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Le identità multiple e la mobilità

I.3 Dall’identità alle identità

I.3.2 Le identità multiple e la mobilità

In questa nuova dimensione, concetti quali nazionalità, identità razziale, etnica e culturale iniziano a vacillare e si assiste all’avanzare di una società multiculturale caratterizzata da quella che il filosofo Édouard Glissant chiama ‘totalità-mondo’.204

Una totalità che, valorizzando la mobilità, diventa lo specchio di migrazioni non solo fisiche ma anche metaforiche e salva l’individuo dalla concezione dell’identità come categoria creata dal sistema stato-nazione:

[…] è l’erranza ciò che spinge l’ente ad abbandonare i pensieri del sistema e a sostituirli con pensieri forse, non di esplorazione, perché questo termine ha una connotazione colonialista, ma di indagine del reale, pensieri di spostamento che sono anche pensieri di ambiguità e di incertezza che ci preservano dai pensieri di sistema, dalla loro intolleranza, dal loro settarismo.205

La differenza, le migrazioni, ma anche le radici culturali e la memoria, trovano, il loro punto d’incontro nelle identità multiple che diventano il nuovo paradigma interpretativo della società contemporanea. Secondo Giorgio Porcelli ciò è dovuto al fatto che i luoghi di sicurezza della modernità non esistono più.206 Questi luoghi – ovvero la famiglia, il lavoro, la cultura, la lingua, l’omogeneità etnica e la religione – non sono più fissi, rigidamente radicati in uno spazio delimitato perché l’uniformità

203 Gorashi H., Multiple Identities between continuity and change, The narratives of Iranian wome in

Exile, in Focaal – European Journal of Anthropology no. 42, 2003: pp. 63-75, p.64.

204 Glissant É., Poetica del diverso, Meltemi, 2004, p.66. 205

Id, p.100.

206 Porcelli, G. Identità in frammenti: prospettive globali di sociologia della conoscenza, Franco

61 sociale, tipica della società moderna, ha lasciato il posto alle differenze culturali.207 Anche Paul Gilroy propone interessanti provocazioni a riguardo, facendo riferimento a James Baldwin208, Richard Wright209 e William Edward Burghardt Du Bois,210ovvero scrittori che sentono di appartenere non solo ad una originaria comunità diasporica ma anche alle culture dei luoghi che abitano. Secondo Gilroy queste personalità artistiche offrono più contesti in cui rivendicare la propria identità, almeno per due ragioni:

The first arises from the urgent obligation to reevaluate the significance of the modern nation-state as a political, economic, and cultural unit. Neither political nor economic structures of domination are still simply coextensive with national borders. This has a special significance in contemporary Europe, where new political and economic relations are being created seemingly day by day, but it is a worldwide phenomenon with significant consequences for the relationship between the politics of information and the practices of capital accumulation. […]The second reason relates to the tragic popularity of ideas about the

207 Id.

208 James Baldwin nasce a New York nel 1924 e viaggia per tutta la sua vita tra Parigi, New York,

Istanbul e la Svizzera dove muore nel 1987. Pubblica la raccolta Notes For A Native Son (1955) e il racconto Giovanni’s Room(1956), discutendo tematiche molto forti, come l'omosessualità e le relazioni tra persone di etnie diverse. Partecipa attivamente al movimento per i diritti civili dei neri e scrive The

Fire Next Time (1963), una raccolta contenente due saggi e considerata una delle più importanti per

quanto riguarda la lotta contro le discriminazioni razziali.

209 Scrittore nato nel Mississippi nel 1908 ma trasferitosi in Francia dopo aver visitato la Spagna

durante il periodo dittatoriale di Francisco Franco, l’Asia, l’America Latina ed il Ghana durante la rivoluzione, Richard Wright pubblica il celebre romanzo Native Son (1940) che influenzerà il pensiero di Caryl Phillips.

210 DuBois, primo studente afro-americano ad Harvard ad ottenere un dottorato di ricerca in ambito

sociologico, conia il termine double consciousness per riferirsi alla multiculturalità della popolazione nera negli Stati Uniti. La “doppia coscienza” di cui parla lo studioso è: «[…] a peculiar sensation,[…] (a) sense of always looking at one’s self through the eyes of others, of measuring one’s soul by the tape of a world that looks on in amused contempt and pity. One ever feels his two-ness, an American, a Negro; two souls, two thoughts, two unreconciled strivings; two warring ideals in one dark body, whose dogged strength alone keeps it from being torn asunder. The history of the American Negro is the history of this strife- this longing to attain self-conscious manhood, to merge his double self into a better and truer self. In this merging he wishes neither of the older selves to be lost. He does not wish to Africanize America, for America has too much to teach the world and Africa. He wouldn’t bleach his Negro blood in a flood of white Americanism, for he knows that Negro blood has a message for the world. He simply wishes to make it possible for a man to be both a Negro and an American without being cursed and spit upon by his fellows, without having the doors of opportunity closed roughly in his face». Du Bois W. E. B., The Souls of Black Folk, Dover Publications, New York, 1903, pp 2-3.

62 integrity and purity of cultures. In particular, it concerns the

relationship between nationality and ethnicity.211

Le motivazioni che Gilroy offre riguardo al concetto di hybrid identity spostano l’attenzione dalla prospettiva strettamente nazionalista, che ha caratterizzato il pensiero euro-americano moderno, a quella della riconsiderazione delle diverse forme culturali. Per secoli, infatti, l’attenzione degli studiosi è stata rivolta al ruolo che la Nazione ha avuto nella formazione identitaria. Tuttavia, secondo l’ideologia nazionalista, la diversità interna rientrava sempre in una sorta di omogeneità nazionale: qualunque differenza etnica esistesse tra i cittadini era tenuta assieme dalla loro cittadinanza che li distingueva dalle ‘altre’ nazionalità. Già nel 1966, Berger and Luckmann ribaltano questa ideologia. Essi preparano così il terreno per un’idea diversa del concetto di identità affermando che, pur essendo oggettivamente associata ai luoghi in cui gli individui abitano nel mondo, essa si forma: «[…] only along with that world. […] [A] coherent identity incorporates within itself all the various internalized roles and attitudes».212

È Stuart Hall ad assumere una posizione più decisa. In Ethnicity: Identity and Difference (1991) Hall parla dell’identità in termini di unsettled space213 poiché essa è una sorta di questione aperta, irrisolta, che non può essere considerata come un punto fisso o un terreno di azione. Essa è piuttosto un processo proprio in quanto scissa: «Identity is not a fixed point but an ambivalent point. Identity is also the relationship

211 Gilroy, Paul. The Black Atlantic: Modernity and Double Consciousness, Harvard University Press,

Cambridge, 1993, p.481-482, corsivo mio.

212

Berger P., Luckmann T., The Social Construction of Reality: A treatise on the sociology of

knowledge, Anchor Books, New York, 1966, p.132.

63 of the Other to oneself».214 Negli anni ‘90 del Novecento queste riflessioni spingono Katzenstein, Jepperson e Wendt ad affermare che il termine identità fa implicitamente riferimento a: «[…] mutually constructed and evolving images of self and other».215 Richard Handler, invece, ricorda che le culture ed i gruppi sociali ad ogni livello analitico – locale, regionale, nazionale o transnazionale - devono essere interpretate come processi in corso di “costruzione” e “negoziazione”;216 egli denuncia la sterilità nel considerare concetti quali nazione, etnia, cultura e tradizione entità immutabili. Tra i pionieri di questa filosofia vi è anche Homi Bhabba che si oppone ad uno storicismo retrogrado che continua a dominare il pensiero critico occidentale:

The move away from the singularities of ‘class’ or ‘gender’ as primary conceptual and organizational categories, has resulted in an awareness of the subject positions - of race, gender, generation, institutional location, geopolitical locale, sexual orientation - that inhabit any claim to identity in the modern world. What is theoretically innovative, and politically crucial, is the need to think beyond narratives of originary and initial subjectivities and to focus on those moments or processes that are produced in the articulation of cultural differences. These ‘in-between’ spaces provide the terrain for elaborating strategies of selfhood - singular or communal - that initiate new signs of identity, and innovative sites of collaboration, and contestation, in the act of defining the idea of society itself.217

Considerando la nazione in termini di ibridità, liminalità, in- betweenness, il pensiero di Bhabha è fortemente innovativo e sovversivo in quanto considera lo Stato-nazione come uno spazio interstiziale capace di contenere diverse identità e di ri-definire le nostre società senza

214

Id. p.15

215 Jepperson R. L., Wendt A. e. Katzenstein P.J., ‘Norms, Identity and Culture in National Security’,

in The Culture of National Security: Norms and Identity in World Politics, (a cura di) Peter J. Katzenstein, Columbia University Press, New York, 1996, p.59.

216

Handler R., ‘Is Identity a Useful Cross-Cultural Concept?’ In Commemoration: The Politics of

National Identity, ed. John R. Gillis, Princeton University Press, Princeton, 1994, p. 27.

64 rinchiuderle in categorie precostituite o confini nazionali. Anche la filosofia di Clifford e Said dialoga con quella di Bhabba. L’autore di The Predicament of Culture (1988) si chiede apertamente: «Yet what if identity is conceived not as a boundary to be maintained but as a nexus of relations and transactions actively engaging a subject?».218 Said, in Culture and Imperialism (1993), invece, concorda con il rifiuto dell’unicità identitaria e denuncia il carattere escludente delle etichette sociali affermando che:

No one today is purely one thing. Labels like Indian, or woman, or Muslim, or American are not more than starting-points, which if followed into actual experience for only a moment are quickly left behind. Imperialism consolidated the mixture of cultures and identities on a global scale. But its worst and most paradoxical gift was to allow people to believe that they were only, mainly, exclusively, white, or Black, or Western, or Oriental. Yet just as human beings make their own history, they also make their cultures and ethnic identities. No one can deny the persisting continuities of long traditions, sustained habitations, national languages, and cultural geographies, but there seems no reason except fear and prejudice to keep insisting on their separation and distinctiveness, as if that was all human life was about.219

Il pensiero di Said, pur essendo incentrato sul divario tra le culture occidentali e quelle orientali, può essere considerato come un modo alternativo di guardare alla storia dell’uomo, perché questa prospettiva si basa sulla volontà di abbattere le barriere che dividono le culture. Lungi dall’idea che si debba dimenticare la storia delle guerre per la conquista dei territori, Said afferma che la questione dell’identità non riguarda solo “soldati e cannoni” ma anche «ideas, about forms, images and imaginings».220 Non si può, a tal riguardo, non citare un altro saggio di

218

Clifford J.,The Predicament of Culture, Harvard University Press, Cambridge, 1988, p. 344.

219 Said E., Culture and Imperialism, Vintage Book, New York, 1993, p. 336. 220 Id, p. 242.

65 Stuart Hall dal titolo Who needs identity? (1996). Ponendosi domande sulla logica del discorso identitario, Hall ribadisce che, nonostante le identità siano state concepite come elementi stabili in modo da essere un’ancora di salvezza per un mondo in rapido cambiamento; in realtà, è proprio attraverso le differenze e i cambiamenti culturali che esse si costruiscono:

Throughout their careers, identities can function as points of identification and attachment only because of their capacity to exclude, to leave out, to render ‘outside’, abjected. Every identity has at its ‘margin’, an excess, something more. The unity, the internal homogeneity, which the term identity treats a foundational is not a natural, but a constructed form of closure [....].221

Una provocazione del genere rifiuta la capacità di esclusione dei popoli e implica che il fondamento costitutivo delle identità non debba più coincidere con i confini geografici o con una visione monoculturale della società.222 Bisogna precisare, però, che nel caso di Caryl Phillips l’enfasi posta sulla sua condizione di displacement non scaturisce solo da un punto di vista biografico. La capacità di inglobare identità multiple nella propria personalità è dovuta anche al rifiuto persistente delle etichette che la critica ha cercato di attribuirgli. Infatti, tra i tanti studiosi che si sono interessati alle opere di Caryl Phillips, alcuni gli hanno impresso una sorta di etichetta geografica e/o letteraria.223 Rini Vyncke lo

221 Hall S., “Introduction: Who Needs ‘Identity’?’ in Questions of Cultural Identity, di Hall S., Du Gay

P., Sage, London etc., 1996, p. 5.

222 Floriani S., Identità di frontiera: migrazione, biografie, vita quotidiana, Rubbettino, Catanzaro,

2004.

223 In un’intervista ad Anita Sethi, Caryl Phillips afferma che anche l’accettare l’etichetta di “scrittore”

può essere un “noose around the neck”, ovvero, un cappio al collo. Cfr. http://www.independent.co.uk/arts-entertainment/books/features/caryl-phillips-i-prefer-not-to-raise- my-head-above-the-parapet-1688887.html

66 ha definito «a second generation postcolonial author»224, mentre, Elena Machado Sáez, in Postcoloniality, Atlantic Orders, and the Migrant Male in the Writings of Caryl Phillips (2005), scrive che Caryl Phillips fa parte della generazione di scrittori caraibici postcoloniali.225 È opportuno, inoltre, ricordare che Caryl Phillips è stato inserito sull’enciclopedia on line di scrittori postcoloniali226 sotto la voce “Caribbean”. Eppure la consapevolezza di non appartenere soltanto alla black working-class dello Yorkshire227 in cui è cresciuto, spinge Phillips a rifiutare tutte le etichette con cui è stato definito per affermare: «I resist being labelled, but it took me a while to realize I didn’t have to make my life a narrative of resistance. Within myself I contain many worlds; I want to embrace all of them».228 La conseguenza diretta delle sue migrazioni sono, infatti, i diversi mondi contenuti nella sua personalità artistica. Anche Axel Stahler conferma l’impossibilità di imprimere un’etichetta alla personalità di Phillips:

Himself of mixed ancestry (African, European, Indian, and Jewish), his writing making ample use of postmodern narrative techniques, resorting to an impressive range of intertextuality, and often designated postcolonial or Caribbean, black British, British and, more recently, also AfricanAmerican, Phillips is an author who cannot be labelled – nor does he want to be.229

224 Rini Vyncke, From The Final Passage (1985) to In the Falling Snow (2009): Caryl Phillips as a

Second Generation Postcolonial Author (MA dissertation, Ghent University, Belgium, 2009-2010)

225 Elena Machado Sáez che ha scritto in Postcoloniality, Atlantic Orders, and the Migrant Male in the

Writings of Caryl Phillips, Small Axe, Volume 9, 2005, pp.17-39, p.18.

226 Cfr. www.postcolonialweb.org

227 Phillips C., Color Me English: Migration and Belonging Before and After 9/11, The New Press,

New York, 2011,p.86.

228

Phillps C. cit., in M. Jaggi, Rites of passage, The Guardian, Saturday November 3, 2001.

229 Stähler, Axel, “Not Afraid of Ambiguity”: Caryl Phillips in Interview with Axel Stähler. Anglistik,

67 Stahler considera la scrittura di Phillips come medium for individual and collective self-exploration230 e afferma che in essa si riflettono le sue identità/eredità perché l’autore affronta questioni come il displacement, la memoria e l’identità, usando spesso coppie di opposti come bianco/nero, home/exile, strangeness/familiarity. Non è un caso se nella scrittura phillipsiana i concetti di nazionalità, belonging e identity occupano un ruolo centrale. Phillips sostiene che, nonostante l’innegabile contributo che scrittori di altre nazionalità abbiano dato alla letteratura inglese, la Gran Bretagna resta: «a country for whom a sense of continuity with an imagined past continues to be a major determinant of national identity».231

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