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di Massimo Cannarella*, Francesca Lagomarsino* e Cristina Oddone*

1. Racconto di un’etnografia

Il Laboratorio di Sociologia Visuale è approdato al carcere di Marassi in quanto il carcere costituisce spesso una tappa naturale nelle traiettorie biografiche di quelle persone che avevamo già incontrato nel corso delle ricerche sui giovani migranti (Cannarella et al. 2007 ; Queirolo Palmas 2009 ; Queirolo Palmas e Torre 2005). Abbiamo proposto all’amministrazione carceraria un laboratorio visuale formativo1

rivolto ad alcuni giovani detenuti. Ci interessava comprendere il senso di questa tappa

1 Il gruppo di ricerca era costituito da persone con competenze diverse: quattro sociologi del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova (Luca Queirolo Palmas, Francesca Lagomarsino, Massimo Cannarella e Cristina Oddone), uno psicologo (Fabio Seimandi) e un etnopsichiatra (Simone Spensieri) del Ser.T Asl 4 di Lavagna e membro del Centro Frantz Fanon di Torino.

ricorrente nelle biografie di molti giovani maschi in particolare migranti, quasi un rito di passaggio dall’adolescenza alla vita adulta (Oddone e Queirolo Palmas 2011).

L’amministrazione ci ha concesso la sua collaborazione, apparentemente motivata dalla possibilità di offrire visibilità alle buone pratiche del carcere (laboratori formativi, possibilità educative, strutture speciali, etc.), volte a riconfermare la sua supposta funzione riabilitativa e rieducativa.

Il laboratorio aveva il fine esplicito di realizzare un documentario insieme ai detenuti coinvolti. Su nostro invito gli educatori del carcere hanno scelto tra i detenuti comuni con sentenza definitiva una decina di ragazzi, italiani e stranieri, alcuni tossicodipendenti, di età compresa tra i venti e i trent’anni.

Fin dal primo incontro abbiamo cominciato a tenere un diario di campo a più mani: dopo ogni visita ognuno di noi a turno raccoglieva le impressioni e annotava le osservazioni della giornata. Il nostro approccio è stato aperto, senza un indirizzo preciso, decidendo di volta in volta e cercando di interpretare gli umori e le attenzioni del momento; concedendoci un ampio margine di improvvisazione in un contesto poco prevedibile e controllabile da parte nostra. Pertanto il diario è stato un’utile guida durante la ricerca, aiutandoci a ristabilire continuamente i nostri obiettivi, e a definire un orizzonte sempre più preciso. Abbiamo lavorato insieme ai ragazzi a partire da diverse strategie: proiezioni, rappresentazioni dello spazio, simulazioni e troupe itinerante.

Il giorno della presentazione del laboratorio abbiamo esordito con un’installazione, filmando la nostra immagine in tempo reale per proiettarla direttamente sullo schermo alle nostre spalle, il nostro doppio su una parete dell’aula. Nel momento dell’ingresso in aula, l’effetto sui giovani è stato quello di attirare la loro attenzione, sorprendersi, cercarsi nell’immagine sfuocata, riconoscersi.

Negli incontri successivi abbiamo chiesto ai ragazzi di disegnare la propria cella. Compito che alcuni dei ragazzi hanno subito definito inutile – «le celle sono tutte uguali» – ma che, una volta eseguito, ha messo in evidenza le differenze e le analogie nel modo in cui ognuno, soggettivamente, abita lo spazio domestico della cella.

La rappresentazione visiva delle celle eseguita dai ragazzi è un oggetto a partire dal quale cominciare a parlare di sé, delle proprie relazioni, di quello che è per molti il nucleo affettivo centrale della vita penitenziaria: la cella con «i paesani». È la cella la

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dimensione fondamentale dell’esperienza di vita penitenziaria, il vero e proprio «spazio della pena». Per quanto un istituto possa avere grandi saloni, sale colloqui accoglienti per l’incontro con le famiglie, campi da calcio, giardini, orti botanici, la quotidianità dei detenuti si svolge per lo più all’interno dei pochi metri quadrati della cella. Emerge il valore delle appartenenze culturali in carcere e la linea invisibile che separa gli uni dagli altri, la comunità nazionale come protezione in caso di conflitto. Riprendiamo e approfondiamo la questione della vita in cella il giorno in cui cominciamo a lavorare con le telecamere. Non possiamo riprendere le loro celle per due motivi: il primo, e più importante, è il fatto che le celle sono il loro spazio vitale, per poterle filmare dovremmo entrarci dentro accompagnati dagli agenti di sorveglianza, una vera e propria invasione, qualcosa di molto simile ad una perquisizione che coinvolgerebbe anche le persone non coinvolte nel laboratorio. Il secondo motivo è che fino a questo momento l’amministrazione penitenziaria non ci ha concesso il permesso di uscire dalla stanza adibita a scuola. Quindi proponiamo di usare l’aula come set dove ricostruire artificialmente lo spazio di una cella. I ragazzi scelgono di mettere in scena l’arrivo di un nuovo detenuto, il «nuovo giunto» e rapidamente vanno a prendere dalle loro celle oggetti significativi necessari a ricostruire l’ambiente nel modo più realistico possibile.

Tutti in qualche modo hanno partecipato a questa attività, anche solo aiutando a disporre i mobili o preparando l’inquadratura. Abbiamo filmato la scena, una camera fissa e una mobile usata da un ragazzo. Dopo aver girato abbiamo ripreso la riflessione individuale di ognuno su quello che abbiamo messo in scena e filmato. Erano molto emozionati dall’esperienza appena vissuta e nel parlare alla telecamera sono stati molto sciolti, poco artificiali rispetto ai primi esperimenti (diario di campo, 31 marzo 2011).

Altre volte in modo meno elaborato abbiamo simulato il frame del colloquio con l’avvocato, con i familiari. Nel processo di pianificazione, teatralizzazione, riflessione e analisi ogni volta sono emerse le emozioni dei detenuti in una data situazione così come i loro punti di vista − spesso di denuncia − sulla condizione carceraria: la scarsa frequenza di colloqui con avvocati, educatori, psicologi e psichiatri; l’eccessiva

burocratizzazione dei procedimenti per ottenere i colloqui con i familiari, fidanzate o terze persone; l’angoscia dell’attesa; la sospensione esistenziale in attesa di informazioni precise sul proprio destino.

Raccontano come è stato per loro l’ingresso in carcere, innanzitutto il rituale di spogliarsi: «Ti spogliano sempre, ogni volta che entri ed esci da un colloquio, ogni volta che esci per andare in tribunale e quando rientri». A volte per i colloqui obbligano anche i familiari a spogliarsi. I controlli ci sono, sono la norma, ma sono anche discrezionali. L’autorità li applica solo quando lo ritiene opportuno, ma il potere di farlo è costante, permanente e indiscutibile. Riflettiamo insieme sul senso di spogliarsi continuamente. Rispondono che: «è il regolamento», semplice controllo, per evitare che entrino droghe, armi e altre cose, ma anche «per umiliarti» e applicare così un meccanismo intimidatorio (diario di campo, 10 marzo 2011).

Un’ulteriore strategia di stimolo efficace per il loro coinvolgimento è stata la proiezione di estratti di film, sia per comprendere e analizzare il linguaggio filmico ai fini della produzione del nostro video, sia per riflettere sulla propria esperienza.

A circa metà percorso abbiamo ottenuto il permesso di accedere ad altri spazi all’interno del carcere, accompagnati dagli agenti della polizia penitenziaria che non hanno mai interferito con le riprese. Siamo diventati una troupe itinerante, violando i confini degli spazi interni al carcere, permettendo ai ragazzi di accedere a luoghi in parte sconosciuti anche a loro. Alcuni dei ragazzi stranieri non erano mai entrati in sala colloqui, essendo tutti i loro familiari residenti all’estero; la maggior parte di loro non aveva mai avuto accesso alle cucine, dove si entra solo se si ha il privilegio di lavorare come cuoco o lavapiatti. Solo chi svolgeva il mestiere di «scopino» o «spesino» – rispettivamente l’addetto alle pulizie e alla distribuzione della lista spesa, nel linguaggio infantilizzante del carcere – dimostrava di avere una certa conoscenza della struttura. Le riprese all’interno della sala colloqui hanno dimostrato la radicale differenza tra italiani e stranieri, molti dei quali non avevano mai avuto accesso ai colloqui proprio perché, con la migrazione prima e con la detenzione poi, avevano interrotto completamente i rapporti con la famiglia. Trascorrere le ore del laboratorio in uno spazio diverso

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dall’auletta-scuola ha segnato una svolta nel rapporto tra noi e loro e nelle loro motivazioni nei confronti del progetto. Ogni ambiente è divenuto uno stimolo. In ogni

location i ragazzi si sono trovati a occupare lo spazio disponendosi in gruppi, isolandosi

o interagendo con i luoghi.

Lo spazio stimola, evoca storie e narrazioni. Usciti dall’auletta di scuola, fuori dal frame didattico, emergono le persone e le loro relazioni. La sala colloqui, il campo, l’aria, la cella sono ambienti che hanno fatto emergere i corpi con grande violenza. I corpi si mostrano, si scompongono e ricompongono in altri modi. Fuori dall’aula si sono tolti le maglie, si sono sdraiati al sole, hanno giocato a pallone, hanno sudato (diario di campo, 26 maggio 2011).

Le immagini filmate durante il laboratorio sono state montate e proiettate nel corso degli incontri, aumentando il coinvolgimento emozionale al progetto, mettendo in marcia nuovi processi riflessivi, discutendo insieme sui risvolti narrativi.

Durante le attività del laboratorio abbiamo scattato delle fotografie, le abbiamo stampate e distribuite ai detenuti suscitando il loro entusiasmo: sono diventati ricordi da tenere in mano, appendere alle pareti, spedire a un familiare lontano, postare su Facebook una volta fuori.

Il girato è stato montato a mano a mano che il laboratorio procedeva e proiettato nel corso degli incontri, aumentando il coinvolgimento emozionale rispetto al progetto e mettendo in marcia nuovi processi (auto)riflessivi, quindi nuovi risvolti narrativi. Da

stimolo il video è diventato prassi: «fare un video» è stato fin dall’inizio l’accordo

esplicito e l’obiettivo condiviso tra soggetti e ricercatori. Proprio questa pratica comune, che di volta in volta si realizzava in spazi diversi della quotidianità carceraria, ha permesso di affrontare il tema delle differenze tra italiani e stranieri e di toccare temi che difficilmente sarebbero stati affrontati nell’ambito di una tradizionale intervista qualitativa, o nel corso di un colloquio a tu per tu con un ricercatore. L’azione prolungata del laboratorio unita al dinamismo generato dalla presenza del gruppo ha permesso la nascita di una relazione che si è estesa oltre il tempo della ricerca. La motivazione dei ragazzi era legata anche al fatto che le loro storie avrebbero varcato le

mura del carcere; la partecipazione al progetto comportava quindi la prospettiva di un riconoscimento pubblico.

Fig. 1 - L’aula-scuola, che appare nei primi minuti del film, simile alle aule di molti altri penitenziari italiani, con una televisione, un crocifisso e una cartina dell’Italia - estratto dal documentario Loro dentro.

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