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L’immaginazione tecnologica del documentario imperiale Tecnologia, cinema, ordine imperiale

A discapito dell’intimo legame, cinema e tecnologia sono stati oggetto di un’attenzione estremamente discontinua da parte degli studiosi di cinema, i quali in genere si sono rivolti a brevi lassi temporali in cui l’evidenza estrinseca di una immaginazione tecnologica all’opera era in qualche modo patente, se non addirittura auto-evidente. Una volta superati i sommovimenti del cinema delle origini, “la storia del cinema fu successivamente concepita come un allontanamento dale origini tecnologiche verso le possibilità estetiche che si sono determinate […] quando il cinema cessò di essere una ‘tecnologia’ e divenne invece un’‘arte’”441, è stato osservato. Una simile interpretazione storiografica, retta dal principio teleologico secondo il quale l’evoluzione del cinema corrisponde al progressivo riconoscimento dello statuto di arte, ha condotto alla marginalizzazione non soltanto dei mutamenti tecnologici successivi alla cosiddetta istituzionalizzazione del cinema, ma persino all’essenza stessa del cinema come tecnologia, la quale per molti storici tradizionalisti è stata conseguentemente percepita come una sorta di minaccia al percorso di legittimazione intrapreso dal medium – o piuttosto dalla forma artistica.

Coerentemente, in molti hanno preso in esame l’evidenza della natura tecnologica del cinema esclusivamente di fronte a delle fratture epistemologiche che si manifestano in una sorta di alternanza tra stati di latenza e stati di emergenza. Secondo questa visione, la storia del cinema è poco più che una serie di misure adottate per riassorbire la novità della singola mutazione tecnologica all’interno di strutture di significazione familiari che la rendono quasi impercettibile, come in una sorta di modello narrativo la cui essenza è da ricercarsi nella risoluzione del conflitto e nel conseguente ristabilimento dell’ordine. Una simile visione implica inoltre che “il modo più utile di guardare al medium è nei termini di una più o meno fedele riproduzione audiovisiva della realtà”442, e quindi inevitabilmente conduce a una concezione di storia del cinema che trova la propria misura aurea nella realizzazione di un realismo perfetto attraverso il quale la realtà può essere esperita sullo schermo senza percepire sostanziali differenze dalla realtà mondana443.

441 Bruce Bennett, Marc Fursteanau, Adrian MacKenzie, “Introduction”, in Bruce Bennett, Marc Fursteanau, Adrian MacKenzie (a cura di), Cinema and Technology: Cultures, Theories, Practices, Routledge, New York-London 2009, p. 7. 442 Barry Salt, Film Style and Technology: History and Analysis, Starword, London 1983, p. 26.

443 Cfr. André Bazin, “Le Mythe du cinéma total” (1946), in Qu’est-ce que le cinéma, vol. I, Éditions du Cerf, Paris 1958, pp. 21-26; “L’Évolution du langage cinématographiques”, Ivi, pp. 63-80.Cfr. anche Philip Rosen, Change Mummified, cit.

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La contraddizione è palese: da una parte l’occultamento degli elementi tecnologici e dall’altra il perseguimento di un ideale di realismo che è reso possibile proprio grazie a quei medesimi elementi hanno contributo a depotenziare il valore, almeno per l’elaborazione teorica e di conseguenza storiografica, delle componenti materiali del medium. Questa contraddizione, in buona sostanza, è esemplificata dalla metafora del cinema come “finestra sul mondo”444, che pure oggi ha perso gran parte del proprio lustro. Quel che ne consegue, invece, è una naturalizzazione della visione cinematografica e una sovrapposizione scivolosa tra realtà e impressione di realtà.

Tali questioni non sono affatto estranee al dibattito interno agli studi cinematografici: esse, al contrario, innervarono due delle più influenti svolte della teoria moderna, quella della “apparatus theory” e quella metziana, che a loro volta contribuirono a problematizzare i rapporti tra cinema, realtà, linguaggio e visione senza tuttavia mettere in discussione la questione tecnologica. Che non si tratti di una questione astratta, puramente intellettuale, lo dimostra come la comprensione del documentario continui a essere vincolata dalla percezione di una pretesa neutralità, da una fiducia benevolente nei confronti di ciò che attraverso la tecnologia cinematografica è registrato, rielaborato e proiettato, per giunta tramite un ventaglio di possibilità tecniche molto limitato in confronto alla gran parte delle forme di espressione non meccaniche. Una consapevolezza della natura tecnologica del medium si dà quindi come prerequisito indispensabile per l’esame delle funzioni del documentario, anche e soprattutto in rapporto alla sfera pubblica.

In considerazione di quanto osservato nei capitoli precedenti si comprende che a voler prendere sul serio la convinzione di Walter Benjamin secondo la quale “tutta la tecnologia è, in determinati momenti, testimonianza di un sogno collettivo”445, allora l’Impero sarebbe per la tecnologia del cinema uno di questi momenti. Molti studiosi hanno infatti dimostrato come cinema e ideologia imperiale si formarono in un rapporto di mutua influenza in distinti seppur comparabili contesti nazionali e sociali.

È stato osservato che il cinema “permise di connettere l’ideologia imperiale al tessuto culturale della nazione, e la nazione alla struttura dell’ideologia imperiale”446. Simili proposte, che

444 Cfr. Marco Bertozzi, L’immaginario urbano nel cinema delle origini: la veduta Lumière, CLUEB, Bologna 2001.

445 Walter Benjamin, The Arcades Project (1927-1940), Harvard University Press, London-Cambridge, Mass. 2002, p. 152.

446 Cfr. Kristen Whissel, “Uncle Tom, Goldilocks and the Rough Riders: Early Cinema’s Encounter with Empire”,

Screen, vol. 40, no. 4, 1999, pp. 384-404, p. 404. Sull’intersezione tra cinema, imperialismo e sentimento nazionale cfr.

anche Prem Chowdhry, Colonial India and the Making of Empire Cinema, Manchester University Press, Manchester 2000; David Henri Slavin, Colonial Cinema and Imperial France, 1919-1939: White Blind Spots, Male Fantasies, Settler Myths, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2001; Priya Jaikumar, Cinema at the End of the Empire: A Politics of Transition

in Britain and India, Duke University Press, Durham-London 2006, in part. pp. 65-105; James Burns, Cinema and Society in the British Empire, 1895-1940, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2013, in part. pp. 93-112.

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pure si dimostrano strumenti euristici funzionali all’analisi del cinema di finzione, risultano essere troppo blande e limitanti per rispondere alle complessità innescate dal documentario imperiale.

Quello che il primo mette in scena, come si è già visto, è in essenza un “discorso di sentimentalità” che si rivolge di volta in volta alla formazione di una identità – specificatamente fascista, nazionalista, imperialista e/o distintamente virile – e che si contrappone al distacco tipico di quei discorsi che alimentano il documentario imperiale. Detto altrimenti, i soggetti principali del cinema di finzione (per esempio, l’identità maschile e quella bianca, l’eroismo e il sacrificio, la modernizzazione e l’autorità, il patriottismo e i valori militari, ecc.) non coincidono, né in parte né in maniera traslata, con la logica e la logistica del progetto imperiale raccontato attraverso il documentario. A un “discorso di sentimentalità” che caratterizza il cinema di finzione italiano in colonia si potrebbe dunque opporre un “discorso di sobrietà”, prendendo le mosse dall’assunto secondo il quale, come propone Bill Nichols,

il film documentario ha una forte affinità con quegli altri sistemi non finzionali che compongono ciò che potremmo chiamare il discorso di sobrietà. La scienza, l’economia, la politica, le relazioni internazionali, l’educazione, la religione, il welfare – questi sistemi ritengono di avere un potere strumentale, di poter e dover modificare il mondo, di poter compiere azioni che comportano conseguenze. Il loro discorso ha un’aria di sobrietà del momento che è raramente riferito a personaggi, eventi o mondi fittizi (a meno che non siano simulazioni pragmaticamente utili dei loro analoghi ‘reali’). I discorsi di sobrietà sono sobri perché riguardano relazioni con il reale che sono dirette, immediate, trasparenti. Per loro tramite le cose succedono. Essi sono veicoli di dominio e coscienza, di potere e sapere, di desiderio e volontà447.

Sebbene la definizione di Nichols abbia influito a tal punto sugli studi sul documentario da tradursi in dogma, è necessario ribadirne la natura trans-storica e quindi la possibilità di applicazione limitata alle specifiche circostanze storiche in cui il documentario è stato concepito e praticato in relazione a determinate ideologie (realiste, positiviste, interventiste) e determinate politiche istituzionali. Soltanto alcune forme espressive possiedono i necessari prerequisiti per poter articolare un discorso di sobrietà448.

447 Bill Nichols, Representing Reality: Issues and Concepts in Documentary, Indiana University Press, Bloomington 1991, pp. 3-4.

448 Cfr. Pooja Rangan, “For a Critique of the Documentary Logic of Sobriety”, World Picture, no. 9, 2014,

http://www.worldpicturejournal.com/WP_9/Rangan (ultimo accesso 31 maggio 2015), in cui si propone un brillante rovesciamento della categoria, seppure l’autrice – forse non del tutto accuratamente – associ la categoria nicholsiana e specifiche strategie politiche e pratiche estetiche. Cfr. anche Belinda Smaill, The Documentary: Politics,

Emotion, Culture, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2010, in part. pp. 3-25; Craig Hight, “Beyond Sobriety:

Documentary Diversions”, in Brian Winston (a cura di), The Documentary Film Book, British Film Institute, London 2013, pp. 198-205.

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In simili circostanze, certo, il documentario “funziona” meglio poiché in grado di stabilire delle basi più solide per rendere evidente il discorso di sobrietà al cuore del progetto imperiale: la finzione, al contrario, non può che ricorrere a un insieme di soluzioni retoriche e drammatiche che forzatamente privilegiano allegorie e rappresentazioni simboliche contro la rappresentazione didascalica, spesso didattica, delle intersezioni tra potere, sapere e ideologia. Se accettata, questa argomentazione non consente di sposare l’interpretazione di Ben-Ghiat che vuole che “sia il film di finzione che il documentario a tema imperiale diffusero un nuovo modo di vedere […] che congiunse lo sguardo alla possibilità di infliggere violenza”449.

La maggiore obiezione del caso, a parte trascurabili scetticismi nei confronti di un’effettiva manifestazione di un “nuovo modo di vedere” in una manciata di film narrativi piuttosto convenzionali, consiste nel fatto che assimilare finzione e documentario nella presunta comune capacità di articolare un discorso analogo su tecnologia e visione condurrebbe inevitabilmente a confondere le formazioni discorsive proprie del documentario imperiale. Con apparente gusto del gioco intellettuale, esso potrebbe accostarsi più fruttuosamente ad altri mezzi altrettanto utili per le finalità del progetto imperiale, come per esempio il censo, la mappa e il museo. Come il documentario imperiale, essi permettono al potere coloniale “di creare, sotto il proprio controllo, un paesaggio umano di visibilità perfetta”, il cui “stile visuale […] fu il prodotto di tecnologie di ìnavigazione, astronomia, orologeria, agrimensura, fotografia e stampa, per non dire della profonda forza trainante del colonialismo”450. Non stupisce che la lista di Anderson non includa il cinema: generalmente, infatti, gli storici tendono a sottovalutare non solo il ruolo, ma anche la presenza stessa del cinema in colonia, persino nei casi in cui esso è inteso come mero intrattenimento e mezzo di comunicazione di massa.

Gli storici non sono soliti a includere il cinema tra quelli che Daniel Headrick considera essere gli “strumenti dell’Impero” [tools of empire] nel suo celebre saggio dedicato alle “trasformazioni tecnologiche che permisero l’emersione dell’imperialismo, sia perché ne incentivarono le azioni, sia perché incrementarono gli incentivi stessi”451. La nozione di tecnologia proposta da Headrick è lodevolmente molto più ampia e strutturata di quella, niente affatto inusuale, che la vuole sinonimo di macchine e apparati industriali – a titolo di esempio, egli include tra gli strumenti dell’Impero i battelli a vapore, le mitragliatrici automatiche, il telegrafo e il chinino – ma non abbastanza da includere pure le tecnologie di rappresentazione.

449 Ruth Ben-Ghiat, Italian Fascism’s Empire Cinema, cit., pp. 5-6.

450 Benedict Anderson,Comunità immaginate. Origini e fortune dei nazionalismi, manifestolibri, Roma 1996, or. 1983, pp. 184-185.

451 Daniel Headrick, Tools of Empire: Technology and European Imperialism in the Nineteenth Century, Oxford University Press, Oxford 1981, p. 11.

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Questa obiezione, peraltro facile, è stata sollevata da Paul Landau in un saggio sull’uso della fotografia nel campo dell’amministrazione coloniale in cui si rivendica che “le tecnologie che producono immagini furono anch’esse strumenti dell’Impero [di cui] disseminarono immagini […] altrimenti inaccessibili al grande pubblico occidentale452.

Non riconoscere né l’essenza tecnologica del cinema né la “sobrietà” del documentario imperiale ha una duplice conseguenza: sottovalutare come essi abbiano consentito agli italiani di “vedere”, cioè immaginare, una parte non indifferente della realtà coloniale e ignorare le forme di diffusione di un’immaginazione imperiale specificatamente fascista.

Per esaminare questi due fenomeni è necessario introdurre una nozione cruciale per lo sviluppo della cultura imperialista che lega intimamente tecnologia e discorsi di sobrietà: quella di “enframing”, come sviluppata da Timothy Mitchell in Colonizing Egypt, probabilmente uno dei più influenti libri di storia coloniale mai scritti. Punto di partenza per lo studioso è la riflessione di Heidegger sul mondo come immagine453, a seguito della quale egli postula che “il mondo appare all’osservatore come una relazione tra l’immagine e la realtà, l’una presente ma secondaria e l’altra soltanto rappresentata ma più originale, più reale”454. Per Mitchell, le esposizioni universali ottocentesche in cui le connessioni tra popoli e prodotti venivano organizzate in risposta a logiche radicalmente imperialiste, così da formare un’idea di mondo “di fronte a un pubblico come un oggetto in mostra, pronto a essere visto, indagato ed esperito”455, forniscono una dimostrazione piuttosto incisiva dell’assunto di partenza. Alla base di questa suggestione si ritrova inoltre l’idea che “l’essenza della colonizzazione ha a che vedere più con l’appropriazione e la trasformazione dell‘alterità che con il dominio politico [e ciò è reso possibile] dall’atto medesimo di dare forma di concetto, inscrivere e interagire con gli altri [e] nel presupporre la capacità di ‘rappresentarli’, un verbo che di per sé condensa politica e poetica”456.

L’“enfaming”, che per Heidegger altro non è che l’essenza delle forme di produzione della tecnologia moderna (mentre “poiesis” è il termine che egli utilizza per le forme non

452 Paul S. Landau, “Empires of the Visual: Photography and Colonial Administration in Africa”, in Paul S. Landau, Deborah D. Kaspin (a cura di), Images and Empire: Visuality in Colonial and Postcolonial Africa, University of California Press, Berkeley-London 2002, pp. 141-171, p. 142. Corsivi miei.

453 Cfr. Martin Heidegger, “The Age of the World as Picture” (1938) e “The Question Concerning Technology” (1955), in The Question Concerning Technology and Other Essay, Harper & Row, New York 1977, pp. 3-35 e pp. 115-154 rispettivamente. In più di una occasione Mitchell discute le tesi di Heidegger con una certa approssimazione e pochi scrupoli storiografici. Per questa ragione si è ritenuto opportuno utilizzare le edizioni a cui fa riferimento l’autore e ricorrere nel testo all’espressione “enframing”, la quale, rispetto alle alternative possibili (l’originale “Ge-stell”, la traduzione di Vattimo “imposizione” o quella di Franco Volpi “impianto”), contrassegna un legame più forte con il lavoro di Mitchell che con quello di Heidegger. Cfr anche Martin Heidegger, “La questione della tecnica”, in Id.,

Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano 1976.

454Timothy Mitchell, Colonising Egypt, University of California Press, Berkeley 1991, p. 60. 455Ivi, p. 6.

456 Jean Comaroff, John Comaroff, Of Revelation and Revolution: Christianity, Colonialism and Consciousness in South Africa, vol. I, University of Chicago Press, Chicago 1991, p. 15.

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moderne), nell’accezione di Mitchell corrisponde alla strategia attraverso la quale gli spazi coloniali sono suddivisi, contenuti e articolati in una gerarchia visibile che ha per esito quello di renderli “leggibili come un libro”457. Nel punto di congiunzione tra metafisica della modernità heideggeriana e microfisica del potere foucaultiano prende forma un sistema che illumina il processo di imposizione di un ordine coloniale, il quale è esemplificato da Mitchell nella creazione di un villaggio modello, di un esercito disciplinato e di un sistema educativo “moderno”.

Tenendo a distanza le implicazioni metafisiche, ciò che è particolarmente rilevante per il discorso che qui si porta avanti è il fatto che questa formulazione teorica giustappone in maniera fruttuosa l’ordine coloniale, le strategie di rappresentazione, la tecnologia strumentale e la modernità, e quindi consente di avanzare due proposte specifiche.

In primo luogo, l’“enframing” determina non solo un preciso discorso sulla tecnologia, ma anche, quando applicato al documentario imperiale, uno specifico soggetto – lo spettatore imperialista – che si definisce a partire dalla propria posizione di visione, essendo egli il soggetto a cui il documentario si rivolge per incoraggiarne l’adesione emotiva, politica e ideologica. Una tale proposta non è affatto pacifica dacché presuppone uno spettatore ideale, e non uno reale definito attraverso analisi precipuamente storiografiche o media-etnografiche. D’altronde, ad autorizzare una simile astrazione è proprio la storiografia sul fascismo, la quale è concorde nell’attribuire alla metà degli anni Trenta, e in particolare alla proclamazione dell’Impero, il picco di consenso goduto dal Regime458, una occorrenza che consente di ipotizzare uno spettatore ideologicamente allineato, capace di ritrovare nel documentario imperiale uno specchio delle proprie convinzioni. Egli si distingue dal suo omologo tradizionalmente costruito a partire dalla teoria del dispositivo e dalla teorie sullo spettatore dominanti durante gli anni Settanta (ovvero, lo spettatore voyeurista)459: si può piuttosto presupporre uno spettatore curioso, interessato, definito da una concezione dell’Impero più pragmatica, in qualche misura urgente e sempre

457Timothy Mitchell, Colonising Egypt, cit., p. 33.

458 La questione del consenso di cui la dittatura fascista godette è stata terreno di scontri per almeno tre generazioni di storici, e tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli Ottanta catalizzò quasi interamente il dibattito storiografico attorno al Regime. Per un puntuale resoconto, cfr. Alberto De Bernardi, Una dittatura moderna: il fascismo

come problema storico, Mondadori, Milano 2001 e il meno sistematico Ferdinando Cordova, Il “consenso” imperfetto. Quattro capitoli sul fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010. Tra gli studi a cui si è fatto riferimento, in particolare,

cfr. Renzo de Felice, Mussolini il Duce, vol. I, Gli anni del consenso, 1929-1936, Einaudi, Torino 1974; Philip Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza, Roma-Bari 1975; Alberto Acquarone, “Violenza e consenso nel fascismo italiano”, Storia contemporanea, vol. 10, n. 1, 1979, pp. 145-155; Gabriele Turi, Il fascismo e il

consenso degli intellettuali, Il Mulino, Bologna 1980;Victoria de Grazia, The Culture of Consent: Mass Organization of Leisure in Fascist Italy, Cambridge University Press, Cambridge 1981.

459 Cfr. Judith Mayne, Cinema and Spectatorship, Routledge, London-New York 1993, pp. 53-76; Janet Staiger, Perverse

Spectators: The Practices of Film Reception, New York University Press, New York 2000, pp. 11-42. Alcune questioni

metodologiche presenti in filigrana nel testo provengono da Vinzenz Hediger, “The Existence of the Spectator: A Paradox for Film Theory”, in Alberto Beltrame, Giuseppe Fidotta, Andrea Mariani (a cura di), At the Borders of (Film)

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contingente. I meriti di una simile concezione consistono dunque nel mettere in luce come la natura esotica e i popoli pittoreschi contino poco o punto in rapporto a valori quali disponibilità di risorse, opportunità occupazionali, sicurezza, prosperità e abitabilità dei territori, nonché, infine, gli interessi di un Regime a cui lo spettatore imperialista è supposto credere devotamente o quasi.

In secondo luogo, l’“enframing” richiede che si valutino gli effetti del documentario imperiale non soltanto in rapporto alla rappresentazione, ma anche agli effetti di sapere-potere. Se il cinema può considerarsi strumento dell’Impero, dopotutto, non è per via del fatto che esso produce immagini, come peraltro sostiene Landau, quanto piuttosto per la sua capacità di influenzare comportamenti, credenze, attitudini, percezioni e così via – capacità che per Agamben definisce la nozione di dispositivo (“qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi”460). In prospettiva storiografica, tale capacità coinvolge ciò che apparentemente può considerarsi una facciata vuotamente retorica, ovverosia l’idea di coscienza imperiale. A discapito del proprio valore d’uso per la propaganda più ampollosa, questa idea rende decifrabili i segni di un progetto educativo che mirava a rafforzare negli italiani il senso di appartenenza a una nazione imperiale, a una potenza che con buon diritto reclamava un ruolo di peso nello scenario internazionale. La coscienza imperiale obbliga a rifuggire gli spazi angusti di una nozione di cultura visuale tutta rinchiusa all’interno della definizione di regimi scopici, anche per quei casi in cui questi si intendono come tattiche operazionali con specifiche conseguenze su agency e formazioni discorsive, come appunto nella definizione di Allan Feldman che considera i regimi scopici

Quei regimi che prescrivono modi di vedere e criteri di visibilità degli oggetti e che bandiscono o rendono insostenibili altri modi e altri criteri di percezione. Un regime scopico è un insieme di pratiche e discorsi che stabilisce le pretese di verità, di tipicità e di credibilità degli atti e degli oggetti visivi e i modi di vedere politicamente corretti461.

In altri termini, urge considerare l’imposizione di un ordine imperiale non più come una