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EVOLUZIONE “EUROPEA” DEL FENOMENO

2.1 Una criminalità transnazionale

L’evoluzione della criminalità transnazionale vede il ruolo dell’economia legittima come di un attore in grado di fornire a se stesso i servizi illegittimi che comunemente vengono erogati dal crimine convenzionale. È in grado, insomma, di allestire il proprio settore di servizi illegali internamente alle sue attività legali. In un inarrestabile processo di apprendimento, l’economia ufficiale fa proprie alcune modalità illegittime, mentre i gruppi da sempre impegnati nelle attività illegittime cercano di fare ingresso nell’economia ufficiale (Ruggiero, 1999).

Secondo questa visione, le industrie maggiori e le compagnie operanti nel contesto globale dettano il tono morale dell’economia, lasciando però ai settori periferici le procedure sporche. Per questo si parla di imprese criminali: alcuni economisti notano che la fondamentale premessa dalla quale prendono il via le teorie sociologiche applicate al crimine consiste nel ritenere chi commette reati in qualche maniera diverso da chi non ne commette. Assumendo che gli esseri umani siano razionali, anche ai criminali va riconosciuta una razionalità che ne guida l’azione. Ma quali sono le caratteristiche di mercato che determinano quando un’attività criminale diventa organizzata? In questo caso vorrei ricordare

quanto Schelling10 (1967) afferma in uno suo studio: la preferibilità delle attività criminali condotte su larga scala rispetto a quelle condotte in maniera dispersa e disorganizzata. Maggiori sono le dimensioni dell’impresa, maggiore la sua quota di mercato, in maggior misura i suoi costi “esterni” verranno “internalizzati”. Costi esterni, vale a dire costi che cadono sui concorrenti, i clienti e altri soggetti esterni all’azienda. La violenza, ad esempio, può essere interpretata come una componente di questi costi esterni. Così, i membri del crimine organizzato possono avere il comune interesse a ridurre il ricorso alla violenza in modo da ridurre, da un lato, la disapprovazione del pubblico, dall’altro, l’attenzione della polizia.

L’imprenditoria che origina da capitali illeciti sembra costituire l’indotto dell’imprenditoria criminale e, al pari dell’indotto dell’industria lecita, si presenta come un’isola nella quale garanzie e regole sono sospese. Gli imprenditori criminali, nel frequentare il mondo economico legittimo, non rompono alcun legame con i gruppi dediti alla violenza e al crimine. Anzi, proprio il potenziale accesso a questi gruppi viene da loro giocato come arma aggiuntiva e illegittima nei confronti dei concorrenti.

Esiste una sorta di imperativo morale che impone una distinzione tra la logica sottesa alle attività criminali e la logica sottostante ad altre attività economicamente motivate. L’approccio economico può essere in grado di sfuggire a questo imperativo. Il tentativo di affermare una nuova cultura imprenditoriale è informato da un processo che è tecnico, materiale e ideologico. Questo processo può identificarsi con i programmi governativi di privatizzazione. In questo modo, beni e servizi prodotti ed erogati dallo Stato scompaiono dall’”arena pubblica” (Ruggiero, 1999) per essere collocati sul mercato, dove saranno deregolamentati. Ne deriva che i cittadini sono sollecitati a identificarsi con la clientela, i consumatori, gli acquirenti della propria cittadinanza. Per deregolamentazione, andrebbe intesa non la cancellazione delle regole, bensì la dilatazione potenzialmente infinita delle stesse; si intende                                                                                                                

10  Schelling  T.C.,  1967,  “Economic  Analysis  of  Organized  Crime”,  in  “The  President’s   Commission  on  Law  Enforcement  and  the  Administration  of  Justice”,  Government   Printing  Office,  Washington,  DC.  

un processo di creazione di un ordine fattuale sempre più distante da quello normativo, d’interessi sempre più dispersi e sempre meno unificati. Il processo economico ha natura evolutiva, produce incessante cambiamento. L’impulso fondamentale è rappresentato dalla continua apparizione di nuovi beni su scala internazionale, di nuove forme di organizzazione industriale. Parliamo di sviluppo transnazionale, emerso non solo con l’avvento del capitalismo, del libero mercato, ma anche grazie all’avvento di Internet. Rendendo possibile il commercio internazionale in tempi assai rapidi, si è reso possibile il commercio internazionale illegale. L’evoluzione del mercato ha portato all’evoluzione della criminalità, su scale sempre più vaste. Il fenomeno “white-collar”, quindi, deve essere ora considerato alla luce di questa scala transnazionale, con prospettive inimmaginabili fino a qualche decennio addietro. Non sembra possibile configurare una “mappa” del fenomeno da un punto di vista casistico e giuridico. Siamo di fronte, oggi, ad una realtà troppo ampia e diversificata. Possiamo però individuare alcuni settori e alcune pratiche assai utilizzate e note, soprattutto in Europa. Noteremo come il fenomeno non possa essere circoscritto a un ambito meramente economico e commerciale, ma anche politico e amministrativo, un campo in cui il fenomeno in questione trova terreno fertile da sempre. Solo recentemente, infatti, è venuta meno l’incrollabile fiducia dell’opinione pubblica nei confronti delle alte cariche istituzionali.

A tal proposito, tuttavia, occorre considerare una serie di meccanismi di “temperanza politica” (Ruggiero, 1999) che continuano a produrre consenso pur al cospetto del crescente discredito delle élite. In particolare, la scelta del rappresentante politico-istituzionale, spesso, non viene effettuata in base ai meriti dei candidati e delle politiche da loro messe in opera. Rimane, infatti, un forte sentimento di unità tra i più diversi gruppi sociali, sentimento che si deve ad una forte, seppur residua, identificazione di tipo nazionale. Una simile identificazione consiste nel comune sentire, in quell’intesa generale che imprime a un paese un clima fraterno. Questo è, in particolare, il caso dei paesi anglosassoni, soprattutto del Regno Unito, dove da sempre il sentimento di

appartenenza nazionale gioca un ruolo fondamentale nelle dinamiche politiche. Una simile identificazione consente di diluire il risentimento dei cittadini nei confronti della classe politica e imprenditoriale, modificando anche la percezione della condotta delle élite in questione. Come afferma Nelken, le classi dirigenti britanniche godono di maggiore fiducia da parte dei cittadini, di quanto possano vantare le classi analoghe di altri paesi. Una prova di ciò, sta nel fatto che il sistema della giustizia criminale interviene solo di rado nel mondo politico ed economico per sanzionare le condotte illegittime. Questo “ethos gerarchico” (Ruggiero, 1999) si intreccia con un senso di appartenenza che trascende le divisioni sociali. Tutto questo per dire che se, da un lato, la dimensione della criminalità e, in particolare, della criminalità dei colletti bianchi, ha assunto un valore transnazionale e vastissimo, dall’altro la variabile fiducia mantiene il suo valore esplicativo, seppure nei casi in cui la si colloca in contesti di forte identificazione nazionale.

“Si veda, ad esempio, come persino gli appartenenti alle classi meno favorite possano godere, in alcuni frangenti, di una forma di fiducia simile a quella dei potenti[…]: l’unica volta in cui l’opinione pubblica britannica, recentemente, si è mobilitata contro la pena di morte negli Stati Uniti, non è stato forse quando il condannato era un cittadino britannico?” (Ruggiero, 1999, p.167)

Vi è da chiedersi se tutto questo non abbia ripercussioni sulla maniera nella quale la devianza, la criminalità, vengano percepite nel Regno Unito. Secondo quanto afferma Nelken, sembrerebbe proprio di si. Solo l’un per cento del corpo di polizia si dedicherebbe, secondo le statistiche, all’investigazione di frodi e criminalità degli affari, sebbene i proventi di questi reati costituiscano la metà

del danno finanziario provocato dalla criminalità nel suo complesso11. Come nei

romanzi di Conan Doyle, dove i peggiori criminali provengono regolarmente dall’estero, i corrotti non trovano spazio nell’immaginario del paese, che è coeso, integro in tutte le sue componenti.

                                                                                                               

11  Doig  A.,  “A  Fragmented  Organisational  Approach  to  Fraud  in  a  European   Context:  The  Case  of  the  United  Kingdom  Public  Sector”,  in  “European  Journal  on   Criminal  Policy  and  Research”,  1995  

È, forse, la mancanza di senso dello stato o un suo eccesso a determinare il compiersi della criminalità transnazionale dei nostri giorni? Può darsi che sia una delle cause. Risulta problematico e, forse, impossibile rispondere. Siamo di fronte ad una realtà talmente variegata e complessa, a una criminalità che ha assunto proporzioni inimmaginabili. Soprattutto la criminalità degli affari, dove coloro che sono dotati di minore libertà sono anche coloro che, avendo a disposizione poco denaro, sono condotti a investirlo in iniziative i cui esiti non sono in grado di controllare. Le azioni di alcuni soggetti dotati di poca libertà, viene inevitabilmente tradotto in mezzi per il conseguimento di fini di altri attori, generalmente dotati di un maggior grado di libertà. Ad essere problematica, semmai, è la designazione di questi comportamenti come delittuosi, a causa della maggior libertà goduta da coloro che li mettono in pratica. La capacità di controllare gli esiti dell’azione permette a coloro che sono dotati di maggiore libertà di nascondere la natura e le caratteristiche del loro agire (Ruggiero, 1999).

Quando parliamo di transnazionalità, ci riferiamo alla principale preoccupazione che oggigiorno affligge le agenzie istituzionali: l’interdipendenza economica, vantaggiosa per le élite, può contemporaneamente offrire vantaggi e opportunità anche al crimine che diventa, appunto, transnazionale. Sembra proprio che le agenzie, inconsapevolmente (?) accreditino l’idea secondo cui lo sviluppo economico è criminogeno: coloro che promuovono crescita economica promuovono anche culture e opportunità favorevoli al delinquere. Ci si riferisce, in particolare, alle alleanze, agli scambi, ai consorzi tra economia legittima e criminale che danno luogo a zone definite da Ruggiero come “economie sporche” (1996). Prendiamo in considerazione il fenomeno del lavoro irregolare: le forze dell’ordine sono particolarmente efficaci nella ricerca di laboratori illegittimi di produzione e nella persecuzione di lavoratori clandestini. Alcuni casi venuti alla luce in Italia lasciano intravedere una figura particolare di “trafficante-mediatore”. Un’investigazione condotta a Torino, iniziata dopo l’omicidio di un cittadino cinese, risultato poi immigrato irregolare, ha portato allo scoperto un’organizzazione impegnata sia nel trasporto sia nell’occupazione clandestina

di immigrati. I lavoratori venivano tenuti sotto stretta sorveglianza di tipo militare, lavorando per estinguere il debito nei confronti dei trafficanti che li avevano condotti in Italia. La vittima non aveva onorato il debito. Si pensi, in generale, alle numerose agenzie specializzate nel reclutamento di uomini e, soprattutto, donne che lasciano il loro paese alla ricerca di lavoro. La maggior parte finisce per essere collocata nel mercato dei lavoratori domestici. Queste

donne12, vittime dell’inganno organizzato, rimangono coinvolte in un legame di

tipo debitorio che non vede possibilità di rescissione. Prima ancora di mandare soldi a casa, che è poi l’unica ragione del loro emigrare, si trovano a dover onorare il debito.

È evidente, da parte di Ruggiero come di altri studiosi contemporanei, la volontà di non scartare nessuna ipotesi che possa spiegare e inquadrare il fenomeno criminale, nel nostro caso la criminalità “white-collar”. D’altronde lo stesso Sutherland ammette, al di là della teoria dell’associazione differenziale, come il risultato finale della devianza sia sempre costituito da una commistione di cause. La teoria da lui avanzata si presenta come onnicomprensiva, ma non ha mai veramente disdegnato l’apporto di altri fattori, come quelli presi in considerazione dagli autori contemporanei.