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Il video come quadro di una relazione di ricerca dentro la prigione

di Massimo Cannarella*, Francesca Lagomarsino* e Cristina Oddone*

3. Il video come quadro di una relazione di ricerca dentro la prigione

La scrittura etnografica, come il montaggio di un film, è sempre una finzione veritiera, l’artificio di una ricostruzione a posteriori, una narrazione che inevitabilmente corre il rischio di reificare le vite dei suoi protagonisti. Il laboratorio video – negoziato, co- costruito, articolato intorno ad un patto reciproco – ci porta sempre a interrogarci sulla legittimità delle narrazioni prodotte, anche quando «la presa di parola è concordata con gli attori sociali, i quali possono vedere nel rapporto con l’etnografo, nella scelta di

affidare alla sua scrittura informazioni riservate, segrete, o magari strettamente intime, un importante ritorno comunicativo e pragmatico (Dei 2005, 17)». D’altronde, come descrivere (o mostrare) la sofferenza senza suscitare effetti voyeuristici? Come evitare di spettacolarizzare il dolore o di ricorrere alle rappresentazioni sensazionalistiche della cronaca?

Il setting del laboratorio consente di istituire una relazione prolungata nel tempo, a metà strada tra ricerca sociale e vita reale: uno spazio riflessivo in cui convergono e si mescolano gli sguardi dei ricercatori e dei protagonisti della ricerca.

«Come rappresentarsi?»

È la domanda che è sorta in maniera continua ed esplicita nel corso dei nostri laboratori, come stimolo a ri-pensarsi al di là delle comuni rappresentazioni sociali sul

tossico, l’immigrato o il detenuto. Nel tentativo di trovare delle risposte siamo partiti da

quanto è «etnograficamente visibile» (Farmer 2006, 23), ovvero dalla dimensione materiale delle pratiche che abbiamo potuto osservare direttamente all’interno delle istituzioni, per avviare un dialogo con i giovani soggetti e per stabilire il posizionamento dei temi prioritari nelle loro vite: seguendo questo percorso, in carcere sono emerse le questioni dell’isolamento differenziale, della fragilità della salute e della precarietà del lavoro, delle difficoltà legate al permesso di soggiorno.

La mediazione della telecamera ha reso dinamica la nostra relazione, in un circolo continuo e virtuoso tra riprese, proiezione, riflessione, e nuove riprese. In questo modo il video ha contribuito a ridurre i rischi di narrazioni oggettivanti, tipiche dei «saperi esperti», a favore dell’autorevolezza delle voci dei protagonisti e della legittimità dei loro saperi, «saperi assoggettati2».

2 «Con ‘saperi assoggettati’ intendo tutta una serie di saperi che si erano trovati squalificati come non concettuali o non sufficientemente elaborati: saperi ingenui, saperi gerarchicamente inferiori, saperi collocati al di sotto del livello di conoscenza o di scientificità richiesto. Ed è attraverso la riapparizione di questi saperi dal basso, di questi saperi non qualificati o addirittura squalificati: quello dello psichiatrizzato, quello del malato, quello dell’infermiere, quello del medico ma come sapere parallelo e marginale rispetto al sapere della medicina, quello del delinquente ecc. – quel sapere che chiamerei il sapere della gente (e che non è affatto un sapere comune, un buon senso, ma è al contrario, un sapere particolare, locale, regionale, un sapere differenziale, incapace di unanimità e che deve la sua forza solo

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I saperi squalificati (Foucault 1976) dei giovani detenuti divengono così le voci principali della narrazione, in un dialogo costante con i ricercatori, la cui presenza – in termini materiali e analitici – rimane in questo caso fuori campo (Deleuze 1984, 29). Nel caso di istituzioni quali il carcere, i discorsi degli esperti agiscono quotidianamente sugli internati, producendo criminali e malati: le relazioni e i report di educatori, assistenti sociali, psicologi, psichiatri ed altri operatori detengono la prerogativa di costruire i soggetti e il potere di decidere sulle loro vite. Nel caso del laboratorio, abbiamo voluto che i saperi esperti dell’antropologia, della sociologia e dell’etnopsichiatria rimanessero periferici, a-valutativi, ai margini, in un contesto in cui – nonostante una relazione inevitabilmente asimmetrica – assumeva centralità la pratica del fare comune, articolata intorno alla realizzazione di un video.

Il nostro intervento si è quindi orientato in direzione di un reciproco riconoscimento tra ricercatori e ricercati, tra sociologi e giovani migranti, finalizzato alla co-costruzione di un «comune universo etico» (Fanon 201, 126). Tale dimensione di comprensione e riconoscimento della legittimità dell’altro, la creazione di un rapporto di reciprocità e la costruzione di un modo comune di vedere il mondo hanno costituito le fondamenta della nostra ricerca-azione e i presupposti per realizzare il laboratorio-video.

Il processo di montaggio è stato quindi un prolungamento del fieldwork, che ha esteso la convivenza con le voci e le immagini dei protagonisti del laboratorio. Nel processo di selezione dei materiali filmati, abbiamo cercato di conservare e valorizzare l’espressività dei gesti e delle forme del parlare dei soggetti, tratti che necessariamente scompaiono o s’impoveriscono nella traduzione in testo scritto (Friedmann 2006, 9). Il video è certamente un linguaggio più fedele all’oralità: riportando e mantenendo le forme dialogiche, riproduce direttamente il discorso dei personaggi, costruito in presenza del ricercatore. Si tratta quindi di una fonte relazionale, in cui la comunicazione avviene sotto forma di scambio di sguardi (inter/vista), di domande e risposte, non necessariamente in una sola direzione. Nel caso del laboratorio descritto si è trattato di una relazione durata alcuni mesi, dentro la quale abbiamo posto in primo

alla durezza che oppone a tutti quelli che lo circondano) – è attraverso la riapparizione di questi saperi locali della gente, di questi saperi squalificati, che si è operata la critica (Foucault 1998, 16)».

piano i discorsi dei giovani migranti nelle loro manifestazioni più performative, in quanto testi culturali, prodotti di un determinato contesto (Clifford e Marcus 2005, 39).

La maggiore orizzontalità e la liberazione di saperi assoggettati sono punti di forza del lavoro con la telecamera. Un ulteriore aspetto riguarda le conseguenze della proiezione pubblica del materiale prodotto: il film, a differenza di articoli, paper o conferenze, è un oggetto culturale che si presta a una divulgazione ampia e diversificata, non limitata a contesti accademici né a un pubblico di esperti. La proiezione pubblica diventa un evento sociale che chiama in causa tutti i suoi protagonisti, autori/ricercatori e partecipanti insieme: i ragazzi che hanno animato i laboratori hanno presentato il film pubblicamente in diverse occasioni, in un gesto performativo con una forte valenza politica e sociale, che va oltre la semplice decisione di consegnare la propria narrazione all’orecchio del ricercatore. La rivendicazione della propria presenza e legittimità a parlare costituisce, per coloro la cui identità è continuamente costruita dai discorsi dell’istituzione, un passo verso lo status di soggetti.

In conclusione, da una parte il video – come lo spazio per Henri Lefebvre (1976) – può essere considerato un oggetto «sempre meno neutro e sempre più attivo, contemporaneamente strumento e obiettivo, mezzo e scopo, che va ben oltre la categoria di ‘medium’ nella quale spesso viene rinchiuso (Lefebvre 1976, 391)»; dall’altra il laboratorio video, nel contesto fortemente strutturato e oggettivante delle istituzioni, consente di riflettere sui rapporti di forza che esistono tra gli apparati dello Stato e i soggetti. Proprio in questa zona grigia, dove le regole dell’inclusione e dell’esclusione confliggono, si situano le nostre esperienze di video-ricerca, punti di osservazione delle regole della cittadinanza e dei suoi confini (Balibar 2012).

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Fig. 3 - Prigione di Marassi Genova - foto Gabriele Rinaldi, https://it.wikipedia.org/wiki/ Carcere_di_Marassi

Bibliografia

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L’invisible

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