, a seven-year-old boy in a cinema at the bottom of a hill in Leeds, and I listen to the turgid tones of ‘God Save the Queen’. And then I step back into the streets and prepare to walk up the hill to my ‘home’.362

Diventato ormai adulto, grazie allo studio intenso e una forte determinazione, Phillips si laureò ad Oxford in letteratura inglese nel 1979, lo stesso anno in cui Margaret Thatcher diventò primo ministro inglese. Di quel periodo ricorda: «I left university when Britain was trying to understand why these truculent Caribbean youths were fighting the police; it was clamouring for an articulate second generation who were not throwing bricks. I was perceived as somebody who could explain».363 Erano anni burrascosi per i giovani caraibici di seconda generazione come lui,364 che cercavano di inserirsi nella società inglese,

361 Phillips C. A New World Order, Vintage, Londra, 2001, p. 4. 362

Id.

363 Jaggi M., “Rites of passage”, The Guardian, Saturday 3 November 2001.

364 È doveroso precisare dal punto di vista generazionale Caryl Phillips può essere considerato

appartenente alla seconda generazione di immigrati caraibici. Tuttavia, Mark Stein in Black British

Literature: Novels of Transformation, propone una struttura tripartita della grande migrazione

caraibica del dopoguerra e sostiene che Phillips appartenga ad una generazione di mezzo (97-99). Questa generazione è costituita da persone nate in una ex colonia che sono state portate in Inghilterra quando erano molto giovani. In quanto tali, si trovano tra due generazioni: «They are neither wholly party to the migrant writers who came to Britain in the 1950s and 1960s, and they are also distinct from the writers born in Britain between the mid-1960s and 1990s» (97). Secondo Stein, gli immigrati della middle generation sono influenzati dalla cultura inglese non solo attraverso l’istruzione coloniale delle loro famiglie, ma soprattutto dal fatto che siano cresciuti direttamente in Inghilterra. Invidiano, quindi, gli immigrati di prima generazione che sono venuti in Gran Bretagna durante l’età adulta e hanno trascorso parte della loro vita nel loro paese di origine ma, allo stesso tempo, mantengono un collegamento con un paese diverso da Gran Bretagna in quanto quel paese resterà sempre il luogo in

107 ma che arrivarono allo scontro continuando le proteste come quelle di Notting Hill iniziate negli anni ’60 dalle generazioni precedenti. L’ambiente claustrofobico inglese, come lo definisce Phillips,365

tracciava una linea netta tra gli immigrati e gli inglesi, un muro, che serviva a tenere le distanze tra us and them / i caraibici e gli inglesi.366 Questa linea non doveva essere oltrepassata perché chiunque lo avesse fatto sarebbe stato ostracizzato e punito. Ledent, in un saggio dal titolo Caribbean Literature: Looking Backward and Forward (2007), afferma che a quel tempo l’Inghilterra offriva agli immigrati tanto lavoro ma la retribuzione era talmente bassa che non permetteva una vita dignitosa.367 Anche trovare un tetto diventava frustrante perché molte persone rifiutavano di concedere le loro case in affitto ai neri: «Discrimination in employment and housing brought home to Caribbean immigrants the fact that before being Britons they were blacks who were likely to be discriminated against».368 Gli scontri contro la discriminazione dei neri si protrassero fino agli anni ’80 e l’emanazione del British Nationality Act del 1981, che revocava ai figli degli immigrati il diritto di cittadinanza inglese, provocò proteste contro le forze dell’ordine anche a Brixton, Southall, Bristol e Liverpool.369 Ovviamente non è in ‘questa’ Inghilterra che Phillips riesce a trovare una risposta alle domande che la sua identità dalle multiple appartenenze già gli poneva. Il suo essere ‘black and British’ lo escludeva cui sono nati. Stein M., Black British Literature: Novels of Transformation, The Ohio State University Press, Columbus, 2004.

365

Phillips C., A New World Order: Selected Essays, Vintage, Londra, 2001, p.244.

366 Id.

367 Ledent B., “Caribbean Literature: Looking Backward and Forward”, Vetas Digital 5.78-79 (January

2007). Disponibile online: http://vetasdigital.blogspot.com/2007/01/caribbean-literature-looking- backward.html

368 Id.

108 dalla società inglese, che entrava sempre più a far parte di una casta che l’autore chiama European tribe/tribù europea.370

Questa situazione sociale lo spinse a rifiutare l’idea «of standing alone with Britain as [his] sole ‘home’»371

e, per questo motivo, considera il viaggio negli Stati Uniti (1978) come quello che più di tutti rafforzò la sua voglia di resistere a tutte le forme di esclusione.372 Mosso dalla necessità di venire a patti con la sua confusione culturale per essere black e British,373 lo scrittore confessa il motivo del suo displacement contrapponendosi al personaggio di Otello:374

I was raised in Europe, but as I walked the tiny streets of Venice, with all their self-evident beauty, I felt nothing. Unlike Othello, I

am culturally of the West. I stood on the Rialto and thought how

much more difficult it must have been for him, possessing a language and a past that were still present. Nothing inside of me stirred to make me rejoice, ‘Ours is a rich culture’, or ‘I’m a part of this’.375

A differenza di Otello, Phillips è cresciuto in Occidente ma condivide con il personaggio shakespeariano un sentimento di

370 Phillips C., The European Tribe, Farrar, Strauss & Giroux, New York, 1987. 371 Phillips C., A New World Order: Selected Essays, Vintage, Londra, 2001, p. 308.

372 Gli Stati Uniti D’America furono per Phillips una grande sorpresa. A sorprenderlo, tuttavia, non

sarà tanto la società americana quanto quella afroamericana. Il senso di appartenenza che caratterizza quella black middle class e il vedere come essa invece (a differenza dell’Inghilterra dove i blacks non

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