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Su suoni, soggetti e sublime: Cronache dell’Impero La conquista civile spiegata al popolo italiano

Al termine del conflitto il Reparto Foto-cinematografica per l’Africa Orientale trasferì la propria sede da Asmara alla capitale dell’Impero recentemente proclamato, Addis Abeba. Da lì, secondo le parole di Paulucci di Calboli, esso intraprendeva un nuovo compito, “certo più lungo e più ponderoso, sebbene meno arduo, [ovvero quello] di documentare la conquista civile”535. Messe da parte le pressioni dovute all’esigenza di coprire giornalisticamente l’andamento bellico, l’Istituto Luce si trovo così nella posizione di poter pianificare una più accurata propaganda che prendesse in esame ciò che il Regime stava realizzando nelle colonie tanto, così proclamava, per il beneficio dell’economia nazionale quanto per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni indigene536.

Anziché tentare di catturare in immagini tra incertezze e accidenti l’avanzata delle truppe, il nuovo compito assegnato al Luce richiedeva una nuova strategia atta a persuadere il pubblico italiano della bontà dell’operato del Regime nei territori d’oltremare. Se infatti la guerra d’Etiopia, “che può essere considerata per molti versi la ‘guerra del Luce’, l’evento in cui salda il nesso tra mito politico e ossessione organizzativa”, aveva dimostrato “le potenzialità del Luce come strumento di mobilitazione permanente”537, i successivi progetti imperiali necessitavano di profonde mutazioni nell’assetto della propaganda.

Come è stato osservato nei capitoli precedenti, la guerra lasciava il Luce con una promessa difficile da mantenere: garantire la “documentazione” delle attività di colonizzazione, modernizzazione e civilizzazione di cui il Regime proclamava il fiorire in ogni parte dell’Africa Orientale Italiana. Si è visto pure che nei fatti i limiti propri della “conquista civile” determinarono un raffreddamento dell’interesse del regime nei confronti dei territori d’oltremare, che a sua volta svincolò in parte il Luce dagli impegni per una campagna propagandistica paragonabile, almeno nelle dimensioni e nell’impatto, a quella confezionata in occasione della guerra. In altri termini, il Reparto si adoperò con poco entusiasmo e concentrò le proprie attività in operazioni occasionali, spesso finanziate da parti terze.

535 Giacomo Paulucci di Calboli Barone, “Dossier ‘Servizio Fotocinematografico per l’A.O.’, giugno 1936, in ACS, PCM, 1934-36, f. 17.1.3422/36, “Costituzione del Reparto Foto-Cinematografico per l’Africa Orientale dell’Istituto Nazionale LUCE”.

536 Cfr. Ernesto Laura, Le stagioni dell’aquila, cit., pp. 130-143.

537 Liliana Ellena, “Atlante visivo dell’Italia fascista: l’Istituto Luce”, cit., pp. 690-691. Cfr. anche Silvio Celli, “Le guerre del Luce”, cit.

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Nel panorama desolante della produzione imperiale si distinse un tentativo progettuale di ampio respiro che ebbe origine nel 1937 e si protrasse per oltre un anno: .la serie Cronache

dell’Impero, l’unica prova del perseguimento di un rinnovamento strutturale della forma

documentaria e di quella cinegiornalistica, ibridate in una formula che è stata ritenuta essere “il compimento delle rappresentazioni cinematografiche prodotte dal fascismo per mezzo dell’Istituto Luce”538.

La struttura stessa della serie è in qualche modo rivelatrice delle tensioni che la attraversarono. A introdurre ogni episodio vengono utilizzati due cartelli: il primo raffigura un’aquila di marmo, logo utilizzato dal Luce per le produzioni più importanti; nel secondo, invece, il titolo “Cronache dell’Impero” appare sullo sfondo di una statua di Cesare, sulla destra del quadro, e una mappa dell’Africa Orientale, sulla sinistra – quasi a suggerire che l’imperatore romano, rappresentante per eccellenza delle istanze revansciste che il Regime sviluppò per tramite del tema della Romanità, stia reggendo la mappa, e per estensione i possedimenti coloniali, in mano. A rafforzare il messaggio intrinsecamente imperialista il tema musicale riecheggia una celebre marcia trionfale. Ognuna delle tre sezioni che compongono un episodio è introdotta attraverso una mappa della regione in cui essa è ambientata e un’animazione rudimentale in cui, accompagnato da un suono elettronico, un punto “cade” sulla mappa per indicare l’esatta ubicazione del luogo.

Benché i singoli episodi siano realizzati con una certa libertà compositiva e senza una struttura predefinita, un fortissimo legame tra questi è suggerito da “un criterio geografico che ottiene anche cinematograficamente un ottimo effetto e colloca con esattezza gli avvenimenti di fronte allo spettatore [così da dare] una visione della vita che si svolge nell’Etiopia italiana”539. L’affermazione di una coerenza e di un’attenzione sul piano spaziale, ottenuta anche grazie all’uso delle mappe e all’insistenza con cui il commento fornisce dati geografici, rende evidente il tentativo del Luce di perseguire “una immaginazione accurata” a contrastare il rischio di trasformare le colonie in “soggetti di fantasia”540.

Fu infatti della massima importanza per il Luce radicare le attività di cui la serie recava testimonianza a dei territori ben determinati, così che lo spettatore, nella completa ignoranza che pure circondava le attività del Regime oltremare, potesse attribuire una consistenza reale alle miracolose realizzazioni che gli si presentavano davanti gli occhi. Analogamente, l’enfasi posta sul valore di “documentazione” della serie, che costituì appunto la maggiore preoccupazione

538 Gianmarco Mancosu, La Luce per l’Impero, cit., p. 319.

539 An., “La quinta mostra d’arte cinematografica di Venezia. I cortometraggi”, Bianco & Nero, vol. 1, n. 9, 1937, p. 96.

540 Cfr. Pryia Jaikumar, “An ‘Accurate Imagination’: Place, Map and Archive as Spatial Objects of Film History”, in Lee Grieveson, Colin MacCabe (a cura di), Empire and Film, BFI, London 2011, pp. 167-188.

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dell’Istituto Luce, si manifesta fin dal titolo, Cronache dell’Impero, che alludendo all’accuratezza e all’affidabilità giornalistica esalta il valore documentale dei film. Considerato lo scarso entusiasmo che circondava la produzione africana del Luce, Paulucci di Calboli vide nella serie l’occasione per legittimare la presenza, l’autorità e il futuro del Reparto ad Addis Abeba. Essa fu utilizzata, infatti, come una sorta di biglietto da visita presentato a molte istituzioni (in primis la Direzione Generale per la Cinematografia) che credevano che la prosecuzione delle attività del Reparto a guerra conclusa fosse essenzialmente uno spreco di denaro. Non a caso nel gennaio 1937 il primo film della serie fu presentato in persona a Mussolini da Paulucci di Calboli, il quale in una lettera a Luigi Freddi poteva vantare con una punta di rivalsa “l’alta approvazione e l’ambito compiacimento del Capo del Governo”541. Cronache dell’Impero, inoltre, fu il banco di prova progettato per dimostrare inequivocabilmente il ruolo del cinema nella costruzione dell’Impero.

Nei cinque episodi che compongono la serie (o, meglio, nei quattro sopravvissuti), ognuno della durata di circa quarantacinque minuti, il Luce costruì una immagine dell’Etiopia italiana che alternava senza scrupoli di sorta gli esiti dei processi di modernizzazione e quei moduli esotici apparentemente estinti con lo scoppio del conflitto. Scene dei lavori di riqualificazione di Addis Abeba, del sistema postale aereo, dell’estrazione intensiva del platino e della costruzione di un aeroporto si alternano con l’elogio liricheggiante delle proprietà magiche dell’albero del pane, cerimonie copte, paesaggi pittoreschi e rappresentazioni delle popolazioni indigene sorrette dal più becero razzismo. A dispetto della convivenza di modernizzazione ed esotismo, i pochi commentatori che hanno prestato attenzione a questa serie si sono rivolti esclusivamente al secondo elemento, mancando persino di notare tracce dell’esistenza stessa del primo. Mino Argentieri, per esempio, ha dichiarato con malcelato disprezzo che nella serie

si alternavano servizi sul paesaggio africano e sulle risorse naturali delle varie regioni e il colore locale aveva la meglio con lo strascico di riti copti, danze tribali, mitrie tempestate di ori e di gemme preziose. L’impalcatura delle Cronache era lineare, la regia aliena dalla ricerca di effetti, il montaggio piano: cinema da operatori intenti ad ottenere una fotografia nitida senza preoccupazioni compositive542.

Non diversamente, Chiara Ottaviano ha scritto che “i cinegiornali [sic] di Cronache

dell’Impero erano normalmente costituiti da servizi sul paesaggio africano, sulle sue risorse, sulle

541 Lettera di Giacomo Paulucci di Calboli Barone a Luigi Freddi, cit. in Lettera di Luigi Freddi a Celso Luciano, 10 febbraio 1937, in ACS, MCP, Gabinetto, b. 115, f. 16, “Ufficio Stampa e Propaganda in A.O.I. – Reparto Fotocinematografico Luce”.

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tradizioni e sul colore locale”543. Ignorando volutamente le numerose sequenze realizzate con l’obiettivo di documentare l’operato del Regime in colonia, che pure costituiscono la porzione maggioritaria della serie, entrambi gli studiosi mancano di riconoscere all’opera del Luce un benché minimo valore politico, valore tra l’altro che costituiva la ragione stessa della creazione della serie.

Una simile ipotesi di lettura è foriera di equivoci. Si prenda un caso analizzato da entrambi gli studiosi come quello della cerimonia copta del quinto episodio: per Argentieri e Ottaviano esso non è nient’altro che l’ennesima manifestazione di un gusto per l’esotismo che esalta la bizzarria dei rituali religiosi e delle tradizioni abissine. A un esame più attento non dovrebbe sfuggire che l’episodio insiste piuttosto esplicitamente sulla presenza nel posto d’onore di Rodolfo Graziani, all’epoca viceré dell’A.O.I., e sugli omaggi molto riverenti che egli riceve da parte delle più alte cariche del clero etiope. Quello che sembrava essere una gratuita esibizione del peggior razzismo fascista, se invertito di segno, diventa una efficace e acuta dimostrazione del potere coloniale in una forma nemmeno troppo didascalica.

L’esempio riflette una tendenza diffusa e sommamente equivoca nei confronti della produzione dell’Istituto Luce in generale, e di quella più militante in particolare: la certezza, cioè, che essa rifletta sì le posizioni istituzionali del Regime, ma soltanto nella misura in cui queste siano riconducibili ai lati più viscerali e populisti dell’ideologia fascista. In essenza, come si è in parte già visto, si tratta di un’operazione ancora legata a quel paradigma storiografico affermatosi nell’immediato dopoguerra che relegava tra le mura dell’Istituto Luce le forme di un cinema propriamente fascista (così da sterilizzare tutto lo spazio circostante e poter assicurare la fioritura delle fronde dalla dissimulazione onesta), associando per giunta la produzione del Luce agli aspetti più risibili della vita del Regime, dalle coreografie staraciane in giù. Per una istituzione supposta del tutto priva di qualunque forma di agency, come è l’Istituto Luce secondo questa interpretazione, non resta altro da fare che costruire monumenti di celluloide imperituri e malfatti per un sistema che tramite quei medesimi artefatti pretende di dimostrare la propria natura totalitaria.

La conseguenza di questo atteggiamento sul piano dell’imperialismo fascista ha condotto a una regolare sopravvalutazione di alcune formazioni discorsive che sono state ritenute dominanti ben oltre l’esaurimento della loro funzione storica, come per esempio il razzismo. Non che esso non sia un elemento costitutivo l’ideologia fascista, anzi: semplicemente, forzare a tal punto le griglie interpretative da non vedere in una serie che promuove le realizzazioni nell’Impero nient’altro che uno sberleffo delle popolazioni indigene e un’occasione buona per

543 Chiara Ottaviano, “Riprese coloniali: i documentari Luce e la Settimana Incom”, Zapruder, no. 23, 2010, pp. 8-23, p. 14.

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mostrare qualche tramonto equatoriale equivale ad attribuire uno spessore politico, sociale e culturale nullo al lavoro dell’Istituto Luce.

La serie Cronache dell’Impero, in maniera non dissimile dal resto della produzione imperiale del Luce ma con una urgenza maggiore, richiede invece degli strumenti analitici che consentano di prenderne in considerazione le componenti ideologiche a partire dalla consapevolezza delle funzioni che oltrepassano la semplice iterazione e propagazione di alcune idee politiche. È a causa dell’insistenza con cui è stata proclamata la supremazia delle ragioni ideologiche sui posizionamenti strategici, dopotutto, che l’immagine che la storiografia ha fornito del Luce non è altro che quella di uno specchio, di un occhio e di un altoparlante del Regime. Se non è certo possibile negare la dipendenza delle prime dai secondi, quanto meno sarebbe corretto accordare al Luce un margine di autonomia realizzativa, una dose minima di progettualità e una capacità di negoziazione tra istanze diverse e a volte persino contraddittorie: Cronache dell’Impero ne è la dimostrazione.

Le ragioni alla base della scelta di concentrare l’analisi sull’immaginazione tecnologica esibita dalla serie è illustrata in maniera molto esplicita dalla terza sezione del quinto episodio, dedicata alle foreste che coprono un terzo del territorio etiopico e al loro sfruttamento per mezzo dei moderni macchinari italiani. In quella occasione, il commento proclama senza ambiguità alcuna quella che a tutti gli effetti può essere considerata l’argomentazione principale della serie: “Pulegge e motori animano del loro canto incitatore il letargo delle foreste millenarie, che prodigano il legname per le nuove costruzioni”.

Tre i temi suggeriti da questa frase. Primo: lo stato di “letargo” culturale e sociale in cui vivono i popoli colonizzati, la cui arretratezza è affermata essere intrinseca alla loro natura, e quindi incurabile se non per tramite di un intervento esterno. Secondo: la forza redentrice attribuita alla colonizzazione, che viene presentata come un potere incipiente (il riferimento al “canto incitatore”) capace di garantire uno sviluppo e una prosperità altrimenti irraggiungibili. Terzo: il ruolo prominente della tecnologia, esemplificata da “pulegge e motori”, la cui mera presenza autorizza i colonizzatori a compiere tutte le imprese a cui ambiscono. In altri termini, non vi è caso più robusto di Cronache dell’Impero per mettere in luce quale valore la supposta missione civilizzatrice del Regime assegni alla supremazia tecnologia dei colonizzatori.

I rumori del sublime coloniale

“L’impressione è che la colonizzazione fu innanzitutto cinematografica”, ha suggerito Marco Bertozzi, “[poiché] la macchina creata dall’Istituto Luce ratificò la supremazia dell’immaginario

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sulle azioni reali”544. In effetti, Cronache dell’Impero fornisce una delle conferme più esplicite della tesi: in meno di un anno dalla proclamazione dell’Impero le realizzazioni miracolose raccontate dalla serie potevano ritenersi a dir poco improbabili, specie se si tiene conto di come episodi di guerriglia e deboli azioni governative stessero creando più di un ostacolo a quella che il Regime pretendeva fosse la propria missione civilizzatrice.

Ciononostante, l’Etiopia italiana rappresentata nella serie è il luogo in cui la medesima missione fu realizzata in tutte le sue sfaccettature545. Sarebbe inappropriato, tuttavia, liquidare la serie attraverso la tesi semplicistica della falsificazione della realtà con cui spesso e volentieri è stata interpretata la propaganda di Regime, a meno che non si voglia tornare nuovamente al modello euristico dell’almanacco di parate, inaugurazioni e cerimonie e quindi alla ricerca di un consenso titillato con un insieme di rappresentazioni deboli, occasionali e inefficaci, se non addirittura disastrose. È l’evidenza di un valore discorsivo precipuo di cui la tecnologia sembra essere portatrice che legittima, e in qualche modo richiede, una diversa sensibilità nell’approcciare la serie, nonché una problematizzazione dell’interazione di dominio coloniale, tecnologia e strategie di rappresentazione rispetto alla quale è possibile notare anche una certa originalità.

A fornire un ottimo punto di partenza per le due operazioni è la nozione di “sublime coloniale”, proposta e sviluppata dall’antropologo Brian Larkin in un pregevolissimo studio su media e cultura urbana nella Nigeria coloniale e post-coloniale.

Al fine di illustrare la nozione di sublime che propone Larkin è indispensabile gettare uno sguardo sulla sua genealogia. In prima istanza la tradizione romantica europea, e in particolare la lezione di Burke e Kant, è rielaborata strumentalmente dallo studioso per enfatizzare le connessioni tra esaltazione, terrore e relazionalità che costituiscono l’essenza dell’incontro tra l’uomo e la natura (entrambi intesi come soggetti trascendenti e universali). Di seguito, al fine di deprivare la nozione romantica delle proprie radici metafisiche, Larkin si rivolge ad alcuni influenti studi per ripensare il sublime nel suo rapporto con la modernità americana, ovvero per individuarne nel cosiddetto “sublime tecnologico” la sua forma moderna e modernista546. Questo primo grado di rielaborazione del sublime conserva poco della propria derivazione romantica, e non certo per via della transizione da natura a tecnologia che essa propone: il sublime tecnologico, infatti, è un sublime secolarizzato, che dall’accezione tradizionale si distacca fino al

544 Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano, cit., p. 78. Corsivi miei.

545 Si veda, a esempio, il caso dello sviluppo urbanistico di Addis Abeba discusso a conclusione del primo paragrafo del secondo capitolo.

546 Cfr. Leo Marx, La macchina nel giardino: tecnologia e ideale pastorale in America, Edizioni del Lavoro, Roma 1987, or. 1964; David E. Nye, American Technological Sublime, MIT Press, Cambridge, Mass. 1994. Il rapporto è già stato avanzato da Jean-François Lyotard, il quale ha osservato che “il sublime è l’espressione della sensibilità artistica che caratterizza la modernità”, Leçons sur l’analytique du sublime: Kant, Critique de la faculté de juger 23-29, Galilée, Paris 1991, p. 105.

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punto di rifutarne tutto fuorché il valore di rottura che esso impone sul piano dell’esperienza sensoriale. Dopotutto, come ha osservato Thomas Weiskel, “la pretesa essenziale del sublime è che l’uomo può […] trascendere l’umano”547, e se il diciottesimo secolo aveva individuato nella natura il luogo elettivo per un simile processo, è intuibile come nei due secoli successivi una serie di macrofenomeni sociali quali l’urbanesimo, l’industrializzazione, la crescita demografica, la meccanizzazione, ecc. abbiano permesso di spostare la questione sul crinale tecnologico. Al tempo stesso, però, ciò che nel sublime tradizionale pertineva all’individuale e al trascedente, nella sua rielaborazione successiva riguardò la ben più complessa rete di relazioni, tensioni e agenti che costituisce il presupposto della governamentalità. Per David Nye il sublime tecnologico fu “fuso con la religione, il nazionalismo e la tecnologia”, “smise di essere una idea filosofica e divenne una pratica” ed ebbe infine la forza di trasformare “il senso di immensità e di meraviglia dell’individuo nella fede in una grandezza nazionale”548.

Rifuggendo le soluzioni dell’universalismo spesso associato alla tecnologia (con progesso, emancipazione e miglioramento delle condizioni di vita come corollari logici), Larkin dimostra la cogenza di un’analisi che prenda in esame “l’idea che le tecnologie vedano la luce all’interno di specifiche congiunture storiche”, e in particolare nel contesto della Nigeria settentrionale di inizio Novecento in cui “l’uso dell’infrastruttura da parte dei britannici […] si indirizzò e produsse un particolare tipo di soggetto coloniale moderno”549. In relazione a questa istanza dunque il concetto di “sublime coloniale” permette di comprendere “il ruolo che il dominio coloniale ebbe nella rappresentazione della tecnologia e nella tecnologia come rappresentazione”, ovvero come le forme di dominio coloniale abbiano utilizzato l’infrastruttura tecnologica “per provocare il sentimento del sublime non attraverso lo splendore della natura ma attraverso l’opera del genere umano”550.

Riformulato lungo questi assi, il sublime coloniale si regge completamente su una razionalità e su una strumentalità tipicamente post-illuministe. Tuttavia, la proposta di Larkin, pur condividendo con quelle che hanno fondato la teoria del sublime tecnologico un’argomentazione politica forte che riconosce nel sublime l’intenzione “di indicare il senso del potere”551 e di rafforzare la “divisione tra coloro che controllano le macchine e coloro che non lo fanno”552 – posizione, peraltro, prossima a quella di Karl Marx a proposito dei mezzi di produzione –, si distingue per l’individuazione delle due modalità attraverso le quali il sublime

547 Thomas Weiskel, The Romantic Sublime: Studies in the Structure and Psychology of Transcendence, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1976, p. 3.

548 David E. Nye, The American Technological Sublime, cit., p. 43. 549 Brian Larkin, Signal and Noise, cit., p. 21.

550 Ivi, p. 35, p. 36. 551Ivi, p. 42.

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coloniale si manifesta. La prima, piuttosto tradizionale, stabilisce l’intima “differenza e la netta sperazione tra colonizzati e colonizzatori quando la tecnologia è utilizzata per incitare il timore e lo stupore [awe]” e pertiene a una concezione verticale del dominio coloniale come tecnica di sottomissione e di controllo. La seconda, invece, riguarda l’accezione in cui “la tecnologia [è concepita] come un mezzo di sviluppo che, per tramite dell’educazione e dell’apprendistato, addomestica il subrime e in seguito lo distrugge”553.

I due piani corrispondono a due forme tradizionali di dominio coloniale, cioè il dominio diretto e l’assimilazione: nel primo caso il controllo degli apparati tecnologici contribuisce a dare spessore all’opposizione rigida e tutt’altro che dialettica tra colonizzati e colonizzatori, ragione per la quale l’istigazione di terrore e meraviglia negli indigeni per mezzo del sublime coloniale si rivela funzionale al rafforzamento della differenziazione; nel secondo invece la distruzione del