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Il video come strategia di accesso al campo

di Massimo Cannarella*, Francesca Lagomarsino* e Cristina Oddone*

2. Il video come strategia di accesso al campo

Nel nostro primo incontro formale con l’amministrazione del carcere di Marassi abbiamo intuito che la direzione vedeva la nostra proposta di un laboratorio come un’opportunità di visibilità e propaganda. Ogni carcere è un regno a sé governato da un

sovrano e accade spesso che i direttori accettino di buon grado attività didattiche,

artistiche o professionali che diano lustro alla loro gestione (laboratori di teatro, formazione al lavoro, corsi di ceramica e molte altre). Queste iniziative sono viste non tanto, o non solo, come progetti utili alla rieducazione del detenuto e al suo trattamento, quanto piuttosto come pacchetto di offerte dell’istituto penale. Fare entrare le telecamere in carcere attraverso un laboratorio video poteva essere un modo per mostrare le attività all’interno di Marassi. Al contrario, il documentario mostra un carcere con pochissime opportunità di lavoro per gli interni, dove le possibilità di formazione scolastica e professionale sono limitate, dove, anche a causa del

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sovraffollamento, non esiste un vero e proprio trattamento personalizzato, dove la cura delle malattie diventa standardizzata per ogni sintomo, per ogni detenuto.

Grazie al prestigio simbolico di cui gode un’istituzione come l’Università, e nella fattispecie un gruppo di lavoro già riconosciuto per le ricerche e le iniziative pubbliche realizzate a Genova, non è stato eccessivamente difficile ottenere i permessi per mettere in pratica il progetto. Il laboratorio ha poi avuto un esito diverso rispetto alle aspettative iniziali della direzione, che ha criticato la scelta di raccontare solo ed esclusivamente il punto di vista dei detenuti, escludendo quindi la polizia penitenziaria e le altre categorie professionali che vivono quotidianamente il carcere (medici, educatori, assistenti sociali, ecc.); tuttavia il nostro posizionamento è stato pienamente rispettato, senza alcun tentativo di censurare temi o smussare i passaggi più dolorosi. Ad ogni ingresso a Marassi siamo stati sottoposti a controlli e in ogni spostamento da un padiglione all’altro siamo stati scortati dagli agenti della polizia penitenziaria; al di là di questo, nessuno si è interessato ai contenuti dei nostri incontri, permettendoci un margine di azione significativo nella scelta dei temi e nella relazione con i detenuti. La libertà di movimento di cui abbiamo goduto racconta quanto il carcere – e in particolare un istituto così grande e sovraffollato – sia spesso uno spazio trascurato, un luogo privo di attenzione per le persone e per i processi, che spesso si realizzano nell’indifferenza totale da parte dell’amministrazione. Per esempio, ci siamo accorti che la scelta dei detenuti da coinvolgere nel progetto è stata assolutamente casuale, non era importante chi partecipava ma solo che qualcuno partecipasse: i ragazzi sono stati infatti selezionati in maniera aleatoria dagli educatori, rispettando solo le nostre indicazioni di massima (abbiamo chiesto di poter lavorare con detenuti comuni, italiani e stranieri, alcuni tossicodipendenti, di età compresa tra i venti e i trent’anni) e non hanno ricevuto nessuna informazione sul progetto prima di incontrarci.

Nella prima fase del laboratorio abbiamo realizzato le nostre attività all’interno dell’aula-scuola, che appare nei primi minuti del film, simile alle aule di molti altri penitenziari italiani, dove una televisione, un crocifisso e una cartina dell’Italia si impongono come simboli eloquenti dei poteri che agiscono su quello spazio. In quell’ambiente ristretto, la resa dal punto di vista filmico era scarsa – era quello l’unico set delle nostre rappresentazioni, simulazioni, interviste reciproche, tutte attività

propedeutiche a un lavoro più profondo con i ragazzi – e questa povertà si rifletteva anche in termini di contenuti sulla ricerca. In questo lavoro è stato evidente il modo in cui lo spazio (il setting) in cui si realizza l’incontro tra ricercatori e attori sociali, condiziona fortemente la qualità dei contenuti (espressi in forma di intervista, interazione tra gli attori, presentazione di sé, ecc.). La possibilità di esplorare l’istituto penale nei suoi diversi spazi ha reso più interessante il documentario, realizzando una ricca interazione tra noi, loro e i luoghi che attraversavamo, permettendo di affrontare tematiche diverse e sempre più approfondite. Quella che in un primo momento è stata un’esigenza legata al linguaggio visivo ha condizionato positivamente la risposta degli attori sociali. Come sostengono Pink (2012) e Frisina (2013, 21), l’uso del medium visuale è strettamente legato a una maggiore attenzione teorica alla dimensione spaziale della vita, alla natura poli-sensoriale dei processi cognitivi e all’attenzione verso le pratiche.

Nel rispetto di queste pratiche abbiamo cercato di dare risonanza alle voci dei protagonisti, sviluppando una narrazione che non fosse mera denuncia delle condizioni di vita dei detenuti e allo stesso tempo evitasse di spettacolarizzare la loro sofferenza. Il detenuto ripreso di spalle, le mani appese alle sbarre che si affacciano sul corridoio della sezione, il volto reso anonimo che, con tono incalzante, fa l’elenco delle privazioni subite, oppure le immagini del carcere come residenza di lusso o luogo dove si diventa uomini o veri criminali: queste immagini fortemente stereotipate riecheggiavano nelle parole dei ragazzi durante il nostro primo incontro del laboratorio, prodotto del loro isolamento culturale e dell’immaginario pubblico costruito intorno al carcere dai servizi televisivi, dal cinema, dai giornali, dalla musica e dall’industria culturale in generale.

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Fig. 2 - Il gruppo del laboratorio nel campo da calcio del carcere – estratto dal documentario Loro dentro

Dalle prime risposte altrettanto stereotipate, nel corso del laboratorio abbiamo potuto approdare a un discorso meno urgente e più riflessivo sulla vita all’interno del carcere. La presenza di un etnopsichiatra nel nostro gruppo di lavoro è stata molto utile, guidandoci verso un approccio innovativo rispetto alle nostre normali pratiche etnografiche, favorendo un clima di fiducia reciproca. Attraverso una ricerca azione- terapeutica, abbiamo voluto sperimentare un aspetto che non sempre è tra le priorità di chi fa etnografia: fare in modo che la ricerca avesse effetti positivi sui suoi protagonisti, aiutandoli a interpretare e a dotare di senso la loro vita dentro.

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