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Modi di produzione documentaria all’ora del cimento africano

La guerra d’Etiopia rappresentò un evento di importanza capitale per la storia del documentario italiano nella sua forma più istituzionale. Come si è visto, i compiti di grande responsabilità che furono assegnati al Luce trovarono una risposta forte ed efficace da parte dell’ente, che si mobilitò in maniera non effimera tanto da riformare persino la propria organizzazione interna per l’occasione.

Durante i venti anni di fiancheggiamento al regime, il Luce fu attivamente coinvolto nelle grandi imprese del fascismo (dalla bonifica dell’Agro Pontino alla Seconda guerra mondiale113) e ne sposò le cause, proponendosi di volta in volta come l’organo capace di testimoniare e raccontare sullo schermo le tante trasformazioni che il regime di Mussolini stava imponendo al paese, riuscendo pure a dimostrare un sorprendente equilibrismo tra posizioni, istanze e gruppi di potere contrapposti.

Come scrisse Lando Ferretti, direttore de Lo Schermo e figura che incarnò gli ultimi residui del movimentismo fascista della prima ora, in un articolo significativamente intitolato “Documentario Luce: ‘fonte’ della nuova storia”, “l’illustrare le conquiste del Regime nei più diversi settori; l’esporre aridi veri scientifici col lenocinio suadente di un’arte raffinata; il far penetrare nelle coscienze la necessità di massime igieniche, la santità di ideali religiosi e patrii: tutti questi, ed altri, sono i compiti che il documentario assolve e in virtù dei quali diviene efficacissimo strumento di elevazione sociale”114. La documentazione prima della guerra d’Etiopia e poi della colonizzazione imposero non soltanto una intensificazione dei compiti a cui il documentario era chiamato, ma un sostanziale ripensamento della concezione di propaganda a cui l’Istituto Luce si era affidato sino ad allora.

113 Oltre ai riferimenti bibliografici citati, si segnala l’opera di valorizzazione del patrimonio cinematografico dell’ente compiuta dalla società Istituto Luce – Cinecittà che ha dato origine a una serie di documentari che includono materiali d’archivio spesso molto interessanti, cfr. Anni Luce (Gian Vittorio Baldi, consulenti scientifici Mino Argentieri ed Ernesto Laura, 1987), Le stagioni dell’aquila. Storia dell’Istituto Luce (Giuliano Montaldo, consulente scientifico Ernesto Laura, 2001), Lo sguardo del Luce (Carlo di Carlo, 2014) e i volumi quarto (“Il Regime Fascista”), quinto (“L’Italia fascista”) e sesto (“La politica estera fascista e la guerra”) del cofanetto Storia d’Italia (Folco Quilici, consulenti scientifici Valerio Castronuovo, Renzo De Felice e Pietro Scoppola, 1994-1999). Su casi specifici di coinvolgimento del Luce nei progetti del regime, cfr. anche i film antologici La Roma di Mussolini (Leonardo Ciacci, Leonardo Tiberi, 1995), Spagna 1936-1939. La guerra civile (Leonardo Tiberi, 1997), Etiopia, la conquista dell’impero (Leonardo Tiberi, 2002), E42 EUR. Segno e sogno del Novecento (Leonardo Tiberi, 2002), Il viaggio del Fuhrer in Italia (Leonardo Tiberi, 2007).

114 Id., “Documentario Luce: ‘fonte’ della nuova storia”, Lo Schermo, vol. 1, n. 7, 1936, p. 16. L’articolo è definito “visti gli intenti programmatici, di importanza straordinaria”, in Massimo Cardillo, Il duce in moviola: politica e divismo nei

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Se sul piano istituzionale manifestazioni di questo processo sono state individuate nella creazione del Reparto e nelle conseguenti trasformazioni che questo ha imposto alle attività del Luce, altri piani rivelano una elaborazione e un lavoro di non minore entità.

L’elogio di Ferretti apparse in un numero monografico de Lo Schermo pubblicato con tempismo straordinariamente significativo nel luglio 1936. Nel numero di giugno la rivista aveva infatti salutato la nascita dell’Impero con un editoriale anonimo, in parte già discusso sopra, in cui si sollecitava il cinema italiano tutto a contribuire a portare la vita dell’Impero sugli schermi italiani e d’oltremare115. Già in quella occasione, il Luce fu chiamato in causa con qualche stoccata addolcita da lusinghe: si sostenne, per esempio, che “la folla che una volta accoglieva con segni di malcontento i vari giornali Luce a base di sagre e di stucchevoli curiosità, attende ora con impazienza la fine del film per vedere il documentario dell’A.O.”, e oltre si aggiunse che “sulla base del documentario c’è da lavorare ancora”116.

Il numero successivo prese in esame l’attività dell’Istituto in maniera quanto più possibile completa, lasciando così intravedere, forse non del tutto involontariamente, il doppio filo che univa i destini dell’Impero e quello della propaganda e del documentario117. Nella messe di dati e informazioni si distingue però un intervento, redatto da Corrado D’Errico, che rappresenta a tutt’oggi una delle riflessioni più affilate su una questione sottovalutata dalla maggior parte degli studiosi che, analizzando la produzione documentaria dell’Istituto Luce, hanno sistematicamente enfatizzato il valore di testimonianze, di prodotti di propaganda, di monumenti e, non per ultimo, di documenti, a discapito delle componenti tecniche e formali di quei film.

“Stile ‘Luce’”, così il titolo dell’articolo, ebbe il merito di spostare la questione del valore della produzione dell’Istituto su un piano differente e rileggerne la storia a partire da una prospettiva per molti versi ancora inesplorata118. Il primo equivoco che l’autore tentò di sgombrare era quello della sostanziale equivalenza tra cinegiornale e documentario, che invece venivano specificati come due pratiche sorrette da logiche e ragioni distinte: le caratteristiche del primo (severa selezione dei materiali, velocità narrativa e aderenza immediata ai problemi politici

115 An., “Il cinema per l’Impero”, cit., p. 12. 116 Ibidem.

117 Cfr. Lo Schermo, vol. 1, n. 7, che include articoli concernenti la storia (Giacomo Paulucci di Calboli Barone, “Dodici anni di vita dell’Istituto Nazionale Luce”, pp. 10-12) e la fondazione dell’Istituto (Luciano De Feo, “Come nacque l’Istituto Nazionale Luce”, pp. 20-21), il Reparto Foto-cinematografico per l’Africa Orientale (Giuseppe Croce, “In A.O. col Reparto”, cit.), la produzione di film turistici (Giorgio Ferroni, “Film turistici”, pp. 25-26), il servizio fotografico (Giampiero Pucci, “Foto Luce”, p. 27), l’organizzazione commerciale (Alberto Spaini, “L’organizzazione dell’Istituto Nazionale Luce”, pp. 22-24; Enrico Albanese, “Organizzazione commerciale dell’Istituto Nazionale Luce”, pp. 31-32), il planetario di Roma (Giovanni L. Andrissi, “Il planetario di Roma”, pp. 28-30), la sezione scientifica (Roberto Omegna, “La sezione scientifica dell’Istituto Nazionale Luce”, pp. 33-34) e quella agricola (Alberto Conti, “L’Istituto Nazionale Luce e l’agricoltura”, pp. 35-36), e persino i regolamenti interni (Stefano Giagheddu, “I regolamenti dell’Istituto Nazionale Luce”, p. 39).

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e sociali) risultavano infatti essere incompatibili con la missione del secondo, “la cui funzione artistica e spirituale è di ben diversa ampiezza e di ben più elevato respiro”119. Dopo aver individuato la specificità del documentario nella “questione tipicamente ritmica e musicale” con cui viene declinato uno specifico “punto di vista” sulla realtà, ovvero una interpretazione visiva che crea un’opera in grado di vivere “all’infuori della contingenza dei fatti riprodotti”, l’articolo si districava in una serie di considerazioni che in ragione del loro interesse meritano di essere riportate per esteso.

Il documentario, per considerarsi riuscito, deve mettersi fuori dalla cronaca e riflettere il clima del secolo […] È col documentario che il cinema si addossa la vera funzione di storico e ne sopporta la lusinghiera e tremenda responsabilità particolarmente in un’epoca come la nostra in cui i valori lirici della vita sono portati alla più alta espressione. Da questo violento sollevarsi del tenore ideale la cinematografia di produzione [leggasi il cinema di finzione] doveva necessariamente uscire imborghesita, immiserita, inadeguata alla realtà, desolantemente povera di fantasia di fronte alla nuova sconfinata ricchezza d’immagini che offriva la vita: ma il documentario doveva trarre nuovo ardimento e nuove risorse. Suonava la grande ora. Le folle mareggianti nelle piazze, il lampeggiare dei vessilli, lo sfilare delle legioni, il prorompere delle fanfare, il verbo pronunciato da un risorto arengo, l’argenteo saettare delle aquile armate sulla febbre delle città, gli avrebbero dato nuove ali. Così, mentre la cinematografia di produzione, serrata dalla morsa di un’ormai risolta crisi, languiva, il documentario italiano nasceva, si sviluppava, s’irrobustiva nutrendosi degl’infiniti elementi che gli forniva ora per ora l’impetuoso fiorire di un popolo intero. E presso i volani delle potenziate officine, presso gl’idrovori turbinanti, sull’ondosa terra percorsa dal vomere, nella festività solare delle nuove trebbiature, dietro le eliche rombanti nelle immensità del cielo, sui tagliamare imperiosi nella vastità oceaniche, negli ardenti stadi, nelle vie brulicanti e nelle piazze commosse, gli obiettivi del Luce hanno compiuto una quotidiana e luminosa esperienza, rendendosi sempre più consci della loro missione. L’ora del cimento africano li ha trovati in linea, forti di questa esperienza e orgogliosi di essa, pronti a scrivere sul bianco e nero della celluloide le tappe della nuova storia per farla rivivere davanti al mondo. E la grande impresa ha avuto la sua documentazione in cinquantamila metri di immagini. Dal primo dei documentari Luce, La

battaglia del grano, al più recente, molta strada è stata fatta. Molta se ne dovrà ancora fare, per

raggiungere in pieno le finalità artistiche ed etiche che una produzione simile si propone. Ma l’Istituto si trova nelle condizioni migliori per questo ulteriore balzo in avanti. L’oculata, vasta distribuzione dei mezzi, la generale atmosfera di cooperazione, che gli hanno permesso di editare documentari come quelli sull’Agro Pontino redento, sulle adunate dell’Impero e i diciotto della campagna africana, sono garanzia di un inarrestabile sviluppo. E ne è garanzia l’aperta simpatia

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della folla, che ogni giorno più favorisce il profondo innesto della produzione Luce nella vita nazionale120.

Non è semplice stanare tra gli anfratti di una scrittura tanto convoluta e suggestiva – cinematografica per molti versi – una definizione di “stile ‘Luce’” come quella che il titolo dell’articolo parrebbe proporre.

Ciononostante, tre equivalenze date per scontate nel testo risultano essere meritevoli di una più attenta considerazione.

Quella tra documentario tout court e produzione dell’Istituto Luce, in primo luogo: “il documentario italiano nasceva”, nella ricostruzione tendenziosa di D’Errico, allo scoccare della “grande ora”, ovvero all’indomani della marcia su Roma a cui si allude con un potente vortice di immagini, quindi poco dopo gli ultimi mesi del 1922 (e, in effetti, tra l’aprile e il settembre del 1924 prese forma l’Istituto Luce). Superfluo specificare che il documentario italiano nacque invece molto prima, e già in occasione della guerra coloniale italo-turca del 1911 aveva dato piena dimostrazione del proprio carattere su terreni analoghi a quelli che l’Istituto Luce stava battendo quando l’articolo di D’Errico fu pubblicato121. D’altronde, a margine dell’imprecisione storiografica, di cui certamente l’autore era consapevole, si ammetteva implicitamente che alla metà del decennio in questione potevano considerarsi ininfluenti, se non del tutto trascurabili in una ricostruzione pure faziosa, i tentativi di rivitalizzare la produzione documentaria compiuti al di fuori del Luce, al quale anzi D’Errico chiedeva altrettanto implicitamente un maggiore impegno sul piano del documentario a discapito del predominio del cinegiornale.

In secondo luogo, quella tra “l’impetuoso fiorire di un popolo intero” e la modernità tecnologica, evocata per tramite di un elenco di macchine, luoghi e attività che rimandano per un verso alla meccanizzazione del lavoro e per un altro alla partecipazione delle masse alla vita pubblica.

Infine, quella tra l’inevitabile sviluppo del documentario e le condizioni che determinarono la congiuntura favorevole in cui si trovava il Luce al termine della guerra d’Etiopia, apertura che lascia intendere che gli esiti del lavoro del Reparto Foto-cinematografico per l’Africa Orientale si ritenevano essere una spinta propulsiva importante, se non la principale, per l’evoluzione della produzione Luce, e quindi del documentario italiano nel suo complesso.

120 Ivi, pp. 18-19.

121 Cfr. Sila Berruti, Luca Mazzei, “‘Il giornale mi lascia freddo’. I film dal vero della Libia (1911-1912) e il pubblico italiano”, Immagine: note di storia del cinema, n.s., n. 3, 2010, pp. 53-103; Maria Assunta Pimpinelli, Marcello Seregni, “‘Il cielo in un globo di fumo’: i film ‘dal vero’ nella guerra italo-turca: il caso Cines” e Sila Berruti, Sarah Pesenti Compagnoni, “Luca Comerio in Libia: documenti non ufficiali di una pagina di storia”, Immagine: note di storia del

cinema, n.s., n. 4, 2011, pp. 31-68, pp. 69-94; Luca Mazzei, “La celluiloide e il museo: un esperimento di cineteca

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Da questa prospettiva, dunque, il giudizio di D’Errico suffragava quello di Ferretti riportato poco prima: molta strada era ancora da fare, sostenevano entrambi, ma la via era già stata in gran parte tracciata e non restava che proseguire quel lavoro.

Se sul piano istituzionale il profilo dei direttori del Reparto indica eloquentemente l’importanza che il Luce attribuì all’impresa africana nelle sue differenti fasi, altrettanto può dedursi sul piano tecnico dal profilo degli operatori inquadrati all’interno della sezione distaccata. Essendo infatti l’intero processo di post-produzione realizzato nella sede romana, la figura centrale di stanza in Africa, responsabile dell’esito finale del lavoro del Reparto, è ovviamente quella dell’operatore. Inoltre, la stessa impostazione del Reparto nel settembre 1935, che Ernesto Laura attribuisce in toto a Luciano De Feo senza accreditare alcunché a Paulucci di Calboli, prevedeva che “a campeggiare [fosse stato] l’operatore cinematografico, il tecnico, […] senza avvertire la necessità di una regia”122.

“Chi sono i nostri operatori dislocati nei fronti d’oltremare? Ci sembra tradire un segreto facendo i loro nomi di oscuri e modesti lavoratori” 123, scrisse il giornalista Enrico Fiume in un articolo che magnificava il lavoro del Luce in Africa. Senza tradire alcun segreto, gli operatori foto-cinematografici attivi nel Reparto erano Mario Craveri, Renato Sinistri, Renato Del Frate, Mario Damicelli, Franco Martini, Vittorio Abbati, Ciro Luigi Martino, Bruno Miniati, Guido Giovinazzi e Renato Cartoni124.

Va riconosciuto a De Feo e a Paulucci di Calboli, che si spese personalmente presso le istituzioni per garantire la formazione della squadra, il merito di aver voluto far dialogare competenze e formazioni disparate all’interno di un unico gruppo, consci che il suo lavoro avrebbe potuto rifletterne l’eterogeneità. In effetti, la sola figura con all’attivo esperienze sia nel documentario bellico che in quello coloniale era Mario Craveri, un operatore “in cui l’eccellenza tecnica e la capacità di realizzare ottime riprese ‘sul tamburo’, cioè con immediatezza quando le circostanze esigevano di fissare un evento senza dilungarsi troppo nella preparazione preventiva, si univano a doti di coraggio e di gusto dell’avventura”125. Egli aveva già firmato alcuni tra i capitoli più importanti della storia dell’Istituto Luce (La spedizione Franchetti nella Dancalia [1929],

Lo stormo atlantico [1931], Giornate di fuoco a Shangai [1932] e Camicia nera [Giovacchino Forzano,

1933]), lavorato in giro per il mondo (Nord Africa, Angola, Cina, Giappone, India, Stati Uniti, Dancalia) e conquistato una solida reputazione tra colleghi e giornalisti come il maggior

122 Ernesto Laura, Le stagioni dell’aquila, cit., p. 135.

123 Enrico Fiume, “Cinematografia di guerra sui fronti d’oltremare”, Africa Italiana, vol. 4, n. 5, 1941, pp. 1-6, p- 3. 124 Giuseppe Vittorio Sampieri, “Cinema italiano in AO”, cit., p. 4.

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rappresentante dell’anima “salgariana” dell’Istituto Luce126. A una figura come quella di Craveri furono affiancati i giovanissimi Del Frate, Leonviola e Damicelli, i quali invece provenivano dalle file del cinedilettantismo, Abbati e Giovinazzi, che fino ad allora si erano occupati prevalentemente dell’immagine di Mussolini, e due decani come Martini e Cartoni, rispettivamente operatore del film che sancì la nascita dell’Istituto Luce (Aethiopia di Guelfo Civinini, 1924) e direttore della fotografia di Christus (Giulio Antamoro, 1916) e dei film di Mario Caserini realizzati tra la metà degli anni Dieci e l’inizio del decennio successivo127.

Questa eterogeneità, per l’appunto, fu all’origine di una produzione molto diseguale, che si espresse in maniera goffa e stentata con i primi documentari del Reparto. Dalla fine del mese di ottobre, quindi a pochissime settimane dall’inizio del conflitto, Luciano De Feo fu costretto a rimpatriare per presunte ragioni di salute e rimpiazzato da Corrado D’Errico, a sua volta obbligato a cedere il testimone nel febbraio dell’anno successivo a Giuseppe Croce ancora per ragioni di salute. I due direttori del Reparto sopraggiunti a De Feo impressero un cambiamento assai netto, avendo quest’ultimo “impostato l’informazione dall’Africa come dieci anni prima aveva impostato quella sull’agricoltura”128, ovvero in forme e con soluzioni del tutto inappropriate rispetto a ciò che per il regime la guerra d’Etiopia doveva significare.

Con il nuovo corso, invece, l’eterogeneità del gruppo venne valorizzata fino a divenire un elemento di forza: la collaborazione di professionisti dalle competenze diverse, spesso abbinati per specifiche missioni con il criterio della varietà tecnico-stilistica (a seguire le truppe di Graziani, per esempio, furono incaricate l’ex cinegufino specializzato in riprese aeree Damicelli e il più tradizionalista Martini), diede vita a dei documentari più freschi e vivaci, resi tali anche da una più oculata supervisione degli aspetti tecnici assicurata da D’Errico e Croce.

Cultura sperimentale e modernismo nel documentario dei primi anni Trenta

Al banco di prova rappresentato dalla guerra d’Etiopia, il Luce si fece trovare preparato anche in virtù della ristrutturazione condotta con polso da Paulucci di Calboli all’inizio della sua presidenza. Le vicende sono note, ma vale la pena rievocarle per mettere in evidenza un aspetto molto importante della trasformazione istituzionale operata dal diplomatico siciliano.

126 Gabriele D'Autilia, Luce. L'immaginario italiano, Roma, ERI, 2014, p. 24. Cfr. anche Mario Craveri, “Un operatore tra guerre e rivoluzioni”, Cinema, a. 1, n. 7, 1936, pp. 267-268; Romolo Marcellini, “Mario Craveri, operatore da grande avventura”, Film, n. 18, 1938, p. 5; Ernesto Laura, Le stagioni dell’aquila, cit., pp. 107-114.

127 Cfr. le biografie e le filmografie in Aa.Vv, I cineoperatori. La storia della cinematografia italiana dal 1895 al 1940

raccontatadagli autori della fotografia, AIC, Roma 1999, ad voces.

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La presidenza di Alessandro Sardi, deputato di sangue blu già sottosegretario per i Lavori pubblici, si concluse ingloriosamente nel 1932 con una situazione finanziaria a dir poco disastrata, tanto da costringere Mussolini in persona a commissariare l’Istituto. Nonostante i proclami ottimisti, il commissario Ezio Maria Gray, un altro deputato di provata fede fascista, non fu in grado di scalfire il sistema che regolava la vita dell’ente, una miscela di reti clientelari, nepotismo, corruzione e varie forme di disfunzionalità amministrativa129, e pertanto non fu riconfermato al termine del suo mandato.

Individuato il successore nella persona di Paulucci di Calboli, nell’agosto del 1933 si chiese a questi “di risanare i conti, di riorganizzare gli organi amministrativi, di rinnovare lo scarso, vecchio e in parte malfunzionante equipaggiamento tecnico, di salvaguardare il materiale filmico”, nonché di “riesamina[re] da cinema a fondo l’organico dei dipendenti”130 per licenziare gli elementi improduttivi e consentire l’ingresso di una nuova leva di giovani professionisti. La ristrutturazione dell’Istituto Luce fu parte di un processo analogo, a livello macrostrutturale, che coinvolse l’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il quale sotto la direzione di Galeazzo Ciano nel 1934 fu convertito in sottosegretariato di Stato, e infine ministero, per la Stampa e la Propaganda. In tutto e per tutto, insomma, la ristrutturazione del Luce fu uno dei molti episodi che tra il 1933 e il 1934 restrinsero l’universo mediale in un territorio strettamente sorvegliato dal regime e amministrato dai suoi sottoposti più leali in nome della centralizzazione “di tutti gli aspetti della vita culturale” e del “coordinamento della politica culturale e della propaganda”131.

Quel che ne conseguì fu un profondo rinnovamento interno delle istituzioni controllate dal sottosegretariato, le quali dovettero necessariamente dotarsi di nuova linfa per poter rispondere in maniera adeguata alle aspettative che lo Stato a buon diritto riponeva sul loro rinnovato operato. Il Regime, coerentemente con i presupposti della centralizzazione, mise a disposizione delle istituzioni cinematografiche, e dell’Istituto Luce nello specifico, due fondamentali vivai da cui poter reclutare giovani talenti abbastanza maturi da passare al professionismo: i Cineguf132 e la Scuola Nazionale di Cinematografia133 (poi Centro Sperimentale di Cinematografia).

129 La migliore illustrazione del sistema fu fornita da un revisore inviato dal Ministero dell’Economia per investigare sulla inespiegabile inefficienza dell’Istituto, cfr. Tommaso Lazzari, “Inchiesta sul funzionamento dell’Istituto Luce”, 1933, in ACS, PCM, 1931-33, 3.3.12/29000.17.

130 Silvio Celli, “Nuove prospettive di ricerca”, cit., p. 32. 131 Philip Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., p. 128.

132 Cfr. Mino Argentieri, “Il cinema ai Littoriali”, Bianco & nero, n. 547, 2004, pp. 70-82; Luca La Rovere, “I Cineguf e i Littoriali del cinema”, in Orio Caldiron (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. 5, cit., pp. 85-95; Silvio Celli, “Piccoli cineasti crescono: a passo ridotto con i Cineguf”, in Alessandro Faccioli (a cura di), Schermi di regime, Marsilio, Venezia 2010, pp. 190-200.

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Questo processo non può relegarsi solamente alle dinamiche, tutto sommato naturali, del ricambio generazionale per due ragioni.

La prima, di natura politica, è che quella generazione, raccontata molto efficacemente da