• Non ci sono risultati.

Il trattamento (rieducativo) penitenziario

PROFILI RIEDUCATIVI NEL CONTRASTO ALLA CRIMINALITÁ ECONOMICA

4.2 Il trattamento (rieducativo) penitenziario

Nella prospettiva della rieducazione il trattamento consiste in una “offerta di interventi” diretti a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale, ai sensi dell’art.1 reg. esec. ord. penit. Si sottolinea così il carattere non impositivo degli interventi, che consistono in un insieme esteso di attività, tra le quali quelle che fanno capo ai c.d. elementi del trattamento (art. 15 ord. penit.) e cioè istruzione, lavoro, religione, attività culturali, ricreative e sportive.

L’idea del trattamento penitenziario entra a far parte della cultura penitenziaria nella prospettiva dei limiti al potere nel governo degli uomini “in cattività”. Ai sensi dell’art.1 della legge penitenziaria italiana, “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità umana…[che esso] è improntato ad assoluta imparzialità…”. Alcune opinioni dottrinali sostengono che la pena privativa della libertà non possa mai pregiudicare l’esercizio di ogni altro diritto in capo al detenuto. Se la pena deve rieducare, il trattamento penitenziario risocializzante consiste in quegli istituti e in quelle pratiche volte al perseguimento di tale nobile scopo. L’esperienza di educare i criminali porta considerazioni di pedagogia alla legalità, di inclusione sociale, virtuoso percorso per liberarsi dallo status di escluso e contare come

soggetto storico (Pavarini, Guazzaloca, 2004). Non esiste esperienza detentiva occidentale che non veda nella formazione ed avviamento al lavoro, nell’istruzione di base e nella adesione alle pratiche religiose dei condannati gli strumenti fondamentali di difesa sociale dal crimine. Esiste una fase decisiva, a livello storico e sociale, che si costruisce sul paradigma del deficit nell’interpretazione della esclusione/devianza e che proietta un’immagine di homo criminalis di stampo positivista. È pericoloso chi ha meno, chi ha deficit psichici, affettivi, culturali. Eliminato o ridotto il deficit, eliminata o ridotta la pericolosità sociale. La pericolosità sociale dei criminali si radica quindi nel loro status d’inferiorità e non nella loro natura malvagia. Nel settore delle politiche penali ciò comporta l’imporsi dello scopo special-preventivo della pena. La cultura del lavoro, l’istruzione di base, l’adesione a valori etici e religiosi sono pertanto passaggi quasi obbligati ad ogni processo di inclusione sociale. Ci si chiede, in riferimento all’oggetto della tesi, se tali principi possano essere applicati anche al criminale “white-collar”. Probabilmente, anzi, sicuramente non risultano sufficienti. In effetti, nelle pronunce giurisprudenziali che vedremo in seguito, i requisiti richiesti al colletto bianco per accedere ai benefici penitenziari devono essere caratterizzati da un quid pluris che la Magistratura di sorveglianza sempre ritiene essenziale. Nonostante le pronunce della Cassazione siano volte ad una sostanziale equiparazione tra colletto bianco e criminale convenzionale, nonostante si voglia indicare, ad esempio, l’affidamento in prova al servizio sociale come una pena a tutti gli effetti applicabile a chiunque possieda i necessari requisiti, la Magistratura di sorveglianza si segnala ancora una volta per la sua grande autonomia decisionale. Forse si può condividere questa sua presa di posizione, nel caso in esame, tanto più che quella prima fase tipicamente “special-preventiva” è stata superata e “messa da parte”, per approdare ad ulteriori e diversificati approcci nel corso delle ultime tre o quattro decadi. Procediamo quindi con ordine: avvenuto il superamento di quella prima fase tipicamente “special-preventiva”, una fase successiva si apre su un diverso paradigma: l’illegalità penale non rinvia più ad una alterità deficitaria, ma ad una normalità attratta dalla ricchezza

delle opportunità offerte dalle economie illegali. Se l’etica del lavoro diventa “bolsa retorica” (Pavarini, Guazzaloca, 2004) anche per il marginale mondo degli illegali, la stessa ideologia e pratica correzionale finiscono per perdere la propria egemonia sull’esecuzione penitenziaria e sulla stessa penalità. Con gli anni Settanta del secolo scorso, la riforma penale si orienta nel mondo occidentale verso l’orizzonte della decarcerizzazione, come diversione processuale, pene sostitutive e misure alternative al carcere. La stessa legge di riforma penitenziaria del 1975 e le sue successive modifiche si cimentano nel perseguimento dell’obiettivo del carcere come extrema ratio. Lo scopo dell’integrazione sociale del condannato non necessità più di pratiche correzionali attraverso la privazione della libertà, ma attraverso la diretta presa in carico del deviante nella comunità, nel “territorio”. L’altro carcere, ovvero la penalità nella libertà, che si guadagna attraverso valutazioni di affidabilità situazionale. L’altro carcere è tipicamente riservato ai colletti bianchi, ai nostri giorni; ovvero lo status penale che spetta a coloro che comunque possono essere presi in carico dal sociale, perché più ricchi o meno poveri di altri. Oggi in Italia, su 10 misure alternative almeno 7 vengono concesse direttamente dallo stato di libertà, senza alcun assaggio di pena detentiva, senza alcuna osservazione e trattamento penitenziari (Pavarini, Guazzaloca, 2004). Anche l’epoca d’oro della decarcerizzazione ha visto il suo declino inesorabile, per lasciare il passo alla socializzazione del “to care”, ovvero del farsi carico della problematicità sociale in termini ormai assistenziali, fino alle ultime correnti che segnano il ritorno e l’involuzione del sistema “welfare” al sistema del “prison-fare” (Pavarini, Guazzaloca, 2004). La crescita della moltitudine degli esclusi politicamente rende sempre più difficile il progetto di ordine sociale basato sull’inclusione, lasciando campo libero alla politica più facile e deleteria possibile, ovvero quella della neutralizzazione selettiva della guerra al nemico interno. Ma questa è un’altra storia e un’altra sconfitta, che meriterebbe molto più spazio per essere approfondita di quanto sia qui possibile concederle. Torniamo quindi a noi: il trattamento risocializzante è direttamente mutuato dalle prassi medico-psichiatriche e si costruisce intorno alla triade “osservazione,

diagnosi e cura”. L’art.13 dell’ordinamento penitenziario (ord. penit.) statuisce così che nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenza psicofisiche e le altre cause di disadattamento sociale. L’osservazione è compiuta all’inizio dell’esecuzione e prosegue nel corso di essa. In base ai risultati dell’osservazione, per ciascun internato o condannato saranno formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo e sarà compilato il relativo programma individualizzato, integrabile e modificabile in itinere. La compilazione del programma è assegnata ad una équipe presieduta dal direttore del carcere ed è composta da personale ed esperti che hanno svolto le attività di osservazione della personalità. L’équipe, sul fondamento

dell’osservazione, perviene poi alla compilazione del programma

individualizzato. Tale programma avrebbe dovuto consistere nell’indicazione di un programma personalizzato di azione finalisticamente orientato alla acquisizione di condotte comportamentali idonee e ad una prognosi di non recidività o non pericolosità; acquisizione dedotta dal grado di partecipazione e fruizione del soggetto alle occasioni educative offerte in carcere. Ovviamente tale pratica è rimasta un’illusione: se la partecipazione alle opportunità educative offerte viene valutata, il detenuto aderisce solo in vista di un utile. Pertanto la partecipazione alle modalità trattamentali si realizza solo in quanto il detenuto possa trarne un vantaggio. Nei fatti il trattamento altro non è che lo strumento pratico per misurare il grado di accettazione alla qualità della vita in carcere (Pavarini, Guazzaloca, 2004). L’unico parametro di valutazione della condotta del detenuto è quello che risponde al grado di problematicità o di resistenza dello stesso all’ordine carcerario. Stante che l’amministrazione penitenziaria è cronicamente e colpevolmente carente nell’offerta di servizi trattamentali di natura rieducativa, si determina una situazione di conflittualità tra amministrazione penitenziaria inadempiente e detenuti, che può conoscere esiti di maggior clemenza nell’esecuzione della pena (Pavarini, Guazzaloca, 2004).

L’ordinamento penitenziario indica come elementi del trattamento l’istruzione, il lavoro, la religione, il contatto con la comunità esterna, le attività ricreative, culturali e sportive, i colloqui e i permessi. Proprio questi ultimi possono essere intesi come benefici penitenziari. La dimensione fattuale del lavoro carcerario è allarmante, rispetto alla disciplina codicistica che garantisce il lavoro come obbligo e modalità di esecuzione, non come un diritto (senza alcun riferimento al lavoro forzato): sempre meno detenuti lavorano; i detenuti ammessi al lavoro esterno devono sfruttare le sempre minori occasioni offerte da imprese e amministrazioni penitenziarie, in un’ottica ormai caritativo-assistenziale. La ragione che più comunemente viene addotta del mancato interesse del mercato privato nei confronti del lavoro penitenziario è di tipo organizzativo: i tempi e i modi che consentono ai detenuti di accedere al lavoro esterno o di fruire di regimi alternativi sono quelli della burocrazia penitenziaria, nei fatti incompatibili con i tempi e le modalità che segnano il libero mercato. Tuttavia la ragione più vicina alla realtà rimane quella che considera l’immagine sociale del detenuto come quella di un “trouble maker”, sempre e comunque (Pavarini, Guazzaloca, 2004). Sono previsti anche altri interventi di carattere pedagogico, psicologico e psico-sociologico, curanti in particolar modo i rapporti con la famiglia ed i contatti con il mondo esterno. Tutti questi strumenti costituiscono l’ossatura di un programma articolato la cui finalità non è quella di imporre al soggetto di conformarsi ad un modello determinato, bensì di aiutarlo ad autodeterminarsi ad agire e operare nel quadro del “possibile giuridico”. Il detenuto, si ricordi, è libero di accettare il programma di trattamento predisposto: sussiste unicamente l’obbligo del lavoro, peraltro limitatamente ad alcuni detenuti e ai sensi delle drammatiche situazioni carcerarie del nostro tempo. Da ciò deriva la qualificazione del trattamento come un diritto rinunciabile.

Esattamente prima di affrontare l’affidamento in prova, in ottica “white-collar”, sembra inevitabile ricordare la nuova stagione del lavoro “pedagogico”, l’orizzonte del lavoro riparatorio/sostitutivo. Delle diverse letture offerte dalla dottrina sul “perché” sia emerso il “restorative paradigm” (letteralmente: “paradigma riparatorio”), una più di ogni altra sembra illuminante: il modello

riparatorio/sostitutivo si sviluppa oltre i confini dell’ordine stesso (Pavarini, Guazzaloca, 2004): esso germoglia in territori sociali progressivamente abbandonati dai sistemi formali di controllo. In questi spazi spontaneamente sorge un diverso ordine. In questo contesto politico di dissoluzione, è quindi possibile assistere all’emergere di dinamiche sociali che si pongono come obbiettivo quello di responsabilizzare la società civile, di instaurare nuovamente capacità e virtù di auto-regolamentazione dei conflitti. Questo modello include anche il lavoro di pubblica utilità: o questo modello si orienterà verso il privilegio dei soggetti forti destinando ai più deboli la sola alternativa della definitiva emarginazione sociale, ovvero un decisivo e forte processo di accumulazione di capitale sociale verrà orientato nei confronti delle moltitudini criminali nello sforzo di operare un’integrazione che potrebbe costruirsi attraverso un nuovo scambio sociale, quello compensatorio. L’integrazione sociale passa dall’etica del lavoro all’etica della rassicurazione alla collettività offesa e spaventata dal delitto attraverso l’offerta di prestazioni volontarie socialmente utili (Pavarini, Guazzaloca, 2004).